Niente da dichiarare

di Gianluca Cicinelli

Foto di Gordon Johnson da Pixabay

Gli scienziati, che ormai su poche cose concordano, sul numero dei passi necessari a un essere umano per mantenere la forma sono piuttosto unanimi: tra i 4 e gli 8 mila al giorno, tendendo gradualmente a incrementare. Invitano anche a non esagerare, perchè strafare è pericoloso quanto non fare. Si ritiene che il benessere psico-fisico, quello del corpo e della mente, sede della parola, vada ottenuto con l’allenamento. Nessuna ricerca però ci ha mai detto quante parole al giorno è necessario pronunciare per restare in forma. Anche qui infatti si può rischiare l’overtraining, un eccesso di parole che provoca la perdita del senso delle stesse. In apparenza non c’è motivo di separare il movimento, i passi, dalla parola, visto che ogni logopedista che si rispetti per riabilitare un suo paziente fa esattamente il contrario, unendo l’azione alla descrizione della stessa durante il suo compimento.

Proviamo a unire allora sperimentalmente le parole ai passi, applichiamo cioè lo stesso metodo che applica qualsiasi forma di training: ripetere costantemente la prestazione per aumentare il risultato. Scopriremo che questo metodo fortifica il corpo ma indebolisce la semantica. Se pronunciassimo una parola per ciascuno degli ottomila passi che ci ha prescritto il medico, al termine della camminata avremmo usato ottomila parole. Consideriamo che in media un articolo sul giornale è di 500 parole. Con ottomila parole quindi ci puoi scrivere mezzo romanzo o un racconto molto lungo al termine di una passeggiata. Questo se diamo per scontato che, come nel caso dei passi, pronunciare tante parole abbia un qualche effetto benefico. Ma non ci sono studi a supporto di questa tesi. Nè la qualità di un racconto o di un discorso è mai dipesa dal numero delle parole. Anzi, è la “sintesi”, tanto agitata quanto poco praticata, l’indicazione principale che emerge da tutti i corsi di scrittura.

Nell’immaginario comune, infatti, si è ormai radicata la convinzione che per raggiungere un traguardo bisogna ripetere molte volte l’allenamento. Ma come abbiamo visto, per le parole non vale la stessa regola che sovrintende il corpo: pur essendo nel momento dell’azione regolati entrambi dallo stesso arco spazio/temporale, gli impulsi che le due azioni rimandano al cervello, cammina e parla, vanno quindi allenati in maniera diversa. Nel primo caso per camminare di più, nel secondo caso per parlare di meno.

Foto di Nile da Pixabay

L’allenamento a un uso corretto della parola, ovvero per non pronunciarne di inutili, non può quindi inseguire la regola dell’allenamento del corpo a fare ogni volta di più. Ce lo conferma, oltretutto, il principale meccanismo di difesa del corpo dalla parola, il fiatone, che àncora la parola all’essenziale, impedendo durante una corsa di svolgere una conversazione piena di subordinate e causali e andando subito al sodo.

L’eccesso di parole ne annulla il senso, fino a far assumere al discorso interpretazioni che prescindono dalla corretta semantica della singola parola e assumono senso soltanto nel contesto, attribuendo quindi anche a sgrammaticature la dignità di significato. Provocano inoltre dissidi e separazioni talvolta definitive, danno luogo a fenomeni per cui qualcuno prende dal contesto una singola parola per avviare un discorso totalmente diverso, che ha in comune con il precedente soltanto quella parola ormai depauperizzata, arrivando a cortocircuitare la comunicazione con gli altri. Siamo talmente sommersi dalle parole che se non alziamo la testa dal testo per individuare chi parla e da dove, non arriveremmo da nessuna parte seguendo soltanto le parole, e infatti ci fermiamo ai social.

Si pone quindi, non avendo la scienza dimostrato il legame tra forma fisica e forma della parola, l’esigenza di individuare un allenamento che abbia come scopo la rieducazione alla parola per restituirle il suo senso originario di comunicazione tra persone. Il primo passo è sottrarre la nostra, di parola, alla comunicazione che vuole sovrastarci. Non soltanto perchè la nostra opinione nell’economia del mondo vale tanto quanto quella di uno sfollato del Sahel che tenta di mettere in chiaro che sta vivendo un’ingiustizia.

Va richiesta una moratoria universale della parola. I governi dovrebbero introdurre nei giorni pari l’obbligo di usare soltanto parole che iniziano per a,c,e,g,i,m,o,q,s,u,z e nei giorni dispari quelle che cominciano per b,d,f,h,l,n, p,r,t,v e nei festivi aggiungere anche le parole che iniziano per j,k,w,x,y. In questo modo, dovendo scegliere con attenzione le parole per non pagare una sanzione, queste tornerebbero ad avere importanza.

Le conseguenze sulla vita sociale non tarderebbero a manifestarsi. Tacere mentre tutti parlano dello stesso argomento. Prima che se ne accorga qualcuno passeranno diverse settimane, sono necessarie numerose sessioni tra cene e incontri vari, ma prima o poi qualcuno, esauriti gli altri argomenti fatui, porrà all’attenzione generale la presenza di un silenzio. Lì starà a noi usare il vantaggio acquisito. Potremmo uscircene con un’amara filippica sulla mancanza di senso dei discorsi, ma occorrono troppe parole per spiegarlo, che ci farebbero perdere il privilegio del nuovo status faticosamente acquisito. Oppure si può continuare a tacere e tutti si sentiranno messi un po’ sotto accusa, anche se non ci conoscono. Dura poco, sia chiaro, ma quei cinque minuti di curiosità verso chi non parla possono aprire uno squarcio finalmente impietoso su chi parla sempre. Dichiarare oggi di non avere niente da dire equivale a dichiararsi prigioniero politico. (questo testo è di 858 parole)

ciuoti

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