Nuovo Patto di Stabilità

interventi di Alessandro Volpi, Gilberto Trombetta, Giuliano Marrucci,Pino Cabras, Domenico Moro

IL RITORNO DELLA GABBIA DEL PATTO DI STABILITÀ – Domenico Moro

Negli ultimi anni la questione europea, ossia la questione delle regole di bilancio e dell’euro, è caduta nel dimenticatoio. Una delle ragioni sta nel fatto che dal 2020 il Patto di stabilità è stato sospeso. Infatti, la pandemia aveva duramente colpito l’economia del Paesi europei e, per farvi fronte, la decisione unanime fu di sospendere le regole restrittive di bilancio contenute nel Patto di stabilità. Oggi, la questione europea si accinge a riprendere la sua centralità dal momento che a gennaio 2024 avrà fine il periodo di sospensione. Inoltre, c’è la possibilità che le regole del Patto di stabilità vengano cambiate entro dicembre. Ma, se su questo non dovesse esserci un accordo tra i Paesi europei, verranno ripristinate le vecchie regole.

Vediamo quali sono. Il Patto di stabilità, sottoscritto nel 1997, si prefigge di garantire la disciplina di bilancio degli stati membri dopo l’introduzione della moneta unica. Il patto di stabilità contempla i cosiddetti parametri di Maastricht: il limite al deficit pubblico del 3% sul Pil e il limite al debito pubblico del 60% sul Pil. A questi vincoli, che inibiscono la capacità di spesa degli Stati della Ue, si aggiunge la regola che prevede la riduzione annua di un ventesimo dell’ammontare del debito pubblico eccedente il limite del 60%. Va aggiunto, inoltre, che il testo del Patto di stabilità è stato reso ancora più stringente con l’introduzione, dopo la crisi del 2008, di otto regolamenti, i cosiddetti six pack e two pack, e nel 2012 del Fiscal compact.

Il Patto di stabilità e gli altri regolamenti hanno avuto negli anni un impatto deleterio sull’economia e sullo Stato sociale europei. Infatti, le regole che impongono limiti al deficit annuo e al debito hanno impedito di far fronte alle crisi economiche che si sono succedute. Normalmente quando si verificava una crisi i vari Paesi usavano lo stimolo degli investimenti pubblici per rivitalizzare l’economia. Questo, però, a partire dal 1997 è stato impossibile. Il Patto di stabilità è una vera e propria gabbia che introduce delle rigidità nella gestione dell’economia capitalistica, che per sua natura è ciclica e si caratterizza per le ricorrenti crisi economiche. Le regole di bilancio di fatto bloccano gli investimenti statali che, dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli anni ‘90, hanno avuto la funzione di trainare l’economia europea. Questa è una delle varie ragioni per le quali il Pil della Ue ha perso molti punti di incidenza sul Pil mondiale (dal 28,1% del 1990 al 16,6% del 2022), perdendo posizioni rispetto ad altre economie come quella cinese.

Una delle misure più critiche è la regola della riduzione annua di un ventesimo dell’eccedenza del 60% del debito pubblico. Si tratta di una regola che, fino ad ora, non è stata applicata ma che, in caso lo fosse, provocherebbe tagli enormi a tutta la spesa sociale, dalla sanità alle pensioni all’istruzione. Il debito pubblico italiano è di circa il 141% del Pil, pari a 2.859 miliardi di euro. Se dovessimo dimezzarlo al 70% si tratterebbe di eliminare in venti anni un ammontare del debito di 1.429 miliardi che all’anno significherebbe un taglio di 71,4 miliardi, una cifra enorme che, tanto per dare una idea della grandezza, ammonta a più della metà della spesa sanitaria annua, che nel 2020 è stata di 123,5 miliardi. Quindi, ogni anno, ci dovrebbe essere un surplus di bilancio, cioè entrate statali superiori alle uscite, di oltre settanta miliardi. Un risultato praticamente impossibile a raggiungersi. Come detto, tale regola non è stata ancora applicata ma la tendenza a ridurre il debito ha contribuito a condurre un Paese come l’Italia a una stagnazione economica più che ventennale e a consistenti tagli allo Stato sociale.

Nell’aprile del 2023 la Commissione europea ha avanzato una proposta di riforma del Patto di stabilità che bilanci i parametri di rigore con un maggiore sostegno agli investimenti. Il commissario europeo all’economia, Palo Gentiloni, ha sottolineato che il tempo di tale riforma è limitato e che, in caso di mancanza di un accordo sulla riforma del Patto di stabilità entro dicembre 2023, si prospetta un ripristino tout-court delle vecchie regole. Ora il dossier è nelle mani del presidente di turno della Ue, la Spagna, che è chiamata a redigere una proposta di riforma. Finora l’accordo tra i vari Paesi sembra mancare. Da una parte c’è la Germania (66,1% il suo debito pubblico nel 2022) e i suoi alleati, tra i quali i Paesi Bassi (50,1%), che premono per la compressione dei debiti pubblici. Dall’altra parte ci sono i Paesi con alto debito, tra cui la seconda, la terza e la quarta economia della Ue, ossia la Francia (111,8%), l’Italia (141,7%) e la Spagna (116,1%), che premono per maggiore flessibilità.

Inizialmente c’è stato uno scontro tra Germania e Francia, la coppia che ha diretto i processi di integrazione europea. Poi la Francia ha, in qualche modo, sposato la posizione tedesca nel tentativo di orchestrare un compromesso, ricavando una eccezione chiara sullo scomputo dal deficit delle spese militari. Il compromesso non ha lasciato soddisfatta l’Italia, che si trova nella situazione più difficile dato l’alto debito, e che preme per lo scomputo dal deficit non solo delle spese per la difesa, ma anche di quelle per la transizione ecologica e digitale. Lo scomputo delle spese militari è accettato da tutti a causa del processo di riarmo a livello europeo per via della guerra in Ucraina e per la richiesta degli Usa di portare almeno al 2% del Pil la spesa militare dei Paesi appartenenti alla Nato. Lo stesso ministro della Difesa italiano, Crosetto, ha dichiarato che la quota del 2% del Pil in spesa militare può essere raggiunta dall’Italia solamente in caso di riforma del Patto di stabilità, scomputandola dal calcolo del deficit.

Il problema maggiore è che il debito pubblico è calcolato in percentuale sul Pil, che rappresenta il denominatore. Se, quindi, il Pil non cresce adeguatamente, cioè più del debito, l’incidenza del debito sul Pil aumenta. La questione è proprio questa: siamo, in tutta la Ue, in una fase in cui il Pil è stagnante. L’Italia, secondo i dati ufficiali contenuti nella manovra, dovrebbe crescere dell’1,2% nel 2024, ma la Commissione europea, l’Ocse e la Banca d’Italia prevedono una crescita allo 0,8%, il Fondo monetario internazionale allo 0,7% e la Confindustria allo 0,5%. I dati sulla produzione industriale di settembre rispetto ad agosto dicono che, per quanto riguarda l’Italia, la crescita è zero, mentre Germania e Francia sono addirittura in contrazione. Quello che spaventa maggiormente è che possa realizzarsi in Europa una vera e propria recessione. In un quadro di questo tipo, con il ritorno alle vecchie regole di bilancio verrebbe meno la doppia sostenibilità del debito e di crescita e investimenti.

Recentemente sulla questione europea è intervenuto anche Mario Draghi in una conversazione con Martin Wolf nell’ambito di un convegno organizzato dal Financial Times. Draghi ha detto che l’Europa è caratterizzata, negli ultimi vent’anni, dalla perdita di competitività nei confronti di Usa, Giappone, Corea del Sud e Cina. Il punto centrale è la produttività, che è insufficiente soprattutto se consideriamo che l’Europa è in calo demografico. Per sostenere un continente che invecchia è necessario aumentare la produttività e per farlo bisogna investire di più in tecnologia, in capitale umano, in formazione e in istruzione. Per questa ragione Draghi propone più Europa cioè una maggiore integrazione tra i Paesi della Ue, che permetta di esprimere un’unione politica, economica e militare più forte: “Senza un’unione più profonda, nella politica estera, nella difesa, nell’economia, la Ue non sopravviverà se non come mercato unico”i.

Il punto è che fino ad oggi una maggiore integrazione non ha corrisposto a una maggiore crescita, ma al contrario a maggiori vincoli, come quelli del Patto di stabilità, che hanno introdotto una maggiore rigidità nel funzionamento della leva economica pubblica con risultati deleteri. Inizialmente, tali vincoli sono stati introdotti per comprimere la spesa sociale (pensioni, sanità, istruzione, ecc.), che avvantaggiava il lavoro salariato, e per favorire il capitale privato. Il Patto di stabilità e i regolamenti che si sono succeduti hanno penalizzato il ruolo dei Parlamenti nazionali imponendo dall’esterno, cioè da parte dell’Europa, la disciplina di bilancio ed esautorando di fatto il legislativo nazionale a favore dell’esecutivo. In questo modo, si è di fatto eliminata la sovranità democratica e popolareii. Col tempo, inoltre, si è realizzata una camicia di forza che penalizza le frazioni nazionali più deboli del capitale europeo, come Francia, Italia e Spagna, rispetto alla Germania. Per questo c’è uno scontro in atto tra l’Italia e la Germania sulla questione della riforma del Patto di stabilità.

La soluzione, quindi, non può essere quella proposta da Draghi, anche perché l’Europa ha dimostrato anche di recente di essere molto divisa al suo interno e subalterna agli Usa per quanto riguarda la politica estera e militare. C’è necessità invece di recuperare una maggiore sovranità, che però non sia puramente retorica ma una sovranità effettiva, democratica e popolare. Con sovranità democratica e popolare si intende il recupero e l’allargamento dell’influenza della maggioranza dell’elettorato, ossia del lavoro salariato e delle classi subalterne, sul processo decisionale pubblico. Si tratta, quindi, di una sovranità molto diversa da quella proposta dal governo Meloni. Questo, infatti, da una parte punta a una riforma del Patto di stabilità che faccia recuperare risorse da distribuire al capitale nazionale e, dall’altra parte, punta a rafforzare l’esecutivo, il governo, a scapito del parlamento. Ne è dimostrazione la contro-riforma, proposta dalla Meloni, che contempla l’elezione diretta del primo ministro e un notevole premio di maggioranza che penalizzerà ancora di più la rappresentanza politica dell’elettorato. Non è, quindi, da una eventuale riforma del Patto di stabilità che possiamo aspettarci una soluzione, ma dalla sua eliminazione.

Note:

i Isabella Bufacchi, Draghi: più integrazione o l’Europa non sopravviverà, Il Sole 24 ore, 9 novembre 2023.

ii Su tali questioni suggerisco di vedere di Domenico Moro, Eurosovranità o democrazia? Perché uscire dall’euro è necessario, Meltemi, Milano 2020.

da qui

 

 

Nuovo Patto di Stabilità: un furto di futuro – Pino Cabras

La riforma è una grave minaccia per i popoli europei, in particolare il nostro. Rischia di portare a un aumento della povertà, nonché alla deindustrializzazione e alla perdita di sovranità. È necessario costruire una nuova idea di Europa

Dire no alla riforma del trattato del MES da parte di un’occasionale maggioranza di voti in Parlamento è stato un salutare rinvio di una trappola. Il problema è che non era l’unica. L’altra trappola, il nuovo Patto di Stabilità, non ha incontrato argini italiani.

Dobbiamo prepararci alle gravi conseguenze del nuovo Patto di Stabilità e alle implicazioni che esso comporta in termini di austerità. Nel momento in cui sarebbe più che mai necessario uscire dai “trent’anni perduti” in cui la nostra società ha subito un degrado e un declino, sono state messe le premesse per altri decenni perduti, in grado di impoverire drammaticamente i popoli europei. Il nostro più di altri. Un furto di futuro che minaccia già le generazioni che lavorano o sono in pensione, ma che compromette gravemente soprattutto l’intera vita delle generazioni più giovani.

 

Giorgetti e Giorgetta: il cedimento

Durante il vertice del consiglio Ecofin, il ministro dell’economia italiano, Giorgetti, ha accettato il nuovo accordo deciso dai soliti noti, senza esporre quel potere di veto sulla riforma che la premier Giorgia Meloni aveva evocato, quasi esibito. La parola “riforma”, si sa, ormai è sempre un incubo, quando viene pronunciata a Bruxelles e Francoforte. Scrivi “riforma” e leggi “riforma in peggio”. Questa riforma non fa eccezione. L’accordo franco-tedesco la impone introducendo vincoli più stringenti, andando oltre la semplice ingiunzione di regole fiscali rigide. Tutto il modo di spendere le risorse diventerà sempre più condizionato e comandato dai «dittatori dello ‘spread’».

La novità principale riguarda la clausola di salvaguardia sul debito, che impone agli Stati con un debito superiore al 90% una riduzione annuale media dell’1% dello stesso, influenzando anche i deficit permessi. Il nuovo Patto rende più immediata l’attivazione delle procedure per deficit eccessivo, legate sia al deficit che al debito. La riforma, in vigore per la legge di bilancio del 2025, impone “aggiustamenti strutturali” annuali, anziché su una media spalmata su più anni. In pratica, la tagliola interviene da subito e sarà sempre più impossibile anche solo immaginare di fare una vera programmazione o una politica economica, con tanti saluti alle costituzioni che settant’anni fa diedero corpo ai diritti sociali. Quei diritti sociali, via via indeboliti dall’Unione europea nata a Maastricht nel 1992, saranno svenduti e consegnati per intero agli algoritmi dissennati degli eurocrati.

 

Il ritorno all’austerità

Nonostante gli obiettivi di deficit strutturale che all’inizio lasciano spiragli meno gravosi, la riforma del Patto di Stabilità segna un ritorno all’austerità, con ulteriori vincoli alle riforme e una possibile procedura di deficit eccessivo. La discussione sull’importanza di politiche “anticicliche” è stata totalmente ignorata. C’è spazio solo per un approccio più inflessibile, come se nell’Eurozona non fosse mai possibile una recessione. Ha vinto l’approccio tedesco, che non conosce la retromarcia nei confronti del «rispetto delle regole» da parte dei paesi perdenti (per Berlino è sempre più facile farla franca, invece), anche quando incontrano difficoltà politiche ed economiche. E queste difficoltà sono peraltro un effetto diretto dell’austerity, quel sistema che parla di crescita mentre fa tornare indietro l’economia, come se si pretendesse di aumentare la massa sanguigna facendo invece dei salassi sistematici.

 

I dirigenti tedeschi ci cooptano nel suicidio industriale

Le regole ci vengono imposte – non dimentichiamolo – da una classe dirigente molto particolare, quella tedesca, che ha accettato di “suicidare” la propria potenza industriale così come l’abbiamo conosciuta dopo la Seconda guerra mondiale. Non solo, è una classe dirigente che ha accettato di subire – senza dire né ai né bai – un atto di guerra dai propri alleati d’Oltreoceano che hanno prima rivendicato e poi attuato la distruzione di un’infrastruttura energetica costosissima come il Nord Stream. Ha acconsentito all’imposizione tragica di separare artificialmente le sorti germaniche – alla fine europee – da ogni conveniente integrazione con le economie eurasiatiche. Una classe dirigente siffatta accetta insomma un drastico ridimensionamento dell’autostrada che essa stessa aveva costruito. Sono pazzi, forse? Può essere. Ma da qualche parte ci deve essere un intento razionale, una convenienza, un’aspirazione a un nuovo cammino, magari un sentiero accidentato, che le porti a un posto al sole. In estrema sintesi, le classi dirigenti stanno sacrificando il proprio e altri popoli intorno a una Europa più rigida, più impoverita, più insicura, più esposta alla guerra, purché possano riservare per sé stesse un potere di intermediazione delle risorse che presume una rigidissima gerarchia.

 

La vecchia-nuova gerarchia

Pensano a un sistema più compatto, nell’insieme più povero ma più controllabile, basta che non si metta in discussione la gerarchia riorganizzata.

Al vertice si installano gli interessi degli Stati Uniti, diventati meno negoziabili, da accettare in blocco contro i nostri interessi.

Sotto ci sono gli interessi della superclasse europea che potrà persino tentare una fuga in avanti costituzionale per aumentare i poteri del sistema di comando continentale (Draghi scalda già i motori): nel bagno di sangue della deindustrializzazione si seleziona un sistema di imprese senza più velleità globali o di indipendenza. Nessuna ambizione alla Enrico Mattei sarà tollerata e le varie classi dirigenti nazionali sono state già rieducate in proposito fino al midollo: cieca obbedienza, a destra e a sinistra, arrese a un “vincolo esterno” reso sempre più indiscutibile.

Più sotto ancora, si accentuerà la demolizione sistematica delle classi medie e la distruzione di qualsiasi velleità di “ascensore sociale”. Moltitudini di individui saranno sacrificate, assieme a intere regioni. Per le isole mediterranee e per il Mezzogiorno d’Italia è una prospettiva terribile.

Moneta unica e infrastrutture giuridiche dell’austerity saranno sempre di più il sistema di dominio degli oligarchi, cui si affiancheranno le nuove leggi digitali europee che svuoteranno dall’interno, per via amministrativa, i diritti costituzionali di libertà, consegnando il senso comune a una manciata di super-feudatari della comunicazione, integrati con l’apparato militare-industriale e con l’intelligence statunitense.

Un’Europa così ingabbiata, ormai “ucrainizzata”, sarà pronta a offrire carne da cannone alle nuove guerre egemoniche mondiali, per interessi che risiedono molto lontano.

 

Un’idea diversa da costruire

Pino, ma come, – mi direte – ci proponi di leggere e vederci dentro tutte queste cose nel Patto di Stabilità? Non starai mica esagerando? In fondo è solo la prosecuzione di un “trend”, tristemente burocratico, non necessariamente la premessa di un nuovo regime dalle venature così luciferine.

Posso rispondere a mia volta con una domanda: possiamo permetterci di sbagliare per sottovalutazione? Troppe volte si è ripetuto, per anni e per decenni, questo errore. Stavolta non possiamo permetterci di sottovalutare i progetti dell’élite, tantomeno quando di presentano con la loro ottusità formalista. Non è solo inerzialmente dannosa. È un progetto sulla vita. La nostra vita. E se c’è in ballo la vita nostra e dei nostri figli, dovremo agire con un’idea diversa della nostra esistenza, della sovranità, dello stare nei popoli. Parliamone insieme e costruiamo questa vita.

da qui

 

 

Patto di stabilità. Il governo Meloni ha dato il via libera al suicidio dell’Italia – Gilberto Trombetta

Il Governo Meloni ha accettato di fare 20 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica. Ogni anno. Fino al 2027. Dal 2028 i tagli raggiungerebbero invece i 100 miliardi di euro l’anno visto che rientrerà in gioco il computo degli interessi sul debito (più di 80 miliardi di euro l’anno) che è invece temporaneamente accantonato per il triennio 2025-27. Quadriennio se calcoliamo il 2024 che è l’anno in cui tornerà il Patto di (in)stabilità e (de)crescita e quello delle elezioni europee.

Il piano di rientro verrà elaborato dalla Commissione Europea e riguarderà un periodo di 4 anni. Piano di rientro che, su richiesta del Paese sanzionato, potrà essere dilazionato in 7 anni in cambio di… indovinate di cosa? Esatto! In cambio delle riforme (quelle lacrime e sangue che i vari Governi ci hanno imposto negli ultimi 30 anni al grido di “ce lo chiede l’Europa!”).
Il Governo ha accettato l’accordo raggiunto da Francia e Germania sul nuovo Patto «in uno spirito di compromesso», per usare le parole del Ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti.

Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita risulta addirittura peggiorativo rispetto alla versione precedente. Non era facile. Hanno insomma vinto i falchi guidati dalla Germania. Quella che trucca i conti nascondendo dal bilancio federale centinaia di miliardi di euro.

Nel nuovo patto restano ovviamente sia il tetto del 60% al rapporto debito/PIL, sia quello del 3% per il deficit/PIL.

I Paesi con un rapporto debito/PIL superiore al 90% dovranno ridurre il debito dell’1% l’anno (dello 0,5% i Paesi con rapporto superiore al 60% ma inferiore al 90%).

Per l’Italia, come dicevamo, si tratterebbe di oltre 100 miliardi di euro di taglio della spesa pubblica tenendo contro degli interessi sul debito (86 miliardi di euro, il 4,2% del PIL, nel 2024). Scomputando il costo degli interessi, il taglio è di “soli” 20 miliardi di euro l’anno.

L’accordo prevede anche che i Paesi che abbiano un rapporto debito/PIL superiore al 60% e un rapporto deficit/PIL superiore al 3% riducano il deficit dello 0,5% l’anno fino a raggiungere un rapporto dell’1,5%.

La Commissione Europea ha già detto che la legge di bilancio 2024 di molti Paesi non rispetta i nuovi parametri e che questi Paesi saranno quindi sanzionati.

L’unica concessione ottenuta (dalla Francia, ovviamente) è che i Paesi sottoposti al piano di rientro forzoso possano nel triennio 2025/27 scomputare gli interessi sul debito dal taglio della spesa pubblica.

Non è chiaro al momento se ci sarà un occhio di riguardo per la spesa legata agli investimenti. Ovviamente solo per quelli a debito legati al PNRR. Che sono poi quelli di cui non abbiamo bisogno.

Insomma una riforma che avrebbe fatto la gioia d i qualsiasi governo tecnico. O a guida PD. Che sono poi la stessa cosa.
Parafrasando il deputato leghista Alberto Bagnai «La differenza tra un governo di centrodestra e uno di centrosinistra non salta all’occhio. Perché non c’è. Un giorno capirete».

da qui

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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