Morire di TSO

Ricordando Francesco Mastrogiovanni… e riflettendo su quel che dobbiamo fare: testi di Angelo Pagliaro, Piero Cipriano, Fatima Mutarelli ripresi da «A rivista anarchica» (*)

È stata emessa la sentenza di 2° grado relativa alle vicende che nel 2009 hanno portato alla morte in ospedale del maestro anarchico Francesco Mastrogiovanni. Sottoposto a un TSO, fu lasciato morire dopo oltre 87 ore di “torture” documentate da un video interno. Giudicati colpevoli anche gli infermieri, ma i medici (pur condannati) possono restare al loro posto.

 

Un trauma collettivo da elaborare

di Angelo Pagliaro

La corte d’appello di Salerno ha condannato, a pene irrisorie, medici e infermieri. Ribaltata la sentenza di primo grado che aveva assolto gli infermieri. Delusione e timore dei familiari dell’insegnante per il reintegro al lavoro del personale sanitario condannato. Il nostro corrispondente dal processo riferisce di quest’ultima sentenza.

«Caro zio Franco, sono TUTTI responsabili della tua morte, medici e infermieri. Ma, ai medici, rispetto alle condanne di primo grado, sono state ridotte le pene e revocata l’interdizione dai pubblici uffici. TUTTI continueranno a lavorare. Continuerà a lavorare il medico che ha ordinato di legarti mentre dormivi, quello che ha deciso che non dovevi essere mai slegato, quello che ha deciso che la tua famiglia era meglio tenerla lontana da te, quello che ti ha sentito russare anche se morto da ore, quello che ha pensato che a un cadavere si potesse fare un massaggio cardiaco. Caro zio Franco, si saranno resi conto di quello che hanno fatto? Grazie a tutte le persone che oggi ci hanno fatto sentire meno soli!».

In questa toccante lettera scritta da Grazia Serra a suo zio, Francesco Mastrogiovanni, all’indomani della sentenza di condanna emessa dalla Corte d’appello del Tribunale di Salerno, il 15 novembre 2016, sono contenute le preoccupazioni di milioni di cittadini europei e non che, in modo diretto o indiretto, sono venuti a conoscenza del dramma vissuto dal maestro elementare e dell’esistenza in Italia di violenze varie e di atti di tortura consumati all’interno delle strutture dello Stato.

Mastrogiovanni è stato sottoposto a una lunghissima serie di umiliazioni e di violenze di cui non avremmo saputo nulla se il PM Rotondo non avesse sequestrato il video durato oltre 87 ore, visto che neanche nella cartella clinica è stata annotata la contenzione fisica.

Dei delitti e delle (inique) pene

«Le pene dovute ai nobili saranno le stesse di quelle stabilite per l’ultimo dei cittadini, anzi il pubblico danno è tanto maggiore quanto più è compiuto da chi è favorito dalla sorte e dalla società». Così scriveva Cesare Beccaria nel suo celebre saggio del 1764 e credo sarebbe cosa buona se i medici e gli infermieri condannati riflettessero su queste parole; loro non vedranno il carcere, perché la sentenza della Corte d’appello di Salerno è tale che non avranno alcun “fastidio”. Al di sotto dei due anni di condanna molto probabilmente si eviteranno persino la radiazione dall’ordine dei medici e dal collegio degli infermieri a conferma che, come affermato dal segretario del Partito Radicale Magi e dall’avvocato Capano: «in Italia le carceri sovraffollate sono riservate solo a immigrati, tossicodipendenti e piccoli spacciatori, magari in attesa di giudizio».

Infermieri responsabili

Avremmo voluto raccontare una storia diversa.

Avremmo voluto scrivere di uno o più infermieri che, constatate le illegalità durate ben quattro giorni che hanno provocato la morte di Franco, avessero slegato il paziente salvandogli la vita e avessero denunciato ai superiori gerarchici e alla magistratura quanto stava accadendo in quel reparto lager. Invece, con la loro ”conformità”, ubbidienza, passività e subalternità, gli infermieri hanno contribuito a rendere emblematico il caso Mastrogiovanni, un uomo spogliato di identità, umiliato, torturato, ridotto ad un oggetto. Nessuno degli undici infermieri condannati ha dato prova di una minima consapevolezza della propria autonomia professionale, mossi forse da un falso senso del dovere meramente procedurale, legato all’esecuzione del comando assegnato loro dai medici. Ricordiamo loro che l’art. 17 del codice deontologico afferma che l’infermiere, nell’agire professionale “è libero da condizionamenti” mentre nell’art. 30 ribadisce che lo stesso “si adopera affinchè il ricorso alla contenzione sia evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali”.

La reazione dei familiari

Caterina Mastrogiovanni, sorella di Franco, intervistata dal TG3 , visibilmente turbata ha dichiarato: «Resto molto delusa, molto delusa soprattutto per il reintegro (del personale sanitario, n.d.a.), mio fratello è stato ammazzato in quel reparto». Anche Grazia Serra, figlia di Caterina e nipote dell’insegnante cilentano che, poco prima dell’ultima udienza, ha promosso una campagna social denominata “Diamo voce a Franco” – alla quale hanno partecipato, con dei contributi video, il regista Paolo Virzì, l’attore Moni Ovadia, il cantautore Eugenio Finardi, lo psicologo Natale Adornetto ecc. – ha dichiarato con forza: «Sono molto preoccupata, è stata sospesa l’interdizione dal lavoro per i medici, noi quello che vogliamo è che non accada mai più e invece questi medici continueranno a lavorare». Se necessario, continua Grazia, ci rivolgeremo alla Corte Europea per i diritti dell’uomo.

I casi Malzone e Vitolo

Alcuni dei medici e degli infermieri condannati per la morte di Mastrogiovanni sono al momento indagati per altri due strani decessi avvenuti nell’ospedale di Sant’Arsenio (SA), dove hanno lavorato dopo la chiusura del reparto del San Luca di Vallo della Lucania. I due pazienti deceduti in regime di TSO sono: Massimiliano Malzone (39 anni) e Carlo Vitolo (40 anni). A seguito dei tanti morti e degli abusi consumati nell’esecuzione dei ricoveri coatti, i Radicali hanno preannunciato che presenteranno, in Parlamento, una proposta di “Legge Mastrogiovanni” che riveda il Trattamento sanitario obbligatorio. Altre battaglie che richiedono la partecipazione dei sinceri democratici sono quelle per l’introduzione nel codice penale del reato di tortura, il superamento delle carceri attraverso l’adozione di misure alternative alla detenzione e lo svuotamento definitivo degli ospedali psichiatrici giudiziari, vera ed incontestabile vergogna nazionale.

angelopagliaro@hotmail.com

 

Come si muore legato a un letto

di Piero Cipriano

Per spiegarlo, un noto psichiatra, da qualche mese collaboratore di «A», invita a pensare alle matrioske o alle scatole cinesi. E dalle vicende ospedaliere, terminate con la morte dell’insegnante anarchico Francesco Mastrogiovanni, ripercorre la sua intera vicenda, da quello scontro con i fascisti a Salerno nel lontano 1973…

La vita e la morte di Franco Mastrogiovanni, se la vuoi provare a capire, devi immaginarla come un incastro di matrioske, o di scatole cinesi, conficcate l’una dentro l’altra, e dunque se vuoi arrivare a comprendere quella più grossa (quella di fuori, sarebbe a dire la sua morte), devi spingerti come uno speleologo fin dentro quella più piccola (quella di dentro).

La matrioska più grande è la sua morte, più grande perché è quella che tutti hanno visto, perché è stata una morte davvero grande, e purtroppo spettacolare, da società dello spettacolo, direbbe Guy Debord, nel senso che se non ci fossero state le telecamere a filmare questa morte, di Mastrogiovanni non sarebbe rimasto niente, una delle migliaia di morti anonime negli ospedali, o nei luoghi della psichiatria.

Invece se la sua morte è stata una morte spettacolare, e lo spettacolo è servito per condannare chi di questa morte è stato responsabile, può darsi non sia stata una morte vana, ma che da questa morte derivi una legge (ovviamente legge Mastrogiovanni) che impedisca a chi ha un ruolo di cura di sequestrare, torturare, e uccidere chi di cure ha bisogno.

Ma torniamo da capo.

La prima scatola. La morte. Per causa di un ricovero.

C’era una ragione per ricoverare quest’uomo in un reparto di psichiatria? Obbligarlo perfino? Sembra di no. Era in vacanza, da un mese alloggiava in un bungalow di uno stabilimento balneare cilentano. La sera del 30 luglio 2009 sarebbe entrato contromano nell’isola pedonale del comune di Acciaroli, anzi avrebbe tamponato ben quattro macchine. Ma nessuno sporge denuncia. La sua macchina è illesa. Eppure un tenente dei vigili di Pollica assicura che, dallo sguardo, si capiva che “non era in sé”, perché era “perso nel vuoto”. Cioè, invece di multarlo, il vigile improvvisa una diagnosi psichiatrica.

Il giorno dopo, il 31 luglio, inizia una caccia all’uomo.

Caccia all’uomo che prende la forma giuridica del Trattamento Sanitario Obbligatorio. Per cui lo vanno a cercare nel bungalow dello stabilimento balneare di San Mauro Cilento, dove non ha mai dato segno di squilibrio, riferisce la titolare (“gli lasciavo i miei nipoti”, precisa).

Qui, alla vista di uno spiegamento di vigili e carabinieri, si allontana in mare, cantando, pare (è un noto anarchico, si dice) una canzone anarchica (Addio Lugano bella). Questa cosa in realtà non è vera. Pare venga ripetuta un po’ per giustificare il ricovero (uno che canta canzoni anarchiche in mare è come minimo eccitato, euforico), un po’ perché, narrativamente, è perfetta (è tutta un’altra cosa impostare un pezzo giornalistico scrivendo della persecuzione di un anarchico braccato dallo stato, piuttosto che dover spiegare che un trattamento simile può capitare a chiunque). Questo suo ripararsi in mare costituisce un ulteriore motivo, per lo psichiatra che lo valuta a settanta metri di distanza e propone il TSO, per far diagnosi di agitazione psicomotoria (che poi non è una diagnosi).

C’è anche una motovedetta in azione, che impedisce a Mastrogiovanni di inoltrarsi in mare, e che allerta i bagnanti, e li avverte di non interferire, perché è in atto una caccia all’uomo. A quel punto Mastrogiovanni, obtorto collo, si consegna alle forze dell’ordine.

Era un noto anarchico

Ma perché è così riluttante a collaborare con le forze dell’ordine, perché è un anarchico, forse, e gli anarchici, si sa, sono per natura idiosincratici con le forze di polizia? No, non per questo.

Bisogna aprire un’altra matrioska. Giusto dieci anni prima, 1999 (ne aveva quarantotto), era stato arrestato, per oltraggio a pubblico ufficiale, dopo essere stato duramente picchiato (motivo: protestava per una multa), sconta alcuni mesi agli arresti domiciliari, fino a essere assolto e perfino risarcito. Ma le botte prese lasciano il segno, disturbo post traumatico da stress potrebbero definirlo gli psichiatri, appassionati di nosografia, per cui da allora ogni volta (così viene scritto, non sono sicuro che sia vero, tuttavia non è certo inverosimile) che vede vigili o altri tutori dell’ordine si allarma, gli viene il panico, insomma: non è proprio tranquillo. Forse per questi sintomi, che assumono la forma della ciclotimia (l’alternarsi tra depressione ed euforia) tra il 2002 e il 2005 subisce tre ricoveri, sempre nello stesso SPDC di Vallo della Lucania.

Apro un’altra matrioska, per provare a capire perché questa attenzione, lievemente esasperante, da parte delle forze dell’ordine nei confronti di Mastrogiovanni. Era un noto anarchico segnalato nelle questure, si dice. Da quando, nel 1972, ha ventun anni e studia all’università, si trovava sul lungomare di Salerno con un compagno d’anarchia, Giovanni Marini, vengono aggrediti da un gruppo di militanti fascisti, uno dei quali armato di coltello, e Mastrogiovanni si ferisce; uno dei fascisti, il possessore del coltello, Carlo Falvella, segretario del FUAN, viene invece ucciso da Marini. Nel processo che ne segue Mastrogiovanni viene assolto, Marini condannato a nove anni. Anche se assolto, però, il suo nome non verrà dimenticato.

Apriamo un’altra matrioska?

Di cosa si occupavano, Mastrogiovanni e Marini, quando vengono aggrediti dai militanti fascisti? Stanno indagando su uno dei misteri d’Italia. L’omicidio, camuffato da incidente stradale, di cinque anarchici calabresi, avvenuto due anni prima. Questi stavano recandosi a Roma, in auto, con documenti comprovanti che l’incidente ferroviario di Gioia Tauro, dove erano morte alcune persone, era di matrice fascista. Ebbene i due, Marini e Mastrogiovanni erano in qualche modo venuti a conoscenza del fatto che l’autista del tir, responsabile dell’incidente, era un salernitano, di simpatie fasciste. Di qui, l’agguato.

Torniamo di nuovo agli anni recenti. Tra il 2002 e il 2005 Mastrogiovanni inizia a conoscere la psichiatria locale. Tre TSO subiti. In almeno uno di questi ricoveri viene legato. Possiamo comprendere, dunque, perché dirà, nel momento in cui sale per l’ultima volta in ambulanza: non mi portate in quel reparto, che lì mi ammazzano.

Adesso facciamo ritorno all’ultima matrioska, ai suoi ultimi giorni. Una serie di eventi sono necessari per ucciderlo, per fare di lui il perfetto paradigma dell’homo sacer, di colui che, avendo trasgredito (è un anarchico, ed è uno psichiatrizzato) può essere ucciso senza troppi scrupoli etici.

Colpevole è una psichiatria troppo legata a pratiche manicomiali. Sono stati necessari tre eventi, paradigmatici di una pratica psichiatrica pre-basagliana: il ricovero in TSO, il luogo in cui viene ricoverato, la contenzione meccanica.

Una politica di Forza Italia, in una trasmissione televisiva, poco dopo la sentenza, ha sostenuto che questa morte è colpa della maledetta legge 180. Che ignorante! È il contrario. Questa morte è dovuta al fatto che in molti luoghi, in Italia, non hanno saputo o voluto applicare la più democratica al mondo delle leggi in tema di salute mentale. La legge 180 prevede il TSO come extrema ratio, e non è stato questo il caso, prevede che i SPDC siano aperti, e non era il caso di quel reparto, non prevede la possibilità di legare le persone, e lui è stato legato.

Dunque andiamo a vedere perché, questo ricovero e questa morte sono stati determinati da un totale misconoscimento e disapplicazione della legge180.

Un vero e proprio bunker impenetrabile

Cominciamo dal TSO. Una serie di enigmi su questo provvedimento. Non sappiamo il perché di questo accanimento. Un vigile, ho già detto, lo trova strano, occhi persi, sguardo vuoto, dice che andava contromano, urtava fioriere, nell’isola pedonale, tamponava quattro macchine, tutte intonse, peraltro nessuno sporge denuncia, la macchina di Mastrogiovanni pure è intatta, che strani tamponamenti, fatto sta che invece di dar luogo a una eventuale multa, o a sospensione della patente, si programma per il giorno dopo nientemeno che un TSO.

E dire che si poteva fare, tutta al più, un ASO, un Accertamento Sanitario Obbligatorio, e dopo inviare, se era il caso, Mastrogiovanni a curarsi presso

il Centro di Salute Mentale del luogo. Invece no. I vigili, e dopo il sindaco, inviano un medico con vigili e carabinieri al camping dove Mastrogiovanni fa le vacanze, tranquillo, e lo braccano, al punto che lui prima si rifugia in acqua, poi esce, si arrende, si consegna, ma gli permettono di fare una doccia e bere un caffè (ottima terapia per uno che si suppone agitato).

A quel punto, la sua arrendevolezza avrebbe potuto consigliare, a degli operatori di salute mentale coerenti con la legge 180, di trasformare il TSO in ricovero volontario, o meglio, perfino, se ci fossero stati in loco dei CSM efficienti, di proseguire le cure lì, senza per forza ospedalizzarlo. D’altra parte, la legge 180 prevede che il ricovero sia, di norma, volontario, e solo eccezionalmente obbligatorio, in sussistenza di tre elementi: alterazioni psichiche richiedenti urgenti interventi terapeutici, urgenti interventi terapeutici non accettati dalla persona, non vi sono le condizioni extra ospedaliere per attuare gli urgenti interventi terapeutici. Inutile dire che in questo caso mancavano sia le alterazioni psichiche tali, sia la non accettazione delle misure terapeutiche, sia la terza condizione: non ci hanno neppure provato a proporre una terapia alternativa, a domicilio. Dunque era illecito il TSO.

Oltretutto si incarica, di emettere l’ordinanza, il sindaco di Pollica, mentre Mastrogiovanni viene fermato nel comune di San Mauro del Cilento. Insomma, sembra, come in epoca manicomiale, che il ricovero venga disposto dalle autorità, non dai medici, che assumono il ruolo di meri esecutori.

Illecito era anche il reparto, straordinariamente restraint, ovvero chiuso, un vero e proprio bunker impenetrabile: non uscivano in permesso i pazienti, non vi entravano i famigliari (la nipote verrà tenuta fuori). Un reparto dove i ricoverati erano tutti allettati, chi per i farmaci chi perché legato. Perfino il compagno di stanza di Mastrogiovanni lo era, eppure era un depresso entrato in ricovero volontario. Un reparto che, dalle immagini registrate, ci viene restituito come un luogo di prigionia, un luogo mortificante, il luogo in grado di modellare gli operatori in senso maligno, ovvero trasformare anche brave persone in carnefici. Ciò che lo psicologo Philip Zimbardo ha definito “Effetto Lucifero”.

Illecita (nonché antiterapeutica, nonché letale) è stata la contenzione meccanica, ovvero il legarlo al letto, mezz’ora dopo il suo ingresso, fino a cinque ore dopo la sua morte. Perché illecita? Innanzitutto perché la contenzione meccanica non è soggetta a nessuna norma. Si fa, ma non si sa per quale legge. Non la prevede la legge 180, non la Costituzione. Solo un articolo del Codice Penale la rende possibile, o meglio, rende non perseguibile chi l’ha decisa e attuata: l’articolo 54, stato di necessità. Ma dov’era lo stato di necessità, nella decisione di legare al letto Mastrogiovanni? Viene legato, dirà uno dei medici, per essersi rifiutato di consegnare le urine. Urine peraltro richieste dai carabinieri per verificare se avesse fatto uso di droghe. È dunque uno stato di necessità, questo? No. Non c’era nessuno stato di necessità. Mastrogiovanni viene legato mentre dorme. Ecco perché oltre ogni misura illecita.

Ma poniamo pure il caso che fosse stata lecita, giusta, necessaria, e perfino terapeutica (tutte cose che non credo). Dopo che l’hai cateterizzato, hai ottenuto le urine, hai fatto il drug test urinario, hai visto che aveva fumato cannabis, hai ottenuto la tua informazione: viene meno il presunto stato di necessità. Eppure lui non viene slegato. Perché? Ma perché un uomo che si sveglia, e si scopre legato, per forza di cose si agita. E dunque non appare sufficientemente calmo per decidere di slegarlo.

Non lo hanno trattato più da essere umano

A questo punto c’è, nelle valutazioni dei dottori, un diverso motivo per lo stato di necessità: la sua agitazione. E questo deve aver innescato un circolo perverso: hanno iniziato a somministrargli sempre più farmaci per calmarlo. Ma i farmaci non solo non lo calmavano, ma lo confondevano, lo stordivano, al punto che a un certo punto non era più l’uomo tranquillo, gentile, lucido che le immagini ci mostrano appena entrato in reparto, ma un uomo sempre più confuso, che gli operatori stessi (medici e infermieri) stentavano a riconoscere come essere umano, eppure erano loro stessi che l’avevano disumanizzato, nel giro di poche ore, e però non sono riusciti a porre riparo. Dunque non lo hanno trattato più da essere umano.

Infatti, con un uomo legato al letto, dopo un po’ ci parli, ci provi a scioglierlo (mi riferisco ai medici, soprattutto). Invece, e le immagini ce ne danno la prova, non l’hanno più fatto. Non ci arrivo proprio a capirli, gli psichiatri di quel reparto, cosa avessero in testa, quali fossero loro i pensieri, quanto tempo volessero tenerlo legato. Una settimana, forse? Qual era il tempo giusto? All’inizio ho pensato che potesse essere perfino una contenzione punitiva. Che qualcosa avesse detto o fatto, magari nei precedenti ricoveri, per meritarla. Invece adesso penso che semplicemente siano stati degli inetti, sia sul piano professionale che umano. Non hanno saputo prendersi la responsabilità di relazionarsi a questa persona, hanno voluto trattarlo da non persona, da oggetto, probabilmente per delle loro limitate capacità relazionali. Io non li conosco. Posso fare delle ipotesi, inferenze. Ma l’atteggiamento sfuggente, schizoide oserei dire, per usare il gergo degli psichiatri, che ha avuto uno degli psichiatri mentre il giornalista de Le iene lo incalzava e gli chiedeva ma lei non si sente responsabile? mi fa pensare che costoro non si siano davvero resi conto di averlo ucciso. Non abbiano imparato proprio niente da questa vicenda, e dalla condanna che hanno avuto.

Ma spostiamoci sugli infermieri. Se non viene decisa la decontenzione, da parte dei medici, siccome è agosto e fa caldo, tu che sei infermiere, fallo bere, dagli da mangiare, lavalo, monitorizza costantemente i suoi parametri vitali. Questo farebbe, un essere umano decente. Invece no.

Questi infermieri non solo si credevano burattini obbedienti al volere dei medici, esseri incapaci di pensare con la propria testa, ma non hanno avuto neppure un briciolo di buon senso per provvedere a nutrirlo. Talmente passivi che uno dice al giudice che non c’era bisogno di andare di persona a controllarlo, perché lo si vedeva bene dalla telecamera, un altro sostiene che se era per lui lo avrebbe slegato ma… non dipendeva da lui. Che è la stessa giustificazione adoperata da Adolf Eichmann: eravamo in guerra, e io obbedivo al Führer. Questo è il male banale. Talmente sciatti e distratti che si accorgeranno solo cinque ore dopo che l’uomo legato, che loro avrebbero dovuto curare, è morto.

Diciassette operatori: 6 medici e 11 infermieri

La condanna, anche degli infermieri, è importante perché dimostra che gli infermieri bravi non sono quelli obbedienti, ottusamente obbedienti, ma quelli che sanno dissentire, che obiettano (è previsto pure nel loro codice deontologico, se l’avessero letto): ho conosciuto infermieri che prima sciolgono il paziente e poi vanno a chiedere il permesso al medico. Gli infermieri, se vogliono, sono in grado anche di determinarla, la contenzione, ma se non vogliono, sono capaci di non far legare un paziente, e ne ho visti di infermieri così, per fortuna.

Ora questi diciassette operatori (sei medici più undici infermieri) hanno avuto una condanna, misera, quasi simbolica per questa morte che hanno sulla coscienza. Partiamo da questa per ribadire che ciò che è successo a Mastrogiovanni non deve succedere ancora. E perché non accada i TSO devono essere regolamentati meglio. Magari istituendo la figura di un garante. E i SPDC non devono essere chiusi come bunker. E la contenzione meccanica deve essere abolita.

Auspico che il martirio di Mastrogiovanni determini una legge, che porta il suo nome, in virtù della quale le fasce vengono eliminate dai luoghi di cura e i TSO diventano provvedimenti rari, davvero a tutela delle persone.

 

Resta solo da gridare

di Fatima Mutarelli

«Ci vuol fortuna anche a morire» diceva mia nonna. Ma stavolta la sfortuna non c’entra.

Un giorno “inciampi” in una storia: per caso, o forse no. Spesso accade che alcune storie ti vengono a cercare. La storia di Francesco Mastrogiovanni bussò alla porta della mia coscienza in un giorno di ottobre, dopo un anno di laboratorio teatrale in un Centro di Igiene Mentale a Salerno, dopo l’ennesimo TSO al mio vicino di casa.

Affinché certe storie trovino voce, il caso – o forse no – lascia per noi piccoli segni.

Nell’estate di quest’anno, la mia attenzione è stata catturata da un articolo pubblicato su un quotidiano locale. L’articolo faceva riferimento alla pubblicazione del libro “Giovanni Marini, il poeta degli anni di piombo”, curato da Silvio Masullo, in collaborazione con Lucia Cariello.

Giovanni Marini e Francesco Mastrogiovanni erano amici. Condividevano le stesse idee politiche e lo stesso tragico destino, che tolse la vita al giovane Falvella, negli anni ‘70. La storia parte da molto lontano e arriva ai giorni nostri: fino alla morte, senza risposte, di un uomo.

Mia nonna diceva che ci vuol fortuna anche a morire. E qui non si tratta di caso o di sfortuna. Non è stato fortunato Francesco Mastrogiovanni a morire.

Poteva essere mio padre Francesco, 60 anni, col suo carattere gentile, il fervore di certe idee politiche che bisogna oggi solo sussurrare, perché a cantarle si rischia di essere presi per folli; e Francesco fu preso: era un giorno d’estate.

Fu preso in maniera coatta, fu quindi condotto nell’ospedale di Vallo della Lucania, e forse cantava ancora. Da quell’ospedale non è più uscito, se non da morto. Forse di più: perché c’è morte e morte.

È morto il 4 agosto 2009. Torturato dalla disumanità di 18 persone, medici ed infermieri.

È morto il 15 novembre 2016, con una sentenza che è difficile da comprendere, da accettare.

È difficile comprendere che 18 persone, scarse di senso umano, torneranno a lavorare con una sospensione della pena, pur nell’evidenza morale delle loro responsabilità.

Resta solo da gridare; e resta solo la fortuna di poter essere ascoltati.

(*)FL’ILLUSTRAZIONE è di Fabio Visintin a sostegno della campagna «…E tu slegalo subito»: come gli articoli lo riprendiamo dal numero 413 di «A rivista anarchica». Più volte abbiamo scritto in “bottega” che «A» è una delle pochissime riviste leggibili rimaste in Italia; conviene abbonarsi; per info andate sul sito arivista.org.  Sul numero 413 di febbraio – 124 pag per 4 euri – fra l’altro un dossier su Murray Bookchin, libri, educazione e anarchismo, Spagna, un ricordo di Amedeo Bertolo, Cuba, lavoro non retribuito, gender, il calcio del dittatore Videla, un fumetto sull’ambrosia, “lettera da New York” e … al solito musica, libri, lettere, appuntamenti.

Del delitto senza castigo consumato a Vallo di Lucania in “bottega” abbiamo parlato più volte: per esempio Francesco Masala qui Ricordando Francesco Mastrogiovanni, qui Fabrizio Melodia Scor-data: 4 agosto 2004 e qui Alexik Tortura e morte di Francesco Mastrogiovanni: per tutti la pena è sospesa. [db]

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

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