Noi siamo contro il Patto Atlantico…

…prima di tutto perché questo Patto è uno strumento di guerra, diceva Sandro Pertini

articoli e video di Raniero La Valle, Giulio Chinappi, Nicoletta Dosio, Sandro Pertini, Stefano Orsi, Tony Robinson, Francesco Vignarca, Vincenzo Brandi, Enrico Tomaselli, Domenico Moro, Papa Francesco, Pino Arlacchi, Nicola Licciardello, Mario Agostinelli, National Review, Alberto Capece, Aurelien, Enrico Euli, EuropeForPeace, Francesco Dall’Aglio, Qin Gang, Giancarlo Marcotti, chiedoaisassichenomevogliono

“AUCTORITAS, NON VERITAS FACIT LEGEM” – Raniero La Valle

C’è la guerra e nessuno in Occidente ha mai fatto un’autocritica. Noi, che tre anni fa abbiamo dato vita all’iniziativa di “Costituente Terra”, amiamo tanto l’unità del mondo e la sua pace da aver compiuto l’azzardo di pensare che la Terra potesse darsi un’unica Costituzione e conformarsi a un unico diritto, quando per contro va riconosciuta la mirabile varietà delle culture e delle storie, fatti salvi i diritti e le garanzie universali umane. È stato questo il peccato dell’Occidente di pensare il mondo a sua misura. E ci troviamo ora con un mondo dilaniato tra Leviatani in lotta tra loro.

Oggi, dopo un anno di guerra, a 9 anni dal tranello degli accordi di Minsk (secondo la Merkel), a 5 mesi dal sabotaggio americano del gasdotto russo-europeo del Baltico (secondo il Premio Pulitzer Seymour Hersh), “Costituente Terra” prende e mantiene il lutto per la “fine della pace”, come subito la chiamò “Limes”, anche se le pace dagli albori della civiltà fino a ora non c’è mai stata e ha sempre ceduto il posto alla guerra, mentre la guerra torna ora in gran forma a farsi accreditare in nome della ragione e del diritto, da cui dopo la “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII era stata espulsa per sempre. Prendiamo il lutto per una guerra tornata a essere mondiale, ma anche per un’informazione che la mistifica, dopo che l’ultima guerra era finita con decine di milioni di morti, a cominciare dai sovietici, centinaia di migliaia di giapponesi arsi vivi dalle atomiche, e una fanciulla ebrea, Liliana Segre, rimasta in vita per poterci ancora dire che dopo la guerra resta l’amore. Prendiamo il lutto per l’umanità dismessa, l’informazione omologata, e la pietà perduta, fino al punto che al terremoto in Siria non si può dare soccorso per le sanzioni atlantiche ed europee che le sono inflitte. Occorre peraltro ricordare che pur nella varietà dei giudizi è stata unanime la condanna della sciagurata risposta aggressiva di Putin a una minaccia sia pure percepita come mortale e finale; ma inaccettabile è stata altresì l’intenzione, fin dall’inizio dichiarata da Biden, di bandire la Russia dalla comunità delle nazioni, infliggendole una sconfitta senza precedenti e sanzioni genocide, convogliando da tutto il mondo dollari e armi contro di essa, per ridurla a “paria”. E ora ci viene annunciata in documenti ufficiali del 12 e del 27 ottobre scorsi di Biden e del capo del Pentagono Lloyd Austin sulle strategie di “sicurezza” e “difesa” degli Stati Uniti, una “sfida culminante” con la Cina per decidere nel prossimo decennio il futuro del mondo; e ciò attraverso una “competizione strategica” con o senza conflitti armati in cui l’America peraltro è sicura di “prevalere”, la cui posta in gioco è lo stabilimento di un unico imperio e di una stessa società per tutto il mondo. Ma noi pensiamo che nemmeno la Cina si possa gettare fuori della storia, e che anzi le Nazioni della Terra dovrebbero accorrere al suo capezzale dopo che essa è stata stremata da un’epidemia devastante che si è abbattuta su di lei dopo essere uscita da una povertà che nel 1978 ancora gravava su 770 milioni di contadini, con un tasso di povertà del 97.5 per cento sulla popolazione totale (notizie ufficiali date in un libro di Zhang Yonge, La Cina e lo sforzo propositivo per un XXI secolo dei diritti, fatto distribuire dall’ambasciatore cinese in Italia). La Cina era tuttavia giunta oggi a assicurare cibo e sussistenza a una popolazione di oltre 1,3 miliardi di persone, e non merita che il mondo invece di contribuire a soccorrerla, ne aspetti l’annichilimento allo scopo di non averla più come concorrente.

Dunque tutt’altro che una guerra e un Impero ci sono da fare, né questa è una guerra dell’Italia; essa non ha più guerre né nemici da vincere. E nemmeno se ne può uscire dicendo “negoziato, negoziato”, quando l’Ucraina, che ne ha bisogno più della vita, è l’unico Paese al mondo che ha proibito il negoziato per legge. Non è la nostra guerra, e nemmeno dovrebbe essere la guerra personale di Giorgia Meloni e dei suoi alleati riluttanti. Proprio perché sovrani non si ha licenza di uccidere, non di aggredire grandi e piccini, non di espellere dal mondo la Russia e di sgominare la Cina. Il bene di esistere è per tutti, se Giorgia Meloni fosse russa oggi starebbe sotto il castello di Varsavia a manifestare contro Biden per la sua patria e contro l’idea di ridurre il mondo a un’unica misura. In una guerra come ci sono due nemici, ci sono sempre due verità. Chi è sicuro della sua? Abbiamo giudici che giudicano dei diritti, non abbiamo quaggiù giudici della verità. O vogliamo dire, come Hobbes, come fece Bush per legittimare dopo la guerra fredda il ripristino della guerra nel Golfo: “auctoritas, non veritas facit legem”? E la democrazia? In cosa differirebbe dalle “autocrazie”?

Il pensiero d’ordinanza non mi persuade. Io insisto a metterci il naso.

Presidente di “Costituente Terra”

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Il ministro Qin Gang spiega ai media la politica estera cinese – Giulio Chinappi

Il 7 marzo 2023 si è tenuta una conferenza stampa a margine della prima sessione della 14ma Assemblea Nazionale del Popolo presso il Media Center, durante la quale il ministro degli Esteri Qin Gang ha risposto alle domande dei media cinesi e stranieri sulla politica estera e le relazioni esterne della Cina. Di seguito la traduzione integrale della conferenza stampa.

Qin Gang: Amici dei media, buongiorno. Sono molto lieto di incontrarvi. Mentre il mondo sta attraversando grandi cambiamenti mai visti in un secolo, la Cina continuerà a perseguire una politica estera indipendente di pace e continuerà ad attuare la strategia reciprocamente vantaggiosa dell’apertura. La Cina sarà sempre un costruttore di pace mondiale, un contributore allo sviluppo globale e un difensore dell’ordine internazionale. Sono ora pronto a rispondere alle vostre domande.

China Central Television: le persone in patria e all’estero hanno grandi aspettative per la diplomazia cinese nel 2023. Quali saranno le priorità e i punti salienti della diplomazia cinese, in particolare nella diplomazia dei capi di Stato? Come nuovo ministro degli Esteri, come immagina la diplomazia cinese negli anni a venire?

Qin Gang: Siamo nel primo anno di piena attuazione dei principi guida stabiliti dal 20° Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese. Il Congresso ha delineato piani di alto livello per la diplomazia cinese, identificato le nostre missioni e compiti e preso accordi strategici a tal fine. Con la situazione COVID che sta migliorando in Cina, stiamo riprendendo costantemente gli scambi con il mondo. Abbiamo premuto il “pulsante di accelerazione” e fatto squillare le trombe della nostra diplomazia.

Seguiremo la guida della diplomazia dei capo di Stato. In particolare, garantiremo il successo dei due grandi eventi diplomatici che ospiteremo: il primo vertice Cina-Asia centrale e il terzo Belt and Road Forum for International Cooperation, che saranno la vetrina del carattere distintivo della diplomazia cinese.

Assumeremo come nostra missione la difesa degli interessi fondamentali della Cina. Ci opponiamo fermamente a qualsiasi forma di egemonismo e politica di potere. Ci opponiamo fermamente alla mentalità della guerra fredda, al confronto tra blocchi e agli atti per contenere e frenare lo sviluppo di altri Paesi. Salvaguarderemo risolutamente la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo della Cina.

Costruiremo le nostre estese partnership. Perseguiremo il coordinamento e solide interazioni tra i principali Paesi, cercheremo l’amicizia e la cooperazione con altri Paesi e promuoveremo un nuovo tipo di relazioni internazionali. La Cina ha una crescente rete di amici, ha stretto sempre più nuove amicizie e ha rafforzato i legami con i vecchi amici.

Assumeremo l’apertura e lo sviluppo come il nostro obiettivo. Faciliteremo uno sviluppo di alta qualità e un’apertura di alto livello. Respingeremo il “disaccoppiamento” e ci opporremo alla rottura delle catene industriali e di approvvigionamento e all’imposizione di sanzioni unilaterali. Sosterremo un’economia mondiale aperta e inclusiva e genereremo nuove opportunità per il mondo con il nostro nuovo sviluppo.

Prenderemo il multilateralismo come via da seguire. Promuoveremo la costruzione di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità, promuoveremo una maggiore democrazia nelle relazioni internazionali e renderemo la governance globale più giusta ed equa. Offriremo maggiori e migliori intuizioni e soluzioni cinesi per aiutare ad affrontare le sfide comuni dell’umanità…

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Banditismo americano – G. P.

Lo spirito americano è quello del bandito. Sotto sotto gli statunitensi non sono mai cambiati nonostante si presentino al mondo quali paladini della democrazia. Questi pistoleri che terrorizzano il pianeta con le loro scorribande, a cui noi sciocchi europei siamo piegati ormai da decenni, non conoscono altro linguaggio che quello della violenza e della forza. Con la violenza e con la forza impongono la loro visione sociale e si ingeriscono negli affari internazionali.

Dopo aver costretto l’Italia ad abbandonare il gasdotto South stream che ci avrebbe evitato la crisi energetica in corso hanno distrutto anche il tubo sottomarino del North Stream che era già sbucato in Germania.

Di fronte a quest’attacco, che è un atto di terrorismo, l’Ue ha chinato il capo e anziché sciogliere qualsiasi legame con Washington ha dichiarato guerra a Mosca.

Inoltre, tutta la comunicazione europea, invece di denunciare questa gravissima situazione, continua imperterrita con la sua campagna d’odio contro i russi. Fino a che i media non verranno azzerati e ripuliti, con metodi coercitivi, resteranno infiltrati dagli scagnozzi della Casa Bianca il cui compito è capovolgere la realtà dei fatti.

Lo stato servile dei nostri media è tale che non possono permettersi nemmeno uno scatto di orgoglio. Al contrario, la stampa americana può consentirsi qualche sparuta verità anche se sommersa da un mare di propaganda.

Accade così che da oltre atlantico ci arrivi una notizia di questo genere: “America e Norvegia hanno fatto saltare in aria il Nord Stream”

Si tratta dell’inchiesta di Seymour Hersh, giornalista di lungo corso il quale scrive che la decisione di sabotare i gasdotti sotto il baltico è stata presa da Biden dopo più di nove mesi di discussioni segrete con l’intelligence americana. La questione non era se eseguire o meno l’operazione ma come e quando attuarla. La Norvegia si è rivelata il luogo ideale dal quale far partire la missione. Servizi americani e norvegesi hanno lavorato gomito a gomito per realizzarla.

Ogni anno, a partire da giugno, la Sesta Flotta della Marina degli Stati Uniti organizza esercitazioni NATO nel Mar Baltico. I norvegesi hanno suggerito che questa potesse essere la copertura perfetta per piazzare gli esplosivi.

Il 26 settembre 2022, un aereo da ricognizione P8 della Marina norvegese ha effettuato un volo apparentemente normale e ha sganciato una boa sonar. Il segnale si è diffuso sott’acqua, prima al Nord Stream 2 e poi al Nord Stream 1. Poche ore dopo, un potente esplosivo C4 è stato fatto deflagrare e tre dei quattro gasdotti sono stati danneggiati.

Questo sabotaggio di una decisiva infrastruttura europea da parte di due paesi che non fanno parte dell’Ue ma sono membri della NATO richiederebbe una risposta immediata e congiunta degli organi centrali europei e di quelli nazionali. L’uscita immediata dalla NATO, dopo questa aggressione, avrebbe dovuto rappresentare la risposta minima collettiva degli Stati europei.

Ma nulla, tutto tace e viene messo a tacere per servilismo e codardia. Anzi, si alza ancora di più il livello di scontro con la Russia. Se non ci sbarazziamo di questa classe politica emanazione degli USA l’Europa è destinata a morire.

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Testimonianza di Nicoletta Dosio alla manifestazione dei portuali di Genova

La manifestazione contro la guerra indetta dal Comitato autonomo dei lavoratori portuali si snoda, imponente, lungo le vie del porto. È un momento importante anche simbolicamente: per la prima volta si infrangono divieti che impediscono l’ingresso di cortei nelle zone dei Terminal.

Superati i cancelli del varco Etiopia ora siamo dentro, in migliaia, con bandiere, striscioni, cartelli, megafoni. Il furgone che apre il corteo spara musiche, contestazione.

Tante le bandiere: quelle dei sindacati di base che hanno proclamato lo sciopero, i drappi rossi delle realtà sociali e politiche antagoniste, quelli delle lotte antimilitariste e ambientali. Un grande striscione ci ricorda che Alfredo sta morendo di 41 bis.

Ci sono anche le nostre bandiere NO TAV, scese dalla Valle contro il treno della guerra e della morte.

È bello ritrovarci, riscoprirci nei volti cari dei tanti con cui, in Valle e in tutto il Paese, abbiamo condiviso lotte e istanze di liberazione.

Avanziamo in mezzo a muri di container, gru e mezzi-movimento immobili, come abbandonati: lo sciopero è totale, i lavoratori del porto sono con noi, in prima fila, ad aprire la manifestazione dietro lo striscione “STOP AL TRAFFICO DI ARMI NEI PORTI”. Il loro NO alla guerra ha la materialità dell’azione reale, quella che servirebbe davvero sui posti di lavoro, sui territori, nei luoghi in cui, giorno dopo giorno, la vita ci viene negata dal sistema assassino.

Arriviamo ai piedi della Lanterna, l’antico faro, simbolo di Genova. Si erge, snella ed elegante, sopra uno zoccolo di roccia e arbusti, anomala tra tanto ferro e asfalto, e ci parla di un mare vicino eppure invisibile, inodore.

L’ uscita dal porto è nei pressi delle grandi navi da crociera che emergono in fondo a piazzali intasati di auto. Qui il mare è poco più che un bacino di palude, ma la brezza carica di salmastro ci porta il messaggio degli aperti orizzonti.

Quello che il porto oggi racconta, attraverso le voci dei portuali di Genova, Livorno, Trieste, Venezia, sono i carichi d’armi, verso tutte le guerre del Nord del mondo, sotto l’egida della NATO e del Patto Atlantico, per esportare una “democrazia” a suon di bombe ed importare enormi profitti per i padroni di sempre.

E il mare ci parla delle vittime: i poveri di quel Sud sfruttato dai colonialismi vecchi e nuovi, donne e uomini di tutte le età in fuga dalla fame e dalla guerra su imbarcazioni di fortuna, intere famiglie inghiottite dalle onde dei naufragi. Di loro, sulle spiagge del mondo da cui speravano accoglienza, arrivano i poveri resti, insieme ai relitti delle loro vite, bagagli, peluche dei bambini, indumenti, qualche documento che ci riporta un volto, un nome, un luogo di provenienza, il punto di partenza di una speranza negata…

Nella manifestazione che dal porto sale verso la città si alzano le voci che, insieme alla necessità di sabotare concretamente la guerra esterna, raccontano storie di ingiustizie e di sfruttamento: sono i lineamenti orridi di una guerra interna che si fa precarietà, negazione dei diritti, sfruttamento, morti sul lavoro, devastazioni sociali e ambientali.

I mass media di regime, supini alle veline ufficiali che esaltano la partecipazione italiana alla “guerra umanitaria”, taceranno su di queste donne e questi uomini che non si adeguano alle menzogne ufficiali e riprendono voce e azione in una ricomposizione di lotte concrete.

La manifestazione si conclude in piazza De Ferrari. Sono i compagni portuali a concludere con un saluto che non è un congedo, ma l’appuntamento alla lotta comune e senza deleghe, la sola, vera possibilità di salvare un futuro vivibile per tutti.

Le parole di Rosa, assassinata dalla guerra, risuonano più che mai attuali e profetiche:

“Il militarismo che nel suo complesso rappresenta uno sperpero di forze produttive economicamente pienamente assurdo, che per la classe operaia significa una riduzione del suo livello di vita economico ai fini del suo asservimento sociale, costituisce per la classe capitalistica economicamente il più splendido, insostituibile tipo di investimento come socialmente e politicamente il migliore sostegno del proprio dominio di classe”.

Dalla pagina Facebook di Nicoletta Dosio

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Le formiche – chiedoaisassichenomevogliono

 

S’appresta grande armata d’Occidente a partecipare a gusto di bomba, e popolujme è ignaro circa suoi destini trascritti in segrete stanze, a leccarsi ferite per strabolletta a non arrivo nemmeno a metà mese.

Ma che siamo noi, che siamo?… Formicole che s’ammazzano di travaglio in questa vita breve come il giorno, un lampo. In fila avant’arriere senza sosta sopra quest’aia tonda che si chiama mondo, carichi di grani, paglie, pùliche, a pro’ di uno, due più fortunati. E poi? Il tempo passa, ammassa fango, terra sopra un gran frantumo d’ossa. E resta, come segno della vita scanalata, qualche scritta sopra d’una lastra, qualche scena o figura.” (Vincenzo Consolo)

 

Che a festa finita, questo ci resta, che è condizione di formica, ad accumulare cose conto terzi, manco per regina però, che, ricca e spietata, almeno pare ha istinto materno, financo progetto di conservazione della specie. Peggio di formiche, a finire sotto al tallone, non per fine d’occasione di passeggiata distratta d’altro grande e grosso, ma tallone sempre è in testa che manco lo senti più a consapevolezza, però fa male uguale, e padrone di tallone fece suo il progetto di estinzione di massa di sua stessa specie per puro godimento di conto in banca di taluni sempre meno. Che per quello pare che lavoro di moltitudine sia a sfrutto e basta, con contrattualizzazione per bava alla bocca ed insofferenza in permanenza. Che mai fu colpa d’alto rango, sempre d’ultimo peggio che noi che è a maggior patimento. Che c’è tanti che sperano per rientri a routine che di vite spente fanno a riempimento di fatica che svuota idee. E non s’avvede moltitudine di propria fatica per riempir granai che alta sfera gaudente usa sfrutto di braccia e di mente, pure magazzino stracolmo, per far guerra a cottimo, per far distruzione di natura a manca e destra, per decidere di destino di massa deforme e claudicante di pensiero a che viene peggio, che se c’è peggio quella più si piega a schiaccio di tallone per assuefazione definitiva. Ch’ebbe sensazione di consapevolezza solo a fatto di pubblico memoria di vacanza d’io con sfondo di meraviglia d’uno sopra l’altro su pagina di faccia libro e affini, quale surrogato di libero pensiero.

Rivolta sarebbe dire, so cosa sto facendo, so cosa mi fate fare, dire che pure per lavoro divento merce un tanto al chilo, ma ora lo so. Che se so, vertice di piramide è alto assai, ma si scordò di fare forte fondamenta di base per crollo tra un istante. Rivolta è dire che ultimo è con ultimo e più ultimo assieme qual fratello, e far da piedistallo ci venne un po’ a noia, che c’è a scostamento improvviso di tutti a medesimo tempo per crollo di piramide, di busto impomatato.

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Sandro Pertini: “Contro il Patto Atlantico” (7 marzo 1949)

L’11 marzo 1949, il Consiglio dei Ministri approvava l’ingresso dell’Italia nella NATO. Il precedente 7 marzo, Sandro Pertini aveva pronunciato al Senato un discorso contro il Patto Atlantico, che vi proponiamo di seguito in forma integrale. L’Italia avrebbe poi sottoscritto il trattato del Patto Atlantico il successivo 4 aprile, entrando ufficialmente a farne parte dal 4 maggio.

Onorevoli colleghi, dirò brevemente le ragioni per cui voteremo contro il Patto Atlantico: cercherò di riassumere in sintesi quello che è già stato detto in questa discussione ampia, profonda e serena. Noi siamo contro il Patto Atlantico, prima di tutto perché questo Patto è uno strumento di guerra. Abbiamo ascoltato con attenzione la replica del Presidente del Consiglio e speravamo che egli ci dicesse qualche cosa di nuovo, ma tre quarti del suo discorso li ha dedicati esclusivamente ad esaminare la eventualità di una nuova guerra. Quindi maggiormente adesso, dopo la sua replica, onorevole Presidente del Consiglio, noi siamo persuasi che il Patto Atlantico è uno strumento di guerra.

Basterebbe leggere i giornali. Proprio su quelli di stamane ci si comunica che mai come oggi in Inghilterra si è constatata, dopo il Patto Atlantico, una così diffusa psicosi di guerra. Esso è quindi uno strumento di guerra per noi, ed abbiamo il dovere, perciò, di votare contro.

Ha ragione l’onesto amico Rocco [1] di dire che, se oggi il vecchio Turati fosse qui con noi, voterebbe contro il Patto Atlantico e farebbe sentire da questa Aula ancora il suo grido pieno di passione e di angoscia: “Guerra al regno della guerra, morte al regno della morte!“.

Ma il nostro voto è ispirato anche ad un’altra ragione. Questo Patto Atlantico in funzione antisovietica varrà a dividere maggiormente l’Europa, scaverà sempre più profondo il solco che già separa questo nostro tormentato continente. Non si illudano i federalisti – mi rivolgo naturalmente ai federalisti in buona fede – di poter costruire sulla Unione europea la Federazione degli Stati uniti d’Europa; essi costruiranno una Santa Alleanza in funzione antisovietica, un’associazione di nazioni, quindi, che porterà in sé le premesse di una nuova guerra e non le premesse di una pace sicura e duratura. Noi siamo contro questo Patto Atlantico dato che esso è in funzione antisovietica. Perché non dimentichiamo, infatti, come invece dimenticano i vostri padroni di oltre Oceano, quello che l’Unione Sovietica ha fatto durante l’ultima guerra. Essa è la Nazione che ha pagato il più alto prezzo di sangue: 17 milioni di morti ha avuto [2]. Senza il suo sforzo eroico le Potenze occidentali non sarebbero riuscite da sole a liberare l’Europa dalla dittatura nazifascista. Questo noi non dimentichiamo.

[Voce da destra: “E viceversa“.]

[Pertini risponde:] No, soprattutto per lo sforzo eroico dell’Unione Sovietica: lo stesso Churchill lo ha riconosciuto.

[Pertini riprende il discorso:] Siamo contro questo Patto Atlantico in funzione antisovietica, perché ormai ci siamo avveduti che la lotta di classe ha valicato i confini delle Nazioni per trasferirsi in modo violento ed evidente sul terreno internazionale. Vi sono da una parte le forze imperialistiche e plutocratiche, dall’altra le forze del lavoro. Allora, noi prendiamo la stessa posizione che presero nel secolo scorso i liberali. Quando la Santa Alleanza cercò di stroncare la rivoluzione francese, i liberali di tutti i Paesi insorsero in difesa della Francia, perché consideravano giustamente quella rivoluzione come la loro rivoluzione. E noi socialisti sentiamo che se domani, per dannata ipotesi – soltanto per dannata ipotesi, non illudetevi – dovesse crollare l’Unione Sovietica sotto la prepotenza della nuova Santa Alleanza, con l’Unione Sovietica crollerebbe il movimento operaio e crolleremmo noi socialisti.

Ma vi è un’altra ragione che ci induce a votare contro questo Patto Atlantico: è l’aspetto che questo Patto Atlantico ha in rapporto alla politica interna, come è già stato detto ampiamente dai colleghi di questa parte. La prima conseguenza che deriverà da questo Patto sarà una lotta più aspra – e lo sa, naturalmente, nel suo intimo l’onorevole Scelba – e più dura contro l’estrema sinistra del proletariato. Io lo so quello che voi volete dirmi: noi non ce l’abbiamo con voi socialisti; noi ce l’abbiamo soltanto col Partito Comunista. E l’eterna storia che abbiamo sentito dire, adolescenti, nel 1919, ’20 e ’21 e allora, in quell’epoca, il Partito comunista non esisteva. Si agitava, allora, lo spauracchio del pericolo rosso. E parecchi han creduto al pericolo rosso ed hanno assecondato il fascismo sul suo nascere: parecchi di voi, credendo a questo pericolo, aprirono la strada alla dittatura fascista; parecchi di voi si rallegrarono quando videro distrutto, per opera delle squadre d’azione fasciste, tutto ciò che la classe operaia aveva costruito pazientemente in 50 anni di lotta. Parecchi di voi si rallegrarono quando videro piegata sotto la dittatura fascista la classe operaia italiana e costoro non compresero che, quando in una Nazione crolla la classe operaia, o tosto o tardi, con la classe operaia, finisce per crollare la Nazione intera.

In proposito non vi devono essere esitazioni da parte di nessun socialista. Guai se qualcuno tra noi avesse in questo momento delle riserve mentali, guai se accettasse la discriminazione insidiosa quanto offensiva che ci offrono le forze della conservazione, quando affermano che il loro bersaglio sono i comunisti. Non dimenticate che le forze della reazione, con la stessa arma di cui si serviranno per colpire i comunisti, finirebbero poi per colpire noi socialisti e tutte le forze progressive del Paese!

D’altra parte – e mi avvio alla fine – oggi, in Italia, appare chiaro a tutti come le forze della reazione e della conservazione si vadano coalizzando contro le forze del lavoro. I termini della lotta di classe, che oggi appaiono in tutta la loro evidenza, erano stati offuscati in un primo tempo da quella collaborazione leale e sincera che noi abbiamo dato nei Comitati di liberazione nazionale e quando eravamo al Governo. Ormai questa lotta appare in modo evidente a tutti e ne abbiamo avuto l’esempio anche qui questa sera in quest’Aula. Abbiamo visto degli uomini, che noi, sin dalla nostra adolescenza, abbiamo ammirato per il loro ingegno, abdicare al loro pensiero politico, umiliare la loro mente, mutilare la propria coscienza, dare prova di una suprema incoerenza politica e ideologica, pur di stringersi a fianco delle forze clerico-conservatrici. Cattivo esempio della gioventù d’Italia voi avete dato oggi! Comunque noi dobbiamo assumere la nostra posizione. L’assumete voi con tanta decisione, perché non dovremmo fare altrettanto noi? Lo sappiamo, onorevole De Gasperi, che la nostra sarà una posizione dura e difficile; ma voi un po’ ci conoscete e sapete che noi, per il nostro temperamento, non siamo adatti per le situazioni di ordinaria amministrazione. Le posizioni pericolose ci seducono e le assumiamo con fermezza, come abbiamo fatto sotto il fascismo e contro i tedeschi. Pagheremo, se sarà necessario, ma sappiate che noi preferiremmo sempre cadere con la classe operaia piuttosto che trionfare con le forze clerico-conservatrici.

Mi consenta, onorevole Presidente, di dire ancora una parola in nome dei partigiani d’Italia – ne sono autorizzato quale uno dei Presidenti onorari dell’Anpi – una parola in nome di questi partigiani, onorevole De Gasperi, che hanno veramente riscattato l’onore d’Italia.

[Interviene Zoli [3]: “Non solo i vostri!“.]

[Rumori ed interruzioni da sinistra.]

[Pertini riprende il discorso:] Non escludo nessuno: parlo per l’Anpi, onorevole Presidente del Consiglio, parlo di quei partigiani che si sono veramente battuti per l’indipendenza dell’Italia. Oggi noi abbiamo sentito gridare “Viva l’Italia” quando voi avete posto il problema dell’indipendenza della Patria. Ma non so quanti di coloro che oggi hanno alzato questo grido, sarebbero pronti domani veramente ad impugnare le armi per difendere la Patria. Molti di costoro non le hanno sapute impugnare contro i nazisti. Le hanno impugnate invece contadini e operai, i quali si sono fatti ammazzare per la indipendenza della Patria!

Onorevole Presidente del Consiglio, domenica scorsa a Venezia, in piazza San Marco, sono convenuti migliaia di partigiani da tutta l’Italia – donne e uomini – ed hanno manifestata precisa la loro volontà contro la guerra, contro il Patto Atlantico e per la pace. Questi partigiani hanno manifestato la loro decisione di mettersi all’avanguardia della lotta per la pace, che è già iniziata in Italia; essi sono decisi a costituire con le donne, con tutti i lavoratori una barriera umana onde la guerra non passi. Questi partigiani anche un’altra volontà hanno manifestato, ed è questa: saranno pronti con la stessa tenacia, con la stessa passione con cui si sono battuti contro i nazisti, a battersi contro le forze imperialistiche straniere qualora domani queste tentassero di trasformare l’Italia in una base per le loro azioni criminali di guerra.

Per tutte queste ragioni noi voteremo contro il Patto Atlantico. Sentiamo che votando contro questo Patto, votiamo contro la guerra e per la pace, serbando fede, in questo modo, al mandato che abbiamo ricevuto dai nostri elettori. Votando contro il Patto sentiamo di compiere onestamente il nostro dovere di rappresentanti del popolo, di socialisti e di italiani!

NOTE

[1] Luigi Rocco, senatore del gruppo Unità Socialista.

[2] Secondo le stime attuali, ben 27 milioni di sovietici avrebbero perso la vita nel corso della seconda guerra mondiale.

[3] Adone Zoli, senatore della Democrazia Cristiana.

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Dobbiamo fermare la marcia verso la III guerra mondiale, adesso! – Tony Robinson

In Europa, in Nord America e in pochi altri Paesi che si nutrono di informazioni provenienti dai media occidentali, non può essere sfuggito a nessuno che siamo a tutti gli effetti in marcia verso la Terza Guerra Mondiale.

Le analogie con gli anni ’30 sono terrificanti:

Si stanno aprendo molteplici fronti di attività militare: uno in Ucraina e altri due in arrivo in Iran e a Taiwan.

Il nazionalismo estremo è in aumento, insieme al violento capro espiatorio dei migranti di ogni tipo e, di fatto, di chiunque non sia un maschio bianco, cis-gender, eterosessuale.

Il deterioramento della situazione economica sta lasciando vaste fasce di popolazione impoverite anche nei Paesi più “ricchi” del mondo,

I media di tutte le fazioni diffondono una propaganda che disumanizza coloro che vivono nei Paesi dall’altra parte del conflitto, e

Ogni tentativo di far sentire la propria voce a favore della pace e della risoluzione dei conflitti attraverso i tavoli di negoziato viene messo a tacere o diffamato e coloro che tentano di farlo vengono etichettati come “appeasers” i.

Sì, ci sono tutti i presupposti per lo scoppio di una guerra mondiale totale dalla quale la civiltà umana non sopravvivrà.

In questo momento critico della storia umana, il movimento “per la pace” in Occidente è totalmente frammentato e incapace di dare una risposta chiara e unitaria. Nel 2003, nella corsa alla guerra in Iraq, milioni di persone in tutto il mondo hanno marciato contro una guerra che, a loro avviso, non li avrebbe mai toccati personalmente perché troppo lontana geograficamente. Ora, quando siamo sull’orlo di una guerra che interesserà l’intero pianeta, il mondo tace!

In questo panorama frammentato possiamo individuare due tendenze: da una parte coloro che danno la colpa di tutto all’Occidente, alla NATO e alle loro pretese militari di egemonia globale e giustificano l’invasione come un male sfortunato ma necessario; dall’altra coloro che danno la colpa a Vladimir Putin e alle sue pretese di ristabilire la vecchia Unione Sovietica. Entrambe le parti giustificano lo spargimento di sangue e arrivano persino a chiedere l’invio di altre armi nella regione. Entrambe le fazioni antepongono il valore dello “Stato” alla vita umana e, in entrambi i casi, l’ultima cosa che viene presa in considerazione è il benessere delle popolazioni residenti nei luoghi del conflitto, che non hanno mai chiesto questa guerra e che hanno subito migliaia di vittime. Entrambe le parti vedono questo conflitto come un gioco a somma zero: qualcuno deve vincere e qualcuno deve perdere. Entrambe le parti ignorano il fatto che la fine di ogni conflitto viene negoziata attorno a un tavolo diplomatico. Entrambe le parti preferirebbero assistere a un massacro di massa piuttosto che negoziare una soluzione che eviti ulteriori morti.

In questo contesto, forse è giunto il momento di lanciare un appello per un nuovo movimento per la pace che abbia al centro il benessere degli esseri umani e del pianeta, prima di tutto.

Le basi di un nuovo movimento per la pace

Prima di chiederci quali sarebbero le basi di un nuovo movimento per la pace, dobbiamo chiederci: come deve essere il mondo a cui aspiriamo? Non è una domanda astratta, perché un mondo in cui i conflitti non vengono risolti attraverso l’atto armato della guerra non è il mondo in cui viviamo oggi. Se vogliamo un mondo in cui le persone si comportino in modo diverso, abbiamo bisogno di un’immagine di qualcosa di diverso, una nuova utopia, una Nazione Umana Universale.

Oggi più che mai, i cittadini comuni di tutto il pianeta devono unirsi e schierarsi su una piattaforma comune di diritti e responsabilità che non hanno nulla a che fare con il genere, lo status economico, la religione, il colore della pelle, l’orientamento sessuale o la nazionalità.

Ma che aspetto avrebbe questa piattaforma? Quali sono i principi, le condizioni, i diritti e le responsabilità alla base di un mondo in cui tutti possano vivere in armonia?..

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Vignarca: “Il mondo necessita di un disarmo umanitario”

Oggi, 5 marzo, si celebra la prima Giornata Internazionale di Sensibilizzazione al Disarmo e alla non Proliferazione, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo scorso 7 settembre. Per l’occasione, Interris.it ha intervistato il dottor Francesco Vignarca Coordinatore delle Campagne di Rete Italiana Pace e Disarmo

Quando è nata e qual è la mission di Rete Italiana Pace e Disarmo?

“La Rete Italiana Pace e Disarmo è nata nel 2020 nella Giornata Internazionale della Pace, il 21 settembre, dalla fusione di due organismi storici del movimento pacifista italiano: la Rete della Pace (fondata nel 2014) e la Rete Italiana per il Disarmo (fondata nel 2004). L’intenzione era quella di allargare, e lo abbiamo fatto, il gruppo di associazioni e sindacati che lavorano continuamente per la pace. Sono organizzazioni che non hanno solo la pace nella loro mission. Fanno anche altre cose, come la Comunità Papa Giovanni XXIII che si occupa di povertà e disagio a 360 gradi, ma ha un proprio corpo di Pace – l’Operazione Colomba – che è attivo 365 giorni l’anno. Tutte queste associazioni, pur diverse tra loro, hanno deciso di mettersi insieme per fare rete su temi che considerano prioritari: la pace e il disarmo. Due aspetti strettamente collegati tra loro”.

Qual è un aspetto specifico della Rete Italiana Pace e Disarmo?

“L’aspetto specifico e fondamentale è che la rete non opera solo in casi eccezionali: guerre, campagne specifiche ed emergenze varie nel mondo. Ma definisce un’agenda collettiva e continuativa in grado di rispondere alle varie situazioni ogni giorno dell’anno. La rete è inoltre propositiva attraverso l’analisi e l’approfondimento delle cause e degli eventi che accadono nel mondo, relativamente ai due temi centrali della nostra missione. Questo studio, basato sull’analisi dei dati, permette di avanzare proposte concrete al mondo della politica e delle istituzioni”.

Sono oltre 70 le associazioni che aderiscono alla vostra rete, anche di estrazione molto diversa tra loro. Come ve lo spiegate?

“Credo che il motivo profondo per cui tante associazioni – sia di ispirazione, sia di tipologia – abbiano deciso di entrare nella rete è la serietà della proposta. Che non si basa solo su poche parole d’ordine o su una prospettiva emotiva o idealistica, ma che declina il desiderio di costruire la pace, attraverso gli strumenti del disarmo e della nonviolenza, in un contesto di analisi e di lavoro quotidiano. In tal modo le associazioni comprendono che dalla rete possono trarre informazioni, campagne, indicazioni su scala globale e possono al contempo trovare nella rete lo sbocco delle richieste che i loro aderenti e attivisti territoriali fanno. Il fatto che la rete si interfacci con tutte le campagne in atto, permette agli attivisti italiani di essere sempre collegati con il movimento internazionale della nonviolenza e del disarmo umanitario. Questi sono i motivi per cui la rete continua a crescere: è nata con oltre 60 associazioni aderenti e continuiamo a ricevere molte richieste di adesione”.

Cosa è il disarmo umanitario?

“Il disarmo umanitario è un approccio al disarmo incentrato sulle persone, volto a prevenire e alleviare la sofferenza umana e i danni ambientali causati da armi problematiche, soprattutto attraverso lo sviluppo di norme internazionali. Nel suo primo anno di vita la Rete Italiana Pace e Disarmo ha sperimentato un’azione particolarmente intensa, a partire dalla elaborazione del documento per il Governo con 12 proposte di contributo al processo di formazione del programma “Next Generation Italia” del PNRR. Sono queste le linee principali sulle quali la Rete si è mossa con proposte precise, concrete e realizzabili: superare la visione nazionale per una politica estera che guardi all’Europa come ‘potenza di pace’, la riconversione per un’economia disarmata e sostenibile, la difesa civile non armata e nonviolenta, il servizio civile universale, l’educazione alla pace dall’infanzia all’Università”.

Siete a difesa della Legge 185/90: di cosa tratta e perché è importante?

“La legge, intitolata ‘Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento’ è la legge italiana che regola l’export di armamenti. E’ una legge davvero innovativa elaborata oltre trenta anni fa grazie all’impegno della società civile dell’epoca che, stanca degli scandali che riguardavano l’invio di armi italiane nei peggiori conflitti del mondo, chiese al Parlamento di legiferare in merito e di mettere dei controlli sull’esportazione delle armi. Dopo la legge, è nata la rete del Disarmo, uno dei due ‘pezzi’ della rete attuale, e sulla quale ci siamo addestrati e fatto esperienza per poi portare avanti altre iniziative di campagna come quella per la richiesta di un Trattato internazionale sul Commercio delle Armi”…

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A Praga 90.000 persone manifestano contro la povertà e la guerra

Antonio Antonucci – Europe for Peace

Ieri, 11 marzo 2023, circa 90.000 persone hanno riempito la storica piazza Venceslao di Praga in una manifestazione antigovernativa chiamata “Repubblica Ceca contro la povertà”.

Gli oratori hanno esposto una serie di richieste inviate al governo su temi di attualità, tra cui gli elevati prezzi dell’energia e dei beni di prima necessità, la pesante censura di opinioni non allineate a quelle del governo e la mancanza di sforzi per una soluzione pacifica al conflitto in Ucraina.

Gli organizzatori hanno assicurato che le manifestazioni continueranno fin quando il governo non darà seguito alle richieste enunciate. Nell’ultimo anno in Repubblica Ceca i prezzi degli alimentari, dell’energia e di altri beni di necessità sono raddoppiati. Inoltre si è diffusa nel Paese un’inedita censura riguardo alla crisi ucraina. Di fronte alla retorica bellicista del governo i manifestanti hanno evocato la necessità di lavorare per una soluzione negoziale…

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Il prossimo obiettivo della Nato: la Georgia – Vincenzo Brandi

La Georgia è un antichissimo paese bagnato dal Mar Nero, posto in posizione strategica a sud del Caucaso ed inserito tra Russia, Turchia, Armenia ed Azerbaigian. Attualmente sono in corso nel paese violente manifestazioni antigovernative ufficialmente dirette a contrastare il progetto di legge in discussione al parlamento sugli “agenti stranieri”.

Il progetto di legge prevede di considerare “agenti stranieri” tutte le Organizzazioni non Governative (ONG), i social network, i media, le associazioni, i siti informatici dei vari blogger, che ricevano finanziamenti dall’estero superiori al 20% del loro bilancio ufficiale.

Lo spirito della legge è chiarissimo e tende a salvaguardare l’indipendenza del paese. E’ ormai cosa nota che negli ultimi decenni ONG, media, social network e blogger, finanziati e manovrati dall’esterno, hanno svolto un’azione di provocazione e destabilizzazione in vari paesi in cui hanno provocato disordini e “rivoluzioni colorate” (in realtà veri colpi di stato). Tra i paesi colpiti, ricordiamo la ex-Jugoslavia, l’Ucraina, l’Egitto, ed anche Siria, Libia, Bielorussia, Hong Kong, la stessa Georgia, e molti altri…

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Dopo il tritacarne – Enrico Tomaselli

La sanguinosa battaglia di Bakhmut si avvia inesorabilmente alla conclusione. Quanto più gli ucraini tarderanno ad avviare la ritirata, tanto più probabile è che rimangano chiusi nell’accerchiamento, non avendo a quel punto altra alternativa se non la resa o la morte. Ma, per quanto la battaglia abbia tenuto banco nei media per mesi, la sua importanza è rilevante tatticamente, ma sotto il profilo strategico sposta poco. La questione rimane sempre la stessa: come e dove si colloca il giro di boa, il punto in cui si può realisticamente aprire un tavolo negoziale. Un punto che, però, l’Occidente sembra intenzionato a spostare sempre più in là.

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Tra iperbole e trincee

Quando la propaganda ringalluzzisce, è segno che le cose non vanno bene. Se non hai buone nuove da raccontare, è il momento in cui si fanno strada le iperboli più fantasiose, in cui si fa di tutto per occultare il reale stato delle cose. Da mesi la situazione sul fronte ucraino corrisponde sempre meno ai desiderata di Washington e, mentre il dibattito interno fa venire fuori con sempre maggiore insistenza le perplessità e le contrarietà di una parte considerevole dell’establishment statunitense, la propaganda cerca di tappare i buchi più vistosi.

Da mesi si parla di stallo, anche se in effetti le forze armate russe stanno lentamente conquistando terreno praticamente lungo l’intera linea del fronte. Dopo tutto il clamore sull’invio di carri armati da parte dei paesi NATO, il tutto si è ancora una volta risolto in una bolla di sapone: pochi, e alla spicciolata, senza quindi alcuna possibilità di incidere anche solo a livello tattico. Non sono nemmeno ancora arrivati, che già si è alzato il polverone sulla fornitura di cacciabombardieri.

Ma la domanda a cui nessuno in Occidente risponde resta il convitato di pietra: qual è l’obiettivo strategico?

Per Mosca, quali siano gli obiettivi è fin troppo chiaro; e paradossalmente, sono ancora gli stessi su cui fu lanciata l’Operazione Speciale Militare, il 24 febbraio 2022. La liberazione degli oblast russofoni, la demilitarizzazione dell’Ucraina, la sua denazificazione, la messa in sicurezza dei (nuovi) confini occidentali della Russia. L’unica variabile in campo, è l’estensione territoriale che sarà ritenuta adeguata a garantire questi obiettivi, e quindi – sostanzialmente – se includerà o meno l’oblast di Odessa, se si spingerà sino alla Transnistria, se stabilirà la linea di confine sul Dniepr oppure oltre.

La strategia russa è evidentemente improntata alla precauzione: gli obiettivi vanno perseguiti al minor costo possibile, ed evitando accelerazioni che possano favorire colpi di testa da parte degli ultras della NATO, ritrovandosi invischiata in un confronto diretto con l’Alleanza Atlantica. Una prospettiva che sia a Mosca che a Washington è vista come pericolosa.

Di sicuro, la Federazione Russa può essere disponibile a trattare sulla questione territoriale, ma solo se avrà sufficienti garanzie sugli altri piani. Cosa che, allo stato attuale, né Kyev, né tantomeno gli USA, sembrano disposti a discutere.

Purtroppo – ed in questo è emersa la tragica pochezza delle leadership europee, attuali e pregresse – l’Occidente si è bruciato l’intera credibilità di cui pur disponeva presso il Cremlino. Il fallimento degli accordi di Minsk, il silenzio sull’aggressione ucraina al Donbass, la sfrontata rivendicazione di aver imbrogliato le carte per dar modo all’Ucraina di riarmarsi, la virulenza del linguaggio russofobo, l’accanimento sanzionatorio, per non parlare del gigantesco supporto in armi e denaro offerto a Kyev, hanno azzerato ogni possibilità che Mosca si fidi di una eventuale parola data, e persino di un trattato. È chiaro che adesso si potrà negoziare solo a partire da condizioni materiali, da dati di fatto e realtà effettive e consolidate. Il tempo delle chiacchiere è finito.

Ovviamente in Russia sono consapevoli che questo genere di obiettivi non è dietro l’angolo, stante l’ostinazione occidentale a non aprire alcuno spiraglio. Ma, al tempo stesso, sono consapevoli anche del fatto che questa rottura drammatica sta dando una spinta all’intera società russa, consentendogli di avviarsi su un nuovo cammino; un cammino nel quale l’Occidente, ed anche la stessa Europa, ha perso la sua centralità, sia pure come interlocutore, e si avvia a diventare – ancor più che ostile – marginale

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Armi, petrolio e gas: come la guerra in Ucraina sta avvantaggiando gli Usa – Domenico Moro

La guerra in Ucraina ha creato difficoltà economiche alla Ue, tra cui la crisi energetica e l’aumento dei costi di approvvigionamento di gas e petrolio, ma ha determinato grandi vantaggi per l’economia degli Usa. Ad avvantaggiarsi sono due settori molto importanti del sistema produttivo statunitense: gli armamenti e l’estrazione di gas e petrolio.

Già nel 1961 il presidente statunitense Dwight Eisenhower aveva messo in guardia l’opinione pubblica sul Complesso militare industriale, che, attraverso l’integrazione tra Forze armate e industria, rappresentava un centro di influenza importante sulle decisioni politiche degli Usa. La forza del Complesso militare industriale si è mantenuta intatta fino a oggi: l’industria bellica impiega ben 800mila addetti e, da sola, la prima impresa bellica del Paese, la Lockheed, riceve più fondi pubblici del Dipartimento di Stato, che è in pratica il ministero degli esteri statunitense, e di Usaid, l’agenzia per lo sviluppo internazionale, messi insieme.

Grazie alla guerra in Ucraina, il Complesso militare industriale sta sperimentando una crescita esponenziale. Dei 50 miliardi di dollari in aiuti militari arrivati a Kiev oltre 30 vengono dai soli Stati Uniti. I rifornimenti di armi e di munizioni stanno assottigliando le riserve delle Forze Armate statunitensi, mettendo in difficoltà, secondo alcuni analisti, la capacità potenziale degli Usa di combattere, oltre al conflitto in Ucraina, un secondo conflitto in Estremo Oriente, che potrebbe scaturire dalla contesa con la Cina su Taiwan. Quindi, bisogna ricostruire le riserve di armi e munizioni.

Di conseguenza, le fabbriche di armamenti sono travolte dagli ordini: la sola produzione di proiettili d’artiglieria è salita del 500%. Per questa ragione le principali società attive nella produzione bellica stanno allargando la loro base produttiva. Ma ad aumentare non è solo la produzione: le imprese belliche negli ultimi sei mesi hanno guadagnato in borsa spesso oltre il 10%…

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La verità della guerra in Bosnia: clamorosi documenti declassificati dell’intelligence canadese!

Un mito occidentale ben consolidato sulla guerra in Bosnia è che i separatisti serbi abbiano cercato di impadronirsi dei territori croati e bosgnacchi per creare una “Grande Serbia” e presumibilmente abbiano epurato i musulmani nativi come parte di un deliberato piano genocida, rifiutandosi di partecipare ai negoziati di pace. Contro questa visione ideologizzata a cui anche la storiografia egemone nelle università svizzere ed europee si è prestata, per non parlare dei media pubblici e privati di questa parte del mondo, parlano però ora i primi documenti declassificati. E la verità sembra essere molto diversa.

L’escalation del conflitto e il sostegno agli islamisti

I servizi segreti delle forze armate canadesi dimostrano infatti che tale retorica era una cinica farsa. Il portale Grayzone ha pubblicato materiali della missione UNPROFOR in Bosnia, che mostrano che gli Stati Uniti hanno gettato le basi per la guerra in Bosnia.

L’accordo di pace concluso dalla Comunità europea all’inizio del 1992 prevedeva la formazione di una confederazione in Bosnia, divisa in tre regioni semiautonome all’interno dei propri confini etnici. Sebbene questa opzione non fosse l’ideale, avrebbe potuto evitare un conflitto su vasta scala. Tuttavia, il 28 marzo 1992, l’ambasciatore statunitense in Jugoslavia Warren Zimmerman propose al presidente Izetbegovic che Washington riconoscesse la Bosnia come stato indipendente. L’ambasciatore aveva promesso sostegno incondizionato nella guerra successiva se avesse respinto la proposta europea. Poche ore dopo, l’islamista Izetbegovic, aizzato dagli USA contro l’Europa e la Serbia, mise piede sul sentiero di guerra e quasi subito scoppiarono sanguinose ostilità.

 

Il vincolo fra gli USA e la futura UE

Gli imperialisti statunitensi erano preoccupati che il ruolo guida di Bruxelles nei negoziati avrebbe indebolito il prestigio internazionale di Washington e aiutato la futura UE a diventare un blocco di potere indipendente. Washington voleva invece vedere la Jugoslavia ridotta in rovina e progettava di soggiogare duramente i serbi, il cui patriottismo rappresentava un ostacolo ai piani globalisti della Casa Bianca, prolungando la guerra il più a lungo possibile. L’ampia assistenza di Washington ai bosniaci è servita efficacemente a questi obiettivi. Nel segmento occidentale, c’è la convinzione che l’intransigenza serba nei negoziati abbia bloccato il cammino verso la pace in Bosnia. Tuttavia, i messaggi UNPROFOR chiariscono che è vero esattamente il contrario. Ovviamente nessun libero giornalista della Radiotelevisione Svizzera lo dirà!

 

La demonizzazione della Serbia è funzionale alla NATO

Le forze di pace canadesi hanno attirato l’attenzione sulla natura intrattabile dei bosgnacchi, non dei serbi. Come si legge in un passaggio, l’obiettivo “insormontabile” di “soddisfare le richieste dei musulmani sarà il principale ostacolo in qualsiasi negoziato di pace”. I materiali declassificati affermano anche che “l’interferenza esterna nel processo di pace non ha aiutato la situazione” e la pace non sarà raggiunta “se le parti esterne continueranno a incoraggiare i musulmani a essere esigenti e irremovibili nei negoziati”. Per interferenza esterna, UNPROFOR, ovviamente, intendeva Washington. “L’incoraggiamento di Izetbegovic a spingere per ulteriori concessioni e il chiaro desiderio degli Stati Uniti di revocare l’embargo sulle armi ai musulmani e bombardare i serbi sono seri ostacoli alla fine delle ostilità nell’ex Jugoslavia”, afferma l’intelligence militare canadese il 7 settembre 1993. Il giorno successivo il quartier generale canadese veniva informato che “i serbi hanno rispettato i termini del cessate il fuoco nella massima misura”. Alija Izetbegović ha basato la sua posizione negoziale sull’”immagine popolare dei serbi bosniaci come i cattivi”. Ha avuto anche un co-beneficio: accelerare gli attacchi aerei della NATO contro la Serbia governata dall’alleanza patriottica siglata fra i comunisti di JUL e i socialisti di Slobodan Milosevic. Allo stesso tempo, insistono i servizi segreti dell’esercito del Canada, i militanti musulmani “non hanno dato una possibilità ai colloqui di pace con le loro azioni sconsiderate”. Negli ultimi mesi del 1993 hanno effettuato innumerevoli attacchi contro i serbi in violazione del cessate il fuoco.

Ancora oggi alle nostre latitudini non mancano giornalisti e insegnanti che ripetono unilateralmente la narrazione funzionale all’atlantismo, col solo intento di denigrare la capacità di resistenza del popolo serbo rispetto ai diktat imperialisti. E dubitiamo che i documenti di cui questo articolo ha riferito saranno presi in considerazione nell’aggiornare programmi scolastici e libri di testo. La storiografia alternativa, che prova a mettere in discussione questa visione delle cose, anche quando adotta il metodo marxista, viene tacciata senza tanti complimenti di sciovinismo e quindi nemmeno considerata degna di essere dibattuta. Non mancano casi in cui nella democratica e sempre meno neutrale Svizzera addirittura chi osa relativizzare le responsabilità della Serbia venga denunciato penalmente per aver sminuito un crimine contro l’umanità. Anche questo ambito degli studi storici è insomma attraversato dalla contraddizione primaria della nostra epoca: da un lato il multipolarismo (di cui la Serbia è fra le promotrici in Europa) e dall’altro il sistema liberal-atlantista unipolare a trazione statunitense Questa contraddizione non è solo geopolitica, come potrebbe sembrare, ma riguarderà presto anche l’economia, la sociologia e le scienze storiche.

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Papa Francesco: «In Ucraina si sta combattendo una guerra di imperi»   

Papa Francesco in un’intervista alla Radiotelevisione svizzera di lingua italiana (Rsi) in occasione dei dieci anni di pontificato che verrà pubblicata integralmente domenica. Bergoglio ricorda la propria volontà di recarsi a Mosca già nei primi giorni nel conflitto, «a patto che Putin mi lasciasse una finestrina per negoziare», incassando però il niet di Lavrov (‘mi scrisse dicendo grazie ma non è il momento’).
«Lì ci sono interessi imperiali, non solo dell’impero russo, ma degli imperi di altre parti», spiega il pontefice, inserendo la guerra in una storia lunga un secolo. «In poco di più di cent’anni ci sono state tre guerre mondiali: ‘14-18, ‘39-45, e questa, che – aggiunge – è cominciata a pezzetti e adesso nessuno può dire che non è mondiale. Le grandi potenze sono tutte invischiate».
E le armi sono protagoniste: «Un tecnico mi diceva: se per un anno non si producessero armi, sarebbe risolto il problema della fame nel mondo. È un mercato. Si fa la guerra, si vendono le armi vecchie, si provano le nuove»…

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Pino Arlacchi a l’AD: “I BRICS hanno sfondato. Ma in Italia nessuno ne parla”
(di Alessandro Bianchi)

“Ormai hanno superato in termini di PIL misurato secondo il potere di acquisto il valore del G7 ed hanno sfondato, ma il grande pubblico, soprattutto in Italia, non ne sa nulla”. Esordisce così a l’AntiDiplomatico l’ex vicesegretario Onu ed europarlamentare, Pino Arlacchi, da poco divenuto il coordinatore del comitato scientifico del neo-nato Istituto Italia-Brics presieduto da Vito Petrocelli, il senatore 5 Stelle destituito dalla carica di presidente della Commissione Affari esteri per aver sfidato i diktat draghiani sull’invio delle armi in Ucraina.

“Se anche il Financial Times, e per lo più a firma di un banchiere, pubblica un lungo editoriale sui Brics e i possibili scenari di de-dollarizzazione, significa che sono veramente preoccupati”, prosegue Arlacchi. E “l’ultima goccia” è stato il sequestro delle riserve della Banca Centrale russa depositate nelle banche occidentali. “Parliamo di 300 miliardi di euro ed è un attacco frontale alle fondamenta giuridiche del capitalismo, ai suoi diritti di proprietà ed alla sicurezza dei suoi scambi”. In altri scritti l’ex vicesegretario Onu aveva già definito “Tafazzi Game” questa scelta autolesionista dell’Occidente contro Mosca, ma a l’AntiDiplomatico specifica meglio alcuni passaggi forse sottovalutati soprattutto in Italia. “Il procedimento pratico del sequestro è stato confezionato nei dettagli da Draghi, allora primo ministro italiano, su mandato diretto di Ursula Von Der Leyen, e da Yenet Allen per gli Stati Uniti. Si è deciso per una misura ultraradicale, quasi senza precedenti, dato che un provvedimento analogo fu adottato solo contro la Germania nazista e dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Sequestrare tutti i beni della Banca centrale russa in Occidente è stato un messaggio forte e devastante, che tantissimi paesi hanno colto in chiave non favorevole agli USA ed ai loro alleati”.

Quando chiediamo ad Arlacchi come interpreta le nuove richieste di adesione al gruppo Brics provenienti da un numero così alto di paesi (anche alleati o ex alleati storici del blocco euroamericano), la risposta è conseguente. “L’azione contro la Banca centrale russa ha anche colpito il predominio del dollaro, che è il bene rifugio più importante della finanza mondiale. Essa ha fatto saltare il banco: la fuga dal dollaro è adesso una misura di prudenza obbligatoria per tutte le banche centrali.

La parola d’ordine ora è “diversificazione delle riserve di valuta”. “Se pensate che anche l’Egitto, i paesi del Golfo e perfino Israele hanno deciso di ridurre la quota delle loro riserve in dollari, avete la portata di cosa stia avvenendo. La loro sensazione è che ciò che è capitato alla Russia oggi, domani può succedere a qualunque altro paese. Ed i Brics si stanno preparando ad annunciare, forse già dal loro prossimo incontro, una loro proposta di alternativa al regno del dollaro”….

Tutto questo porta ad un cambiamento che per l’ex vice-segretario delle Nazioni Unite è ineluttabile.  “E’ in atto un processo di de-dollarizzazione. Il possesso di dollari come bene rifugio e come valuta di riserva è sempre meno indispensabile”. Quando nel 1971, sottolinea Arlacchi, Nixon impose al mondo l’uso di una divisa non più convertibile in oro, lo fece essendo ben consapevole che non c’erano alternative per le vittime. Gli Stati Uniti detenevano allora quasi la metà della ricchezza mondiale. Erano la forza trainante dell’economia reale e del commercio internazionale.  Oggi rappresentano solo il 17% del PIL planetario, la Cina produce il doppio del loro output industriale, e l’unico campo in cui Washington prevale nettamente è quello finanziario. Grazie a Wall Street e al Tesoro, sono ancora i padroni della finanza mondiale. “Le loro sanzioni, tuttavia, funzionano ormai solo nel campo degli scambi finanziari. Per il resto vengono evase con crescente facilità, anche se continuano a devastare le popolazioni povere di alcuni paesi. Il blocco delle importazioni di medicinali e attrezzature sanitarie causato dal rifiuto delle banche internazionali di compensare ogni tipo di transazione, anche quelle dei “non-sanctionable items”, tra il Venezuela e l’Occidente ha provocato 30mila decessi aggiuntivi”.

Ed oggi l’economia mondiale dipende dall’ Asia e dalla Cina. Dalla loro capacità di sostenere la domanda globale di beni di consumo e dal livello dei loro investimenti interni ed esteri. E’ grazie alla Cina che la crisi del 2008 non si è trasformata in una ripetizione del disastro del 1929. E’ grazie alla ripresa dell’economia cinese post-Covid che è forse possibile evitare una recessione economica dell’Europa data per certa come conseguenza della guerra tra NATO e Russia. “I tedeschi possono continuare ad esportare le loro auto e noi e i francesi a vendere beni di lusso in Cina, grazie ad una domanda in crescita generata dalla crescente prosperità di Pechino e di quasi tutto il resto dell’Asia orientale. Sono questi i nuovi partner economici dei quali l’Europa non può fare a meno. Gli Stati Uniti sono ancora un partner fondamentale, ma solo in campo militare e nel perimetro della politica atlantista.”…

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Chi fa la pace – Nicola Licciardello

IL (MIO?) PIANO DI PACE

0,1. Voglio scrivere anch’io un Piano di Pace – un tempo lo scrivevano solo i presidenti o i segretari di stato, quand’erano degni di questo nome, quando avevano il potere su qualcosa, e in primo luogo sulla Parola. Oggi anche Facebook è pieno di analisi, proposte, proteste e mille riprese. Ma tanto meno lì la Parola ha un potere. Non ce l’ha perché ci sono cose che si fanno, ma non si dicono, e nemmeno si scrivono: dettagli sessuali, tecniche di rapina, segreti di viaggio… Inoltre, la cosa più evidente di questi tempi, che il re è nudo, si ripete per abitudine, ma non se ne comprende il vero significato. Appunto perché esso è indecente: non solo il re è fatto come tutti i sudditi, non è divino e ha gli stessi vergognosi attributi che essi nascondono a se stessi, ha gli stessi bisogni, gli stessi vizi, le stesse inconfessabili propensioni agl’inganni, al tradimento, alla corruzione. Non si potrebbe dire che il principale alleato e “protettore” di uno stato è colui che lo abbatte e lo manda al diavolo.

Eppure oggi la brutale arroganza del potere si permette di proclamarlo: “Qualsiasi problema, ce la faremo, toglieremo di mezzo quel gasdotto”, e che “l’Europa si fotta!” aggiunge graziosamente una signora dell’Ufficio.

  1. E l’Europa si è fottuta. Gradualmente, inesorabilmente, prevedibilmente. Non si dovrebbe poter dire che il Cancelliere dello stato trainante d’Europa è colui che ha taciuto, al tempo dell’armistizio con la Russia, per dare il tempo agli occupanti Nato in Ucraina di organizzarsi, di armarsi al fine di scacciare la stessa Russia dal consesso delle nazioni, di annichilirla – militarmente, moralmente, politicamente. Ma è lo stesso cancelliere che lo rivela, affossando il suo stesso passato, dichiarando la sua rinnovata fedeltà alla Santa Alleanza, cristiano-occidentale contro l’Alieno, il Folle, il Diavolo. Perché? Un narcisismo ideologico-feticista über alles ? è semplicemente questo narcisismo la minuscola soddisfazione universale da esporre a tutti?
  2. Nessun compromesso, e tanto meno pace è possibile con chi si disprezza. Il presente non è il Risorgimento dei poveri Ucraini, mandati al macello da un cinico Commissario del Potere: questa è la GUERRA DELL’OCCIDENTE CONTRO L’ORIENTE. Noi, come Occidente tutto insieme, disprezziamo l’Oriente tutto insieme, ancora come 2500 anni fa, ai tempi degli eroi greci contro i Persiani, “barbari” perché non parlano greco! è questa la semplice, ineludibile verità: disprezziamo l’Oriente, perché ci fa paura la sua saggezza, la sua fedeltà all’armonia e alla natura. Disprezziamo ciò che non capiamo e che non proviamo nemmeno ad assaggiare (tranne i pochi veri eroi), perché è troppo complesso, troppo serio, troppo vero. Ci ricorda troppo da vicino tutti i nostri problemi: ecologici, psicologici, sociali, tecnologici – mentre sarebbe l’unica cosa da fare per poter iniziare un dialogo: CAPIRE IL LINGUAGGIO DELL’ALTRO. Ma oggi, come fosse troppo tardi, si è scelto di fare la guerra definitiva all’Oriente, di rovinarlo per sempre. Ma, se pure rimanesse l’Occidente soltanto al mondo, che comunque è rotondo, non rimarrebbe anche un qualche Oriente dello stesso Occidente?
  3. È difficile innanzitutto fare la pace con se stessi, perché troppo abbiamo sacrificato la nostra stessa natura nella “colonia penale”, e troppo alla stessa colonia penale abbiamo affidato il riscatto dell’Europa – che si è rovesciata in colonia degli antenati, nella vergogna indicibile degli eccidi, degli olocausti, degli stermini di massa che ci siamo scambiati nella storia. E chi più ne ha più ne metta, sono questi i degni titoli che ogni giorno esponiamo e rivendichiamo, la fierezza dell’annientamento. E perciò è risalito alla ribalta il nichilismo. Viene prima la struttura, la produzione, la guerra e i suoi eccidi, o prima la sovrastruttura, l’ideologia per cui la guerra si organizza ed attua? Lascio ai filosofi la risposta, mi accontento del problema. So che forse è troppo tardi per lasciare Cesare, Napoleone, Kennedy – e soprattutto Dylan, Marilyn, il ’68, e cominciare a studiare il Vedanta e Lao Tsu, se non lo si è già fatto. Certo sarà possibile oltre l’intelligenza artificiale…

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L’OCCIDENTE ORGANIZZERÀ LA PACE ATTRAVERSO LA DIVISIONE DELL’UCRAINA – NATIONAL REVIEW

NR: L’Occidente Accetta Lo Scenario Di Una Divisione In Due Dell’Ucraina
Gli Stati Uniti e i loro alleati stanno ammettendo lo scenario di dividere l’Ucraina in due, ha detto l’editorialista del National Review Noah Rothman.

“L’entusiasmo occidentale per la questione ucraina continuerà a diminuire fino a quando il governo di Volodymyr Zelenskyy non si troverà di fronte a un fatto compiuto. A quel punto, l’Ucraina sarà letteralmente divisa, e con l’approvazione dei suoi cosiddetti sostenitori”, ritiene Rothman.
Secondo lui, l’Ucraina non ha abbastanza forza per resistere e raggiungere i confini del 1991. Ha anche affermato che i tentativi di conquistare il Donbass e la Crimea sarebbero costati troppo all’Occidente, richiederebbero un’enorme quantità di munizioni, equipaggiamento e supporto aereo.

L’autore ritiene che Washington, Berlino e Parigi saranno soddisfatte della presenza di un territorio destabilizzato vicino ai confini della NATO, mentre la Polonia e gli Stati baltici sono quelli che se la prenderanno più duramente.

Lo stesso giornale avverte della stanchezza dell’occidente sull’Ucraina

C’è una tendenza in crescita nei social media oggi. Molti americani cominciano a vedere in Vladimir Putin l’eroe e il presidente, il leader che vorrebbero avere. È giunto il momento in cui il presidente degli Stati Uniti Joe Biden sta fallendo così gravemente da mettere Putin in una luce favorevole, scrive American Thinker in un articolo della famosa giornalista statunitense Laura Wellington.

Gli americani stanno iniziando a vedere Putin come un uomo e un leader a cui importa del suo paese e del suo popolo molto più di quanto i loro stessi leader si preoccupino per gli americani. Una metamorfosi così strana e dolorosa per la nazione è avvenuta a causa della sfiducia seminata tra il presidente Biden e la sua amministrazione, da un lato, e il popolo americano, dall’altro. Questo ha portato molti a desiderare un leader come Putin.
Gli Stati Uniti non sono più la nazione che affermavano di essere. Senza un vero leader, la natura umana cerca di riempire quel vuoto, e Putin è senza dubbio alla portata dell’attenzione americana attraverso la tecnologia e i social media.
Quello che pensano di vedere gli piace– afferma l’autore.

È più che chiaro che l’ammirazione non significa che le storie che il pubblico americano inventa su Putin sui social media siano vere. Tuttavia, mostra quanto sia diventato disperato il popolo americano, che invidierebbe un leader nemico a causa della sua presunta esclusività e lealtà. Di fatto, è la prima prova storica del completo e totale fallimento dell’amministrazione Biden.

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Georgia on my mind: gli Usa ci riprovano – Alberto Capece

Adesso che l’Ucraina o per meglio dire la Nato sta per essere sconfitta in maniera tale da non poter essere più protetta da alcuna narrazione, in Georgia nasce un nuovo tentativo di Maidan, una nuova rivoluzione colorata inscenata dalle quinte colonne e dalle Ong americane il giorno dopo la visita lampo di. Todd Robinson, vicesegretario di Stato americano ed ex ambasciatore in Venezuela  che si è opposto alla legge non si capisce bene a che titolo se non quello di funzionario dell’imperialismo. e in più sempre non si bene a che titolo ha incontrato i vertici della polizia. Che le manifestazioni siano state innescate con un pretesto si tratti di un pretesto è evidente a chiunque perché la motivazione ufficiale delle proteste è l’approvazione di una legge che richiede a tutte le organizzazioni  con almeno il 20% di finanziamenti stranieri di registrare questi soldi presso le autorità. La stampa occidentale sostiene che tale normativa si basa sul sistema di registrazione russo e dunque sarebbe di per sé cosa negativa, mostrando tutta la stupida  futilità del pretesto, ma la cosa  è ancora peggiore da un punto di vista morale perché questo tipo di norma è in realtà di origine statunitense. Il fatto è che gli Usa abituati ad infiltrare gli altri non vogliono a loro volta essere infiltrati e perciò hanno messo una barriera. La stessa contro cui inopinatamente dovrebbe insorgere la popolazione georgiana.

Del resto la forte influenza degli Stati Uniti sulla Georgia difficilmente può essere negata. L’organizzazione affiliata alla Cia, l’Usaid ha iniziato la sua “operazione” in Georgia nel 1992 e ha fornito fondi per 1,8 miliardi di dollari USA. Loro stessi affermano che la Georgia è “un importante alleato degli Stati Uniti nella regione del Caucaso”. Sappiamo che gli Stati Uniti hanno rovesciato il governo georgiano nel 2003 proprio per evitare un riavvicinamento alla Russia. Dopo il 2008, l’esercito georgiano è stato inondato di armi, dice l’ex marine americano Brian Berletic sul suo canale Telegram...

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Voi e l’esercito di chi? – Aurelien

La NATO farebbe bene a rimanere fuori dall’Ucraina.

Politici ignoranti e opinionisti confusi hanno fatto rumore di recente, minacciando, o addirittura fantasticando, su una sorta di intervento formale della NATO in Ucraina. In generale, non hanno idea di cosa stiano parlando e di quali sarebbero le implicazioni pratiche di un intervento. Ecco alcuni esempi del perché è un’idea stupida.

Nel gennaio del 1990, mi trovavo nel quartier generale della NATO a Bruxelles per una riunione di routine. Era una di quelle giornate fredde e umide in cui il Belgio è specializzato, ma c’era molto di più dietro l’atmosfera gelida e da mausoleo dei corridoi deserti. Negli ultimi mesi, il terreno si era continuamente mosso sotto i piedi della NATO e, non molto prima di Natale, la Romania, l’ultimo rimasuglio del Patto di Varsavia, era andata in fiamme. Nessuno aveva la più pallida idea di cosa sarebbe successo la settimana successiva, per non parlare del mese successivo, e la NATO cominciava ad assomigliare a un manifestante con un cartello per una causa già superata. Le capitali nazionali facevano fatica a tenere il passo con ciò che stava accadendo. Ho chiesto a un collega appena tornato da Washington cosa dicevano i falchi dell’Amministrazione Bush. La risposta è stata: “Sono sotto shock”.

Il fatto che la NATO esista ancora quasi trentacinque anni dopo, e che ora abbia il doppio dei membri di allora, ha incoraggiato alcune persone che non hanno prestato attenzione a credere che la NATO sia ancora la stessa potente organizzazione militare che era nel 1989, e che quindi basti minacciare un suo coinvolgimento formale in Ucraina, e i russi si allontaneranno. Non potrebbero essere più pericolosamente in errore.

Il fatto che la NATO sia sopravvissuta dopo il 1989 è stata una sorpresa per alcuni. Ma, come ho sottolineato, l’Alleanza aveva in realtà una serie di scopi utili per gli Stati europei e, in ogni caso, il mondo stava cambiando così rapidamente che non solo era impossibile trovare un accordo intorno a con che cosa sostituirla, ma era anche impossibile sapere che tipo di compiti avrebbe dovuto svolgere una futura organizzazione. Le organizzazioni non si chiudono all’improvviso e, in ogni caso, la NATO aveva ancora molto da fare. Quel giorno del gennaio 1990, la NATO era ancora profondamente coinvolta nei negoziati per il controllo degli armamenti a Vienna, che avevano finalmente dato una degna sepoltura alla Guerra Fredda, e continuava ad avere molto da fare, mentre i partner negoziali dall’altra parte del tavolo iniziavano ad avere quelli che si potrebbero definire problemi di coordinamento, e uno di loro si avvicinava al nostro lato del tavolo. Quando quella saga e le relative complicazioni furono finalmente risolte, la NATO si ritrovò in Bosnia, poi ad accogliere nuovi membri in un modo che non era stato previsto, poi in Kosovo, poi in Afghanistan. Tutto questo è stato essenzialmente improvvisato: non c’era un piano generale, se non un consenso pervasivo sul fatto che la NATO era più utile che no, e che era necessario trovarle cose da fare per mantenerla in vita.

Ma dietro le quinte stavano cambiando molte cose. La struttura militare della NATO, creata in preda al panico dopo la guerra di Corea e sempre pronta a mobilitarsi con breve preavviso, non serviva più a nulla. All’inizio lentamente, poi sempre più rapidamente, i contingenti nazionali che avevano costituito le sue forze permanenti cominciarono a sciogliersi. Una dopo l’altra, le nazioni europee abbandonarono il servizio di leva nazionale, ridussero radicalmente le dimensioni delle loro forze militari e sospesero le procedure di mobilitazione. Le forze statunitensi tornarono progressivamente a casa. La generazione di equipaggiamenti militari che stava entrando in servizio all’epoca è stata infine dispiegata, in numero ridotto, e per la maggior parte è ancora in servizio. I carri armati e gli aerei che la NATO intende inviare in Ucraina (il Challenger II, il Leopard II, l’F-16) sono essenzialmente progetti degli anni ’70, anche se molto aggiornati.

Il riconoscimento che la capacità della NATO di condurre una guerra seria è l’ombra di ciò che era un tempo sta lentamente iniziando a diffondersi nella comunità strategica, che non vi ha prestato attenzione nell’ultima generazione o giù di lì, perché aveva lo sguardo fisso sull’Afghanistan e sull’Iraq. Ma in realtà la situazione è molto peggiore, e come spesso accade i veri problemi sono nascosti nelle complessità tecniche. Ne tratterò brevemente alcuni, per spiegare perché l’intervento della NATO in Ucraina non è realmente possibile, se fosse possibile non sarebbe auspicabile, e anche se fosse auspicabile sarebbe totalmente inefficace, e persino pericoloso. Poiché non ho una formazione militare, lascerò questa parte agli esperti e mi concentrerò sulle questioni più ampie.

Dato che di recente i britannici hanno emesso alcuni dei rumori più bellicosi, analizziamo cosa è cambiato in quel paese dai tempi della Guerra Fredda. Nel 1989, l’esercito britannico del Reno poteva schierare un corpo d’armata completo di quattro divisioni, circa 55.000 soldati, pronti a essere rinforzati in guerra da quasi altrettanti riservisti e unità regolari provenienti dal Regno Unito. (C’era anche una potente componente aerea. Durante la cosiddetta fase di transizione verso la guerra, la mobilitazione sarebbe avvenuta con poteri bellici d’emergenza, togliendo le persone dai posti di lavoro e requisendo le risorse logistiche e di trasporto per trasferire decine di migliaia di combattenti in Europa, mentre le famiglie venivano evacuate nella direzione opposta. Il governo normale sarebbe stato sostituito e il Parlamento si sarebbe, di fatto, dissolto. Decine di migliaia di altre truppe sarebbero state mobilitate per la difesa interna. Si sarebbero introdotte misure di difesa civile per far fronte ai bombardamenti e alle operazioni di sabotaggio previsti. Il governo stesso sarebbe stato disperso e i ministri avrebbero operato come commissari regionali.

Anche sul continente, naturalmente, si stavano prendendo disposizioni simili. Milioni di riservisti sarebbero stati richiamati, inviati alle loro unità e, in alcuni casi, trasferiti a centinaia di chilometri nelle loro sedi di guerra. La vita ordinaria si sarebbe di fatto fermata, perché la mobilitazione avrebbe richiesto tutte le risorse delle nazioni coinvolte. Questo è il significato della “guerra” moderna: perché i russi dovrebbero accettare ora un accordo che ci causa meno problemi? Perché dovrebbero accettare una sorta di “guerra light”, limitata solo all’Ucraina?

C’è quindi da chiedersi se le nullità che parlano di “guerra” con la Russia abbiano una qualche idea di cosa significhi, e se capiscano come al giorno d’oggi non esistano nemmeno i meccanismi più elementari per renderla possibile. Tanto per cominciare, la guerra non è solo qualcosa che facciamo agli altri. Non si tratta di salutare i ragazzi che salpano per andare a combattere in un paese straniero, ma di combattere deliberatamente con qualcuno che può farci molto più male di quanto noi possiamo farne a lui. Le implicazioni pratiche sono molteplici: vediamo solo alcune delle più importanti.

Oggi nessuno “dichiara guerra”. Dopo il processo di Norimberga e la Carta delle Nazioni Unite, in cui le nazioni si impegnano ad astenersi dall’uso della forza, non è più possibile iniziare proattivamente uno stato di guerra con un’altra nazione. Dire, come alcuni hanno fatto, “siamo in guerra con la Russia” non ha quindi alcun senso, se non come slogan politico. Non ha alcuna forza legale. L’unico organo in grado di “dichiarare guerra” è il Consiglio di Sicurezza, e questo non accadrà in questo caso. Poiché i russi si sono guardati bene dall’attaccare il territorio della NATO o dall’impegnare deliberatamente le forze della NATO, non si può parlare di “stato di guerra” con le nazioni della NATO. Esiste invece uno stato di “conflitto armato”, che ha una sua definizione: essenzialmente violenza armata prolungata tra Stati o tra Stati e altri gruppi armati. Ma il “conflitto armato” è appunto uno stato di cose, non un processo o una dichiarazione, ed esiste o non esiste come questione di fatto e di diritto. Quindi, se è ovvio che esiste un conflitto armato in Ucraina, è altrettanto ovvio che gli Stati occidentali non ne sono parte. È quindi difficile capire come le fantasie dei politici bellicosi possano effettivamente realizzarsi.

L’unico modo in cui ciò potrebbe potenzialmente avvenire sarebbe se l’Ucraina facesse una richiesta formale di assistenza militare agli Stati occidentali. È così che i russi hanno giustificato le loro operazioni in Ucraina, sostenendo che stanno assistendo le repubbliche secessioniste nell’esercizio del loro diritto di autodifesa, che è preservato (anche se ovviamente non è stato stabilito) dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ma non è chiaro cosa significherebbe in pratica e fino a che punto le forze occidentali potrebbero effettivamente spingersi. Attacchi diretti al territorio russo, ad esempio, sarebbero probabilmente esclusi se si utilizzasse questo argomento.

Ma mettiamo che in qualche modo questi problemi possano essere superati e che si annunci con gioia che le nazioni della NATO entreranno nel conflitto come belligeranti a tutti gli effetti. Questo farebbe tremare i russi, non è vero? In realtà no. Vedete, se siamo in stato di guerra con un altro Paese e siamo liberi di attaccarlo, allora anche lui è libero di attaccarci. Non c’è modo di circoscrivere un simile conflitto all’Ucraina e non c’è motivo per cui i russi dovrebbero volerlo fare. Quindi la prima conseguenza è che le nazioni della NATO, le forze della NATO e gli obiettivi della NATO sarebbero esposti all’attacco immediato della Russia, in un momento in cui i sottocomitati stanno ancora lavorando a Bruxelles per cercare di generare forze. Cosa farebbero quindi i russi?

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guerra, ancora guerra, solo guerra – Enrico Euli

In questo anno di guerra l’Europa ha definitivamente rinunciato a se stessa.

É tornata, attraverso la Nato, a coincidere totalmente con decisioni, volontà, interessi e prospettive dettate dagli Stati Uniti.

Siamo liberi, ma non di decidere altrimenti.

In questo anno di guerra è cresciuta esponenzialmente la nostra co-belligeranza.

Non la si può più nascondere dietro un dito.

La Nato è in guerra contro la Russia, minaccia la Cina, vuole ridimensionare l’autonomia europea.

Tutto questo è ormai chiaro ed evidente a chiunque.

Abbiamo scelto il cavallo zoppo, ed abbiamo scelto di perdere la guerra con lui.

Perchè gli Stati Uniti non hanno mai più vinto una guerra, dal Vietnam in poi.

Ma, ancora una volta, gli Stati Uniti -per difendere le nostra libertà a le nostre democrazie, come sempre- faranno la guerra sul territorio europeo.

Proseguiranno a provocare ai confini, ad espandersi militarmente nei paesi dell’est, a trasferirvi truppe ed armamenti.

Poi lasceranno devastare l’Europa dai nemici di turno (russi e/o cinesi), aggiungeranno il loro carico da novanta, e li chiameranno ‘effetti collaterali da fuoco amico’.

 

In questo anno di guerra ci è stato detto che armare sempre più l’Ucraina avrebbe accelerato le trattative e costretto la Russia a ritirarsi e negoziare da posizioni di debolezza.

Non è avvenuto e non avverrà.

Siamo da tempo allo stallo, e nessuno potrà vincere.

Quale condizione migliore per trattare ?

Ed, invece, ognuna delle due parti insiste a dichiarare che vincerà, che la guerra sarà breve, che si arriverà a trattare solo quando l’altra parte sarà sconfitta.

L’unica logica che è sempre stata in campo, quindi, è quella della guerra per la guerra.

E se questa è la logica, l’escalation è inevitabile e può soltanto procedere innanzi, come di fatto sta già accadendo ogni giorno di più.

Ed -in questo delirio psicotico di massa- anche i pacifisti continuano a giustificare il riarmo degli ucraini ed il loro diritto alla resistenza armata.

Se si accetta questo, inutile poi implorare di andare a trattare.

Le due cose non possono stare insieme.

Quest’anno di guerra, per l’ennesima volta nella storia, sta lì a dimostrarlo.

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ll 2 aprile prendiamo la Pace nelle nostre mani! – EuropeForPeace

In Europa, in Ucraina, in Russia e in tutto il mondo la gente vuole la pace, mentre i governi chiedono sempre più armi e risorse umane per la guerra.
Noi chiediamo il diritto alla salute, all’educazione, al lavoro e a un pianeta vivibile, ma i governi ci trascinano in una guerra totale.

L’unica possibilità di evitare il peggio risiede nel risveglio dell’essere umano e nella capacità di organizzarsi dei popoli.

Prendiamo il futuro nelle nostre mani: il 2 aprile convergiamo in Europa e in tutto il mondo in una giornata dedicata alla pace e alla nonviolenza attiva.
Spegniamo la televisione e tutti i social network, spegniamo la propaganda di guerra e le informazioni filtrate e manipolate. Dedichiamoci invece alla comunicazione diretta con le persone intorno a noi e organizziamo attività per la pace: un incontro, una manifestazione, un flash mob, una bandiera della pace sul balcone o sull’auto, una meditazione o una preghiera in accordo alla nostra religione o al nostro ateismo, e qualsiasi altra attività volta alla pace.

Ognuno lo farà con le proprie idee, credenze e slogan, ma tutti assieme spegneremo la televisione e i social. Convergeremo così nello stesso giorno con tutta la ricchezza e la forza della diversità. Sarà un grande esperimento di auto-organizzazione internazionale non centralizzato.

Solo noi possiamo cambiare le cose: noi, gli invisibili, quelli che non hanno voce. Nessuna istituzione o personaggio famoso lo farà per noi. E se qualcuno ha una grande influenza sociale dovrà metterla al servizio di tutti per amplificare la voce di chi ha un urgente bisogno di futuro per sé e per i propri figli.

Continueremo la protesta nonviolenta (boicottaggio, disobbedienza civile, sit-in,..) fino a quando chi oggi ha il potere di decisione non ascolterà la voce della maggioranza della popolazione che chiede semplicemente pace e una vita dignitosa.

Già il 3 aprile inonderemo i social con il racconto delle nostre iniziative: le nostre richieste, foto, messaggi e video.

Il nostro futuro dipende dalle scelte che facciamo oggi.

Europa per la Pace

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Esplode la crisi in Georgia – Francesco Dall’Aglio

Piuttosto all’improvviso, anche se in verità qualche segnale si era percepito già negli ultimi giorni, la situazione in Georgia si è fatta esplosiva – nel vero senso della parola, visto che i manifestanti hanno tirato un paio di molotov sui cordoni di polizia.

Al momento stanno dando l’assalto al Parlamento, smantellando le barriere antisommossa – vedi foto allegate – mentre la polizia risponde con lacrimogeni e cannoni ad acqua. Non si segnalano vittime, per il momento.

La manifestazione è la risposta all’approvazione, da parte del Parlamento, della nuova legge che obbliga media e associazioni che ricevono almeno il 20% dei loro fondi da associazioni o governi stranieri a registrarsi presso il Ministero della Giustizia come “agenti stranieri”, rischiando una serie di conseguenze amministrative e penali.

La misura, che a prima vista sembrerebbe destinata a combattere la “disinformazione” russa (il partito di governo, “Sogno Georgiano”, è filoeuropeista, filoatlantista, liberale e decisamente antirusso anche se il primo ministro, Irakli Garibashvili, è invece sospettato di essere personalmente filorusso), in realtà colpisce principalmente le ONG occidentali, prima fra tutte la famigerata USAID, la cui amministratrice, Samantha Power (nota per avere appoggiato qualsiasi intervento militare su base “umanitaria”, dalla Libia alla Siria allo Yemen) ha subito twittato preoccupata che la nuova legge possa “minacciare gravemente il futuro euro-atlantico della Georgia“.

Le hanno fatto subito eco l’ambasciata statunitense in Georgia, che parla di “giornata nera per la democrazia georgiana” (anche se la legge è stata votata a maggioranza in Parlamento, non è frutto di un colpo di mano) e di una “legge ispirata dal Cremlino che è incompatibile con il chiaro desiderio del popolo georgiano di essere integrato in Europa” ed esprime dubbi sul reale impegno di Sogno georgiano nei confronti dell’integrazione euro-atlantica.

A chiudere il cerchio, il portavoce del Dipartimento di Stato USA Ned Price ha detto che i responsabili di questa legge che “interferisce con quello che è un diritto umano universale” potrebbero diventare oggetto di sanzioni da parte degli Stati Uniti.

E proprio negli Stati Uniti si trova in questo momento (tu guarda a volte le coincidenze…) la Presidente della Repubblica, Salomé Zourabichvili, che ha registrato un videomessaggio nel quale dichiara di sostenere i manifestanti e che eserciterà i suoi poteri di veto per respingere la legge (che però verrà rimandata al Parlamento che potrà di nuovo votarla, a maggioranza semplice tra l’altro)…

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GUERRE, RIARMO E TECNOCRAZIA RITARDANO LA TRANSIZIONE ENERGETICA

Mario Agostinelli, Alternative per il Socialismo, Gennaio 2023

 

PREMESSA

Rileggendo a sprazzi le sequenze della monumentale “Fondazione” di Asimov ho provato ad attualizzare le tre leggi della robotica formulate dal biochimico e scrittore sovietico già nel 1942, mentre era in corso la Seconda Guerra Mondiale e l’Universo veniva da lui immaginato popolato da etnie diverse e da comporre in una definitiva armonia. Ho così potuto comparare con rammarico come l’avanzamento della tecnologia e la pretesa di una “singolarità” che oltrepassi i limiti dell’umano – così scontata e affascinante in quei corposi romanzi di fantascienza – sia stata accesa e distorta in questo inizio millennio in un perverso vortice di guerre di cui non si intravvede la fine. Al punto che un riarmo, tanto più sofisticato quanto più annientante, si presenta come lo stigma degli anni a venire. Anziché verso una prospettiva di pacificazione universale, cui faticosamente tendeva la mitica Fondazione di Hari Seldom, gli impieghi dell’intelligenza artificiale, l’innovazione dei sistemi di propulsione balistica, l’innesco a velocità subluminale degli ordigni bellici, puntano tutti  a trasformare i campi di battaglia in piattaforme mobili da cui soldati-robot bersagliano le popolazioni civili e distruggono le infrastrutture per rendere invivibili i territori del nemico. Le tre leggi su cui Asimov aveva ipotizzato il contributo della robotica alla evoluzione umana (i robot erano a quel tempo la personificazione dell’intelligenza artificiale ed il sostegno delle attività più gravose) erano volutamente conciliabili con una prospettiva di pace, da raggiungersi nel tempo e nello spazio. Lo scenario di lotte che impegnavano generazioni sempre più evolute non sarebbe stato quello della fine delle specie, ma il diritto alla convivenza – la pace alfine! – da cui derivano tutti i diritti civili, sociali e naturali.  La loro enunciazione svela una tensione verso una società non più lacerata da conflitti indomabili: 1) un robot non può recare danno agli esseri umani, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, gli esseri umani ricevano danno; 2) un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, tranne nel caso che tali ordini contrastino con la Prima Legge; 3) un robot deve salvaguardare la propria esistenza, purché ciò non contrasti con la Prima e la Seconda Legge. Ed a complemento, quasi ad anticipare il tempo delle attuali emergenze che minacciano la sopravvivenza, una quarta disposizione: un robot non può recare danno all’Umanità, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, l’Umanità riceva un danno.

Ho avuto la tentazione di mettere le intuizioni fantasiose di Asimov a cospetto del paradosso di guerre senza fine come quelle in corso, sempre più pericolosamente in estensione e sovrastate dalla minaccia nucleare. Il paradosso è ancor più insopportabile se si considera che la società dell’intero Pianeta è impegnata in una transizione energetica evocata e promessa, ma, nei fatti, cancellata dagli effetti dei conflitti armati e dall’intensificarsi del ricorso alle fonti fossili climalteranti per tempi incompatibili con gli obbiettivi dichiarati invalicabili nelle sedi scientifiche e, ormai, anche in quelle istituzionali come le numerose Cop o i progetti UE di Next Generation.

 

Invece di consumarsi in una devastazione irreversibile, come si potrebbe immaginare il mondo della Grande Transizione per uscire dalle emergenze che lo affliggono? Sarebbe naturale concentrarsi su caratteristiche tangibili come la demografia, le trasmigrazioni funeste private di accoglienza, gli stili di vita, la cura della Terra e gli accordi politici ed economici per promuovere a livello universale la giustizia sociale, la rivalutazione del lavoro. Ci accorgeremmo, allora, che le prospettive di un cambiamento sistemico nella sfera istituzionale si basano in definitiva su un corrispondente cambiamento nella sfera intangibile della coscienza umana, oggi bersagliata da narrazioni fatue, quando non delittuose. I valori dominanti del mondo convenzionale – antropocentrismo, consumismo, liberismo e individualismo – dovrebbero lasciare il posto a una triade ascendente: uguaglianza, ecocentrismo, sobrietà, per consegnare alla solidarietà il riscatto da un capitalismo onnivoro e riscoprire la lotta di classe corroborata dalla non violenza e dalla riproducibilità della biosfera. Dobbiamo purtroppo constatare che questo percorso è in grande affanno, non solo per la tragedia della pandemia ancora in corso, ma, come scrive Domenico Quirico su “La Stampa” del 6 Gennaio, “per il sopravvenire di una nuova globalizzazione bellica, che si farà con i Paesi su cui gli americani possono contare, quelli che accetteranno, riconoscenti e obbedienti, i cantucci e lo spartito della integrazione economica senza alzare pretese geo-politiche”. Una riflessione nuova per la comunicazione mainstream, che va al di là della sola asserita responsabilità dell’invasore del suolo ucraino: l’orizzonte si allarga con una condanna della guerra e della pretesa di una improbabile vittoria o sconfitta dei contendenti, che ha fatto dell’Ucraina solo “la prima linea della quarta Guerra Mondiale”. Molte delle riflessioni di questo inizio 2023 si proiettano su un fronte su cui insisteva inascoltato Bergoglio nel mettere al centro la sofferenza e la privazione di futuro dei popoli, rifuggendo dalla personalizzazione e dal giudizio riservato solo ai leader, obbligati in  un contrasto senza fine e privo di qualsiasi comunicazione. Negli stessi giorni di Gennaio in cui il papa si rivolge al dolore “delle madri dei soldati di ambo le parti di una guerra insensata”, Francesco Strazzari su “il manifesto” afferma che “la guerra come strumento della volontà politica sembra funzionare sempre meno rispetto al conseguimento degli obiettivi dichiarati” e Walter Sini su “Domani” riflette su come “Sarebbe bello (ma non succederà) che i primi incontri tra le parti in conflitto, comprese quelle che la guerra non l’hanno dichiarata, si intitolassero ‘conferenza per il riequilibrio del quadro geopolitico’, e che nelle prime sedute si evitasse di parlare di Ucraina”.

Ritengo che ci si stia approssimando ad una svolta in un percorso che va rimeditato e fermato al più presto, sospendendo le ostilità che hanno come posta in gioco una divisione incolmabile del mondo in blocchi di potenze e di scarti. Con una ripresa di autonomia della società civile ed una riapertura di responsabilità della sinistra rendiamoci prontamente conto che siamo al punto di non ritorno. In molti ambienti, non solo in Russia o in modo più latente in Cina, ma soprattutto nell’Occidente angloamericano, si sta preparando una sorta di “singolarità tecnologica proprietaria”, che punta a preservare una crescita incontrollabile e irreversibile, non destinabile a tutti gli abitanti del Pianeta e che determinerà cambiamenti ed un dominio imprevedibili nella civiltà umana. Clima, Nucleare e Ingiustizia scivolerebbero così in secondo piano, mentre la tensione alla produzione e all’impiego di armi e di fonti fossili, occuperebbe le menti in una improvvida eccitazione su quale blocco alternativo (USA o Cina?) debba essere riconosciuto egemone entro il prossimo decennio.  Preparando già da adesso lo scontro finale in un’escalation di conflitti per procura, sparsi in più parti del globo.

Le intuizioni di Asimov sulla direzione di una tecnologia ancora non sfuggita di mano agli umani predispongono ad una visione dell’intero universo come un sistema interconnesso, cooperante e proteso a responsabilizzarsi su tempi lunghi di sopravvivenza, paurosamente accorciati invece ai nostri giorni dalla incommensurabile potenza dell’energia nucleare e dalle percosse antropiche inferte all’atmosfera, alla vegetazione, agli oceani, al vivente. Credo, allora, che, per uscire indenni dall’Antropocene non basti più ricorrere alla contrapposizione deviante tra un Occidente liberista dimentico della sua profonda tradizione di democrazia sociale ed un Oriente (asiatico) in cui la rappresentanza popolare è abitualmente resa opaca: due forme di imperialismo che si ripartirebbero una ricchezza ben più consistente e articolata da affidare alle nuove generazioni,

 

LA CORSA AL RIARMO E LE NUOVE STRATEGIE MILITARI

La guerra in corso in Ucraina funge da intenso catalizzatore per le operazioni di riarmo, non solo degli attuali cobelligeranti. La tendenza, infatti, non si rivela come un aspetto contingente: è diventata strutturale e consolidata in diversi Paesi nel 2020, ma venne esplicitata in particolare dalla NATO ormai 10 anni fa. Il 2022 appena terminato segna un record di spesa: per la prima volta si sono sborsati più di 2100 miliardi di dollari. La corsa al riarmo sembra inarrestabile, come dicono i numeri snocciolati dal “Stockholm International Peace Research Institute”. La Russia sta investendo cifre inverosimili per i suoi arsenali: tra il 1999 e il 2020 ha incrementato le spese militari di 9,5 volte e di altre 3 tra 2021 e 2022. Sulla Cina, le informazioni sono nebulose, ma il riarmo è plateale: si stima che la spesa militare cinese sia stata di 252 miliardi di dollari nel 2020, con un aumento del 76% rispetto al 2011. E poi c’è la gigantesca spesa statunitense, che l’anno scorso ha raggiunto gli 800 miliardi di dollari. Gli Europei, che avevano frenato sulle spese militari, confidando sul “dividendo della pace”, una proposta lanciata da 60 premi Nobel per tagliare il 2% delle spese militari per liberare mille miliardi di dollari da utilizzare per il clima e la salute, ora stanno riprendendo ad investire, pur tra contrasti interni e sotto la pressione dell’invio di armi a Zelensky.

Un aumento di spesa militare accade nell’Indo-Pacifico, dove Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Indonesia, e anche Australia e India stanno stanziando cifre sempre più imponenti. Emblematico è il caso giapponese, che ha archiviato la sua impostazione solo difensiva: ha ordinato i costosissimi aerei caccia F-35, ma anche annunciato l’ingresso nel progetto italo-britannico Tempest (con  l’italiana Leonardo) per un jet di sesta generazione che vedrà la luce tra quindici anni e mira ad un avveniristico sistema di missili e bombardieri strategici. Leonardo è in questa partita, come nella commessa alla Polonia per 32 elicotteri militari, pari a 1,7 miliardi di euro. Anche Fincantieri, l’altro colosso italiano, è in pista. L’Italia nel 2021 si è attestata ad una spesa di 24,4 miliardi di euro (1,37 per cento del Pil) per decidere nell’anno in corso di proiettarsi al 2%. Un caso emblematico riguarda la Germania che spenderà 100 miliardi di euro in pochi anni per arrivare a 200 miliardi nel proprio budget militare.

Gli aiuti a Kiev, secondo il Kiel institute for world economy (Ifw) sono in continuo crescendo: Usa 25 mld di euro, Londra 4 mld, 1,8 mld la Polonia, mentre Germania e Francia si sono per ora limitati a 1,2 miliardi e solo 233 milioni rispettivamente. Quanto all’Italia, non è andata per ora oltre i 150 milioni di euro, ma il ministro Crosetto ha assicurato un congruo aumento entro la primavera.

Impressionante è il boom dell’industria militare USA: l’attuale protagonista dell’aiuto militare statunitense all’Ucraina è il sistema missilistico HIMARS di Lockheed Martin, la stessa arma usata dai marines statunitensi per ridurre in macerie gran parte di Mosul. il Congresso ha già speso 340 milioni di dollari per 2.800 Stinger per sostituire i 1.400 inviati in Ucraina. Per quanto riguarda il sistema di difesa aerea Patriot, l’arma non è stata ancora inviata in Ucraina, perché ogni sistema può costare un miliardo di dollari e il corso di formazione di base per i tecnici per la manutenzione e la riparazione richiede più di un anno per essere completato.

Ma più a lungo la guerra va avanti e più si intensifica e più diventa chiaro che le forze statunitensi sono direttamente coinvolte in molti aspetti come:  aumentare la gittata dei missili; aiutare a pianificare le operazioni ucraine; fornire intelligence satellitare; intraprendere una guerra informatica; operare segretamente all’interno dell’Ucraina con forze per operazioni speciali e paramilitari della CIA.

 

Il 9 Gennaio undici storici corrispondenti di grandi media (Corriere, Rai, Ansa, Tg5, Repubblica, Panorama, Sole 24 Ore) hanno lanciato l’allarme sui rischi della narrazione schierata e iper-semplicistica del conflitto ucraino:

“Dobbiamo renderci conto – hanno sottoscritto – che la guerra muove interessi inconfessabili che si evita di rivelare al grande pubblico. La propaganda ha una sola vittima: il giornalismo e l’opinione pubblica viene spinta verso la corsa al riarmo”

(v. https://www.tgcom24.mediaset.it/mondo/ucraina-letteradi-10-giornalisti-ex-corrispondenti-di-guerra-contro-la-propaganda-dei-nostri-media-sulla-guerra_59478148-202302k.shtml)

In effetti, i documenti che sostengono la nuova strategia di difesa nazionale di Russia e USA, usciti in questi mesi, esprimono una discontinuità, quasi una frattura rispetto alle impostazioni precedenti ed indicano che siamo entrati in una nuova pericolosissima fase. Non conosco in dettaglio il documento russo, ma ne traggo deduzioni dalle continue mezze dichiarazioni sull’arma nucleare e dalle affermazioni di Putin che “il mondo sta entrando nel suo decennio più pericoloso, imprevedibile e importante dalla fine della Seconda Guerra Mondiale” e che “c’è la necessità di un nuovo ordine mondiale, ovvero, di un multipolarismo che abbia come centri l’Asia (attenzione: ha citato l’Asia, non la Cina), i Paesi islamici, le monarchie del Golfo. Per quanto riguarda il documento USA, invece, ne ho letto con cura le ottanta pagine che sono passate al vaglio del Pentagono, di Capitol Hill e di Biden sotto il nome di “National Defence Strategy” (NDS). Perfino nella forma lessicale si notano cambiamenti inquietanti: per 59 volte viene citato “l’interesse della propria patria”; il terrorismo è derubricato a minaccia non più centrale; la Russia è considerata, pur nella sua aggressività, un avversario da tenere a bada con un peso più consistente degli alleati NATO; mentre il nemico del prossimo decisivo decennio è dichiaratamente e irreversibilmente la Cina.

Per rendere più evidente il salto di qualità di impostazioni che danno per scontato uno stato di guerra fuori dai propri confini di lunga durata, cito di seguito alcuni passi, ricorrendo alla traduzione letterale in virgolettato. “Gli Stati Uniti continueranno a cercare modi per integrarsi e interagire” con alleati e partner che “la pensano allo stesso modo”. La deterrenza nucleare assume ora il titolo di “deterrenza integrata”, al fine di dissuadere “i concorrenti” dal minacciare “anche solo con armi convenzionali il paese oggi militarmente più forte”. Viene esteso alle imprese private un ruolo determinante nel riarmo e nella ricerca di nuove tecnologie, “creando blocchi politici basati sui valori d’impresa”. Gli Istituti Universitari saranno sostenuti con programmi militari, come sta accadendo per il Livermore National Laboratory, autore del propagandato esperimento di fusione ad esclusiva destinazione militare. La postura delle armi nucleari è definita “determinante” e, per la prima volta, si mette in conto che possa spettare agli Stati Uniti nella persona del suo Presidente il compito di decidere il “First strike”, l’innesco della guerra nucleare. Con una certa sorpresa il clima viene preso seriamente in considerazione: “l’esercito deve diventare resiliente ai cambiamenti climatici” e le basi e infrastrutture militari in tutto il globo devono essere assicurate da inondazioni o eventi gravemente perturbativi. Inoltre, il dominio marittimo va assicurato con la presenza adeguata della Marina in tutti gli oceani.

 

Si tratta, in definitiva, di una rivoluzione nella dottrina internazionale relativa all’uso e al significato delle armi nucleari e, nello specifico, dell’intera architettura di sicurezza militare statunitense. Si noti che nel corso dell’analisi del ruolo del Dipartimento per il decennio a venire l’Ucraina non entra per niente. Il marchio sotto cui viene argomentato uno sforzo possente come mai prima d’ora attuato, sta nel riconoscimento – in analogia con la dichiarazione di Putin prima citata – che “nella finestra dei prossimi dieci anni si definirà l’egemonia mondiale e si potrà così realizzare la difesa dei nostri valori democratici”.

Dalla lettura della NDS si deduce anche che non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile, ma che si fa indifferibilmente conto sulla superiorità nel campo degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale, oggi nelle mani non certo trasparenti di una manciata di soggetti privati. E, di conseguenza, viene oscurato il tema, sempre più impellente, della rivendicazione dell’umano e della sua dignità contro lo strapotere delle macchine militari estremamente energivore, che a loro volta, non fanno i conti con la crisi ambientale, che ha acquisito una radicalità e un’impellenza oggettive. Nel documento si esplicita un’autentica spinta verso una “singolarità” nel campo delle tecnologie (non solo militari), intesa come una definitiva supremazia dell’artificiale (prodotto esclusivo dell’intelligenza e della sua organizzazione) su quanto è prodotto della esclusiva evoluzione di natura  biologica.

Nella DNS si dichiara che non ci si limiterà a sistemi cinetici, ma ci si rivolgerà ai domini cyber e spaziale, anche schierando sistemi di satelliti ridondanti e che, sul piano finanziario e commerciale, verranno comminate sanzioni economiche, controlli sulle esportazioni e misure diplomatiche stringenti su manufatti e brevetti “sensibili”. Sul piano della comunicazione e informazione, infine,  si punta ad aumentare il consenso internazionale su ciò che costituisce – così e definito – “un comportamento maligno e aggressivo”. Sensori resistenti e ridondanti forniscono un’elevata sicurezza che potenziali attacchi verranno rilevati e caratterizzati, permettendo politiche e procedure che garantiscono un processo deliberativo e “consentendo il tempo sufficiente al Presidente per raccogliere informazioni e considerare linee d’azione in quanto essere umano in the loop per tutte le azioni critiche da avviare e terminare per l’impiego di armi nucleari”. In questo contesto è previsto il ripristino della capacità di produrre pozzi di plutonio per proteggere dalle incertezze dell’invecchiamento del plutonio nelle scorte odierne, consentendo anche la produzione di nuovi progetti di fossa, se necessario, per armi future che sostituiscano le attuali (è quanto sta succedendo a Ghedi con la sostituzione delle bombe nucleari B61 con le nuove B61-12).

Lo scenario qui descritto fa presumere che la guerra provocata dall’invasione russa dell’Ucraina non troverà facilmente fine, mentre la società, pur sotto il segno di atroci sofferenze, distoglierà lo sguardo dal fare del Pianeta che abitiamo un luogo vivibile, ben oltre il prossimo decennio.

 

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE E IL POTERE DELLE TECNOCRAZIE

La maggior parte dei metodi proposti per creare menti sovrumane o transumane rientrano in una di due categorie: 1) amplificazione dell’intelligenza e della potenza del cervello umano, 2) intelligenza artificiale surrogatoria di quella umana e del pensiero stesso. I molti modi ipotizzati per aumentare l’intelligenza umana includono la bioingegneria, l’ingegneria genetica, la farmacologia, le funzioni dei computer quantistici e lo stesso caricamento delle funzioni mentali, che vanno oltre la semplice registrazione della memoria. I possibili percorsi verso un’esplosione di intelligenza, variamente perseguiti, rendono, secondo molti tecnocrati, possibile una singolarità nel percorso dell’evoluzione, cioè un punto, nello sviluppo di una civiltà, in cui il progresso tecnologico accelera persino oltre la capacità di comprendere e prevedere degli esseri umani. Un aspetto che è oggetto di interesse anche da parte degli ambienti militari.

In sostanza, poiché la progettazione di macchine è una delle attività intellettuali, una macchina ultra-intelligente potrebbe progettare macchine ancora migliori; ci sarebbe quindi indubbiamente una tale esplosione da superare le facoltà umane. Quindi, la prima macchina ultra-intelligente sarebbe l’ultima invenzione che l’uomo abbia mai bisogno di fare, a patto che la macchina sia abbastanza docile da comunicare come tenerla sotto controllo. Un pericoloso paradosso, che segna un confine etico oggi già alla prova in ambiti politico-militari esclusivi, esposti alla terrificante possibilità del ricorso al nucleare, magari con un passaggio intermedio da un uso tattico a quello strategico della bomba. Che il progresso delle tecniche possa andare in direzioni irrecuperabili è nella prospettiva, purtroppo, della guerra in corso e di quelle future, se ci saranno. Infatti, non esiste una motivazione evolutiva scontata perché un’intelligenza artificiale debba essere amichevole con gli umani. L’evoluzione non ha alcuna tendenza intrinseca a produrre risultati apprezzati dai viventi e ci sono poche ragioni per aspettarsi che un processo di ottimizzazione arbitrario promuova un risultato desiderato.

Numerosi scenari di studi sul futuro suggeriscono che sia più che probabile che gli esseri umani si interfaccino con i computer o carichino su di essi le loro menti, in un modo che consenta una sostanziale amplificazione dell’intelligenza singola e, con diverse modalità di accesso, collettiva. Una versione di una simile esplosione è quella in cui la potenza di calcolo si avvicina all’infinito in un periodo di tempo finito. A meno che non sia impedito da limiti fisici di calcolo o dalla quantizzazione del tempo, questo processo inquietante potrebbe raggiungere letteralmente una potenza di computo infinita in uno o due lustri, guadagnandosi propriamente il nome di “singolarità” per lo stato finale. Entro questo periodo il cambiamento climatico potrebbe essere giunto ad uno stadio così brusco da non essere reversibile, le guerre così estese da non trovare soluzioni, l’ingiustizia sociale tanto grande da negare l’universalità dei diritti. Se le risorse continuassero ad essere iniquamente distribuite, come oggi già sta avvenendo, c’è da chiedersi come sarebbero le vite degli esseri umani in un mondo di “post-singolarità”, quando le decisioni non avverrebbero più in un contesto democratico, ma in uno stato di necessità ed in una situazione di squilibrio fra potenze, consegnata ad algoritmi sfuggiti di mano, che apprendono e che si autoriproducono. Ad esempio, con un aumento di un milione di volte nella velocità di elaborazione delle informazioni rispetto a quella degli esseri umani, un anno soggettivo trascorrerebbe, in un manufatto di nuova generazione, in 30 secondi fisici. Una tale differenza nella velocità di elaborazione delle informazioni potrebbe determinare previsioni che nulla abbiano a che vedere con i bisogni della comunità umana o di qualunque specie sopravvissuta.

Naturalmente stiamo ragionando su ipotesi, ma scordiamoci che siano semplicemente fantascientifiche. Come afferma Massimo Buscema in una intervista su “Quality and Quantity” di Ottobre 2022, “agenti incontrollabili, intelligenti e aggiornabili, alla fine entreranno in una “reazione incontrollata” di cicli di auto-miglioramento ed ogni nuova e più intelligente generazione apparirà sempre più rapidamente, risultando in una potente super-intelligenza che qualitativamente supera di gran lunga tutta l’intelligenza umana”. Una caratteristica prima inimmaginabile, una “singolarità” cui ci avviciniamo incoscientemente passo dopo passo e la cui sperimentazione è già in atto nei conflitti in corso, i cui confini sono segnati dalle incommensurabili gittate delle armi automatiche, dai rilievi satellitari di massima precisione e da tecnologie secretate e ignote alla maggioranza dell’opinione pubblica. Il ricorso a sistemi sempre più avanzati di intelligenza artificiale ha un impiego specifico nelle guerre per procura, cioè in azioni guidate da fuori, laddove lo scopo è farsi una rappresentazione del contesto nella quale un dispositivo è immerso, facendo addirittura previsioni sull’ambiente. Stabilendo rapporti di causa-effetto, sviluppi possibili, origine di certi segnali e scaricando con precisione tutto il potenziale distruttivo portato a destinazione, la missione del dispositivo di intelligenza artificiale è compiuta.

Dare una direzione alternativa a questo sviluppo letale è argomento primario della politica e dei movimenti in democrazia e, proprio in tempo di guerra, occorrerebbe adoperarsi per opporsi ad impieghi criminosi e riconvertire conoscenze e manufatti potentissimi in direzione delle emergenze incombenti sulle nostre vite e su quelle delle generazioni future che hanno diritto alla pace.

Occorre, in definitiva, credere nell’agire umano rispetto al determinismo tecnologico e che sia possibile disporre di un’economia in cui le persone soddisfino i propri bisogni dando senso al lavoro e inventando la propria vita con la conquista di un sistema democratico che contempli giustizia climatica e sociale.

 

LA TRANSIZIONE ENERGETICA POSTICIPATA DALLA GUERRA

In un frangente così deviato dal concetto di potenza e dalla supremazia della tecnocrazia, è l’energia che la fa da padrona e non solo – come ho cercato di accennare – sotto la forma incontrollabile delle armi.

Se la bomba nucleare non è più solo un elemento di deterrenza – come lo è stata fino ad ieri dopo Hiroshima e Nagasaki – ma una eventualità possibile, è facile far scivolare l’opinione pubblica verso il nucleare civile, da fissione o fusione che sia, raccontato come praticabile e difendibile quanto l’invio di armi ai belligeranti.

Intanto, il rilancio dei fossili fa parte di un “ritorno a prima”, che la pandemia sembrava avere esorcizzato. Mentre viene sanzionato e tolto di mezzo il gas russo, non si programma affatto il rilancio delle rinnovabili, ma si acquista addirittura metano liquido estratto da pozzi oltremarini e localmente rigassificato, con un bilancio energetico ed economico disastroso.

Se dovessimo fare un bilancio sull’avanzamento della conversione energetica nel 2022 difficilmente potremmo essere ottimisti, anzi! L’energia è emersa nel suo aspetto più politico, svincolandosi dal peso del solo mercato, condizionata ampiamente dall’incipiente “terza guerra mondiale a pezzi”. La stessa coesione della UE, dimostrata al tempo del “20/20/20”, si è frantumata a fronte di una crisi energetica senza precedenti. Invece del “grande affare energetico europeo” di cui l’Europa aveva bisogno, i leader dell’UE sono rimasti bloccati nella politica interna. Al di là della svolta politica, indotta dall’invasione russa dell’Ucraina, ciò che rimane è una lotta senza senso per un tetto massimo del prezzo del gas, che nella migliore delle ipotesi farà ben poco per abbassare i prezzi dell’energia e, nella peggiore, spaventerà i venditori sul mercato.

I centri di potere legati ai fossili sono tuttora colossi pubblici che rendicontano al Governo del proprio Paese del loro operato. Il ruolo delle lobby ha di conseguenza sovrastato la svolta ancora timida verso l’autoproduzione da fonti naturali, il decentramento territoriale, il risparmio, le forme di consumo comunitarie. I governi europei ad inizio 2023 rimangono riluttanti a impegnarsi per un obiettivo di rinnovabili al di sopra del 40% per il 2030.

Secondo l’ultimo rapporto della Iea, nel 2022 le emissioni mondiali di CO2 sono aumentate di 330 milioni di tonnellate. Ma le tonnellate in più sarebbero state il triplo senza il contributo delle rinnovabili e della mobilità elettrica.

L’incremento mondiale della di CO2 in questo anno (+1%) è stato determinato da un piccolo aumento (+1,5%) delle emissioni statunitensi e da uno più elevato di quelle indiane. Le emissioni cinesi hanno registrato invece un lieve calo (-0,9%), analogo a quello della UE (-0,8%).

La crisi pandemica, i lockdown, il caro energia e di materie prime con un’inflazione a due cifre, la guerra in Ucraina e nel resto del mondo, i rischi sempre più concreti di sicurezza sulle forniture, gli eventi climatici sempre più estremi, sono tra loro interdipendenti e il cambio di paradigma energetico assume in essi un ruolo molto rilevante: basta pensare che l’Italia ha speso nel 2022 circa 75 miliardi di euro in più per l’energia rispetto alla media dei 10 anni precedenti. Una cifra comparabile con gli investimenti per lo sviluppo delle fonti rinnovabili in base agli obbiettivi europei assegnatici dalla UE al 2030.

Cingolani sul Corriere della Sera del 31 Dicembre 2022 proclamava: “nucleare niente pregiudizi, il futuro passa da qui: armi ed energia sono cose diverse” Buon per lui.

I fatti mostrano purtroppo una geopolitica al top, mentre biosfera e natura sono retrocesse a preda del vincitore. In un contesto così alterato prende corpo il miraggio della fusione, un’energia come quella che proviene dal sole (ma ad una distanza di 150.000 KM!) che nell’esperimento propagandato a Livermore non tiene conto del divario incolmabile tra il risultato dell’accensione e l’energia necessaria per il pareggio del dispositivo. Questo modo di procedere e di spacciare per ingegnerizzabile e commerciabile in anni vicini un esperimento di prevalente destinazione militare, ha instaurato tra scienza e tecnologia un processo politico di decisione e informazione dei cittadini con l’obbiettivo di mettere sotto il tappeto quel “non c’è più tempo”, che invece è ormai patrimonio del senso comune ed ha a portata di mano la rivoluzione  delle rinnovabili con il sostegno delle nuove generazioni.

Redazione
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