“Non siamo il gatto di Schrödinger”

Continueranno a lottare dopo essere scesi in piazza per la morte di Lorenzo e Giuseppe durante l’alternanza scuola-lavoro: “noi studenti non faremo un passo indietro!”, perché è l’intero sistema istruzione dell’Italia di oggi a dover cambiare rotta. La parola a due ragazzi come tanti altri, non rappresentano sigle ma vogliono dire la loro.

di Chiara e Francesco (*)

 

Foto: Imago Economica

Chi siamo noi studenti? Persone che vogliono capire, formarsi per poi contribuire con competenza al mondo produttivo oppure eterni stagisti, o meglio garzoni a basso costo al servizio delle imprese e destinati a condividere la sorte amara di tanti, troppi lavoratori? Nel nostro Paese, anno 2021, secondo l’Osservatorio nazionale morti sul lavoro, sono ben 1.404 le lavoratrici e i lavoratori che hanno perso la vita mentre svolgevano il loro mestiere. Un numero sconcertante, da capogiro. Il 2022 non sembra andare molto diversamente, anzi, la situazione appare peggiorare vertiginosamente poiché ora non solo gli adulti muoiono sul lavoro, ma anche gli studenti. Nel giro di pochi giorni, qualche settimana fa, ne sono deceduti due durante l’attività lavorativa che faceva parte del percorso scolastico. Lorenzo e Giuseppe, due studenti morti dunque non sul lavoro, ma a scuola, durante le attività scolastiche. E che scuola può essere quella che lascia morire i suoi studenti nel conseguimento del diploma?

È una scuola impoverita, dalla riforma Berlinguer in poi piegata a una politica aziendalistica, non di formazione della persona. Il preside è diventato dirigente, le attività di approfondimento culturale sono diventate alternanza scuola-lavoro (ora Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, in sigla Pcto) e l’insegnante non ha un ruolo educativo, trasformandosi sempre di più in un baby-sitter costretto ad accalappiare 25 o 30 marmocchi o adolescenti ai quali trasmettere una serie di nozioni e null’altro.

Queste due morti, due assassinii, sono solo il più cupo epilogo delle politiche di liberalizzazione della scuola.

La scuola italiana ha sempre avuto radici profondamente classiste: la riforma Gentile del 1923, che all’inizio dell’epoca fascista gettò le basi della moderna istruzione pubblica, prevede infatti la divisione della scuola in classi – ci riferiamo non a un insieme di studenti ma a veri e propri gruppi suddivisi per scala sociale – associando a ciascuna di esse una scuola di riferimento. Ancora oggi basta farsi un giro in un liceo e a un alberghiero per rendersi conto quel modello persiste ancora oggi. Chi ha frequentato un qualsiasi liceo ha sentito almeno una volta l’abominevole affermazione “qui formiamo la classe dirigente del futuro”, e accade pure che qualche docente di un professionale declami ai propri studenti: “se al liceo formano la futura classe dirigente, qui formiamo i loro servi!”.

Quale educazione può dare una scuola del genere se non l’abitudine alla subalternità e allo sfruttamento? Sarebbe bello poter dire che chi fa queste affermazioni o chi compie azioni classiste sono solo delle mele marce, eppure il problema è strutturale ed endemico nel sistema scolastico.

Se si prende a esempio la Buona Scuola varata dal governo guidato da Matteo Renzi nel 2015, si noterà che l’alternanza scuola-lavoro lascia un margine di azione ampio al singolo istituto e non specifica mai quali siano nel dettaglio le possibili attività ascrivibili a questo tipo di percorso. L’alternanza scuola-lavoro non prevede infatti esplicitamente l’avviamento a un percorso lavorativo presso un’azienda e di conseguenza sarebbe possibile (e anche auspicabile) intraprendere percorsi formativi diversi, che non mandino obbligatoriamente gli studenti presso privati, troppo spesso neppure preparati a sostenere un’iniziativa del genere. Dover assistere una persona che sta apprendendo un mestiere è per un’azienda (specie per una Pmi) solo un costo, sia in termini economici sia di tempo. Come poter sopperire a tutta la domanda delle aziende garantendo gli obiettivi preposti dalle scuole?

Semplicemente non si può. Nella maggior parte dei casi, gli studenti rimangono in un’azienda per qualche settimana a svolgere mansioni che non sono in grado di portare a termine oppure a fotocopiare documenti di vario genere, rendendo l’esperienza del Pcto inutile nel migliore dei casi, se non pericolosa.

In Italia ci saranno sicuramente dei percorsi virtuosi, ma restano in minoranza rispetto alla totalità.

Spesso si paragona in modo erroneo la Buona Scuola (o almeno il suo intento) alla situazione in Germania. Ci sono differenze strutturali anche nella stesura della legge: infatti le aziende tedesche sono tenute a seguire una serie di regole più stringenti e ferree rispetto a quelle italiane, i controlli inoltre avvengono con maggiore frequenza mentre nel nostro Paese è estremamente raro sottoporre un privato ospite degli studenti in Pcto a un controllo di qualsiasi genere. La formazione poi è estremamente diversa, dato che una parte teorica sul come lavorare in un’azienda e sulle norme di sicurezza è obbligatoria nelle scuole tedesche. In Italia, anche se viene praticata la formazione di base sulla sicurezza, ovvero un corso di quattro ore con un test a risposta multipla alla fine, la scuola sembra voler essere in funzione del mondo del lavoro ma contemporaneamente volersene sbrigliare. Insomma, una specie di “scuola di Schrödinger”, dove noi siamo il gatto dell’esperimento mentale del fisico austriaco, il micio destinato a morire o rimanere vivo con uguale probabilità, una scuola in cui allo stesso tempo c’è un fine lavorativo, ma che in realtà come obiettivo ha il mero raggiungimento di un diploma, senza veramente curarsi delle conoscenze acquisite dagli studenti e della loro capacità di giudizio.

Sicuramente questo modello si sta rivelando ogni giorno di più fallimentare: la nostra scuola ha bisogno di un ripensamento in toto, che la veda slegata dalla smania aziendalistica delle riforme degli ultimi decenni e la veda come luogo di educazione in senso lato. Pretendere di ridurre la scuola alla banale formazione professionale (depotenziando per esempio lo studio delle materie umanistiche o togliendo quasi del tutto la geografia come nella riforma Gelmini) in cui i docenti sono semplicemente dei trasfusori di nozioni è frutto di una volontà politica ben precisa, ovvero quella di dividere sempre di più gli studenti in classi, di renderli pedine di un sistema produttivo cannibale, piuttosto che persone complete e pensanti. Si spinge verso l’educazione privata, finanziandola in aperto contrasto con la Costituzione (art. 33 “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”), per raggiungere sempre di più le scuole “di eccellenza” in cui gli studenti, nella miglior performatività in salsa capitalista, possono raggiungere risultati fuori dal comune a costo di sacrificare tutto, perfino la salute o la vita.

La competitività è un valore positivo, premiata dagli insegnanti stessi, perché “mettersi in gioco” è sintomo di “forza” e di “volontà”, mentre dall’altra parte chiedere un ritmo diverso, più umano, lontano dalla modalità fordista che la scuola sta assumendo sempre di più, significa “lagnarsi ed essere ingrati”: d’altro canto cosa aspettarsi in un Paese in cui “sfruttamento lavorativo” è sinonimo di “gavetta”? Noi studenti dobbiamo ribellarci: scendere in piazza, dalle scuole e dalle università, per urlare “basta” a questo modello di sfruttamento scolastico. Chiediamo agli adulti, ai lavoratori, ai sindacati e alle imprese di supportarci in questa battaglia e di non lasciarci soli. Ve lo chiediamo per Giuseppe e Lorenzo, e anche per Luana e Adil e per ogni persona che è morta sul lavoro o per difendere i propri diritti.

(*) studenti. Link all’articolo originale: https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/morire-a-scuola-non-siamo-il-gatto-di-schrodinger/

Redazione
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Un commento

  • Giuseppe Scuto

    Questo intervento degli alunni Chiara e Francesco, fa sperare che la lucidità e la voglia di cambiare le cose che loro esprimono possano diventare presto obiettivi di rivolta dentro la Scuola. Da almeno trent’anni il governo e i ministri della Pubblica Istruzione ( avete notato che da anni il Ministero si chiama soltanto “dell’Istruzione”? )
    Bisogna che i ragazzi facciano la loro lotta e che i lavoratori della Scuola li affianchino e li appoggino. Cari colleghi professori, dobbiamo prendere atto che il sistema organizzativo e direttivo della Scuola Italiana è fondato sulla convinzione che quel che conta è l’impresa, il sistema produttivo, non la persona, tanto meno la giovane persona in formazione. I docenti ed il personale didattico sono dei silenziosi servitori della nostra corrotta classe imprenditoriale e si sono piegati alla “necessaria” svalutazione del lavoro giovanile. Quanto ai contenuti della programmazione culturale, tecnica e sociale dell’insegnamento, c’è da ricordare che i ragazzi non sono “da formare” ma da istruire, ascoltare e accompagnare nel loro percorso. Il termine “formare” è adatto a silenziosi servi, non a persone libere,
    Una classe politica post-democristiana (e post-comunista) prende atto che il mondo è quel che è, quello che conta è i P.I.L. e che l’intera gioventù della nazione ( e dell’Europa) va resa adatta al mondo della produzione e della competizione capitalistica borghese. Tutti noi sappiamo, per esperienza personale o per osservazione della realtà che ci circonda, che in questo paese “lavorare” vuol dire essere strumenti di un’attività ripetitiva e insensata, di un sistema pericoloso di crescita continua della produzione e, soprattutto di uso dei lavoratori come strumenti, schiacciati nelle costrizioni e nei tempi della riproduzione della dittatura del denaro, nel folle credere che la libertà sia la “crescita”.
    Non esiste crescita se non quella umana e culturale che un giovane può e deve fare affrancandosi dall’obbligo produttivo e lavorando, se possibile in chiave sociale, di condivisione della condizione umana con gli altri.

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