Quando la paura mangia l’anima

di Chief Joseph

«Se tutti gli altri si chiamano Alì»: un (vecchio) film e l’oggi

Nella nostra società il razzismo strisciante, da sempre presente, si è trasformato in qualcosa da esibire con orgoglio, un sentimento che trae origine dalla presunta necessità di difendere il territorio invaso da un’orda di “barbari” a cui è stata implicitamente tolta la connotazione umana.

La paura mangia l’anima: e tutti gli altri si chiamano Alì” è una pellicola (del 1973) che, partendo dal microcosmo di una relazione a due, prefigura quello a cui stiamo assistendo adesso. Si tratta di un profetico film del compianto regista tedesco Rainer Werner Fassbinder. Racconta di una donna sulla sessantina, di professione serva, che si mette insieme a un giovane immigrato nord-africano. Viene coniugato, in questo modo, il massimo delle “negatività”: una donna (vecchia) delle pulizie e un gastarbeiter che s’incontrano nella ricca Germania, cercando di dimostrare come l’amore possa prescindere da età, etnia e ceto sociale.

L’amore raccontato non è quello intimo e privato ma costituisce un modo per confrontarsi con la società. In questo film Fassbinder coniuga le contraddizioni di un rapporto d’amore con l’ambito sociale all’interno del quale si colloca. Non a caso sceglie due persone al di fuori degli stereotipi della comunicazione di massa e del cinema “Hollywood lieto fine”. I protagonisti presentano, a livello di marchi esteriori, connotazioni molto diverse. Lei: bianca, tedesca, fragile e vecchia. Lui: povero, immigrato, giovane e apparentemente robusto. Fassbinder non gioca con i facili manicheismi scegliendo la parte del più debole a seconda che sia il più vecchio o lo straniero ma mette in evidenza come gli stessi personaggi svolgano ruoli diversi a seconda della situazione che si viene a creare. Emmi, ad esempio, pur provando sulla sua pelle che cosa significhino le malignità dei vicini a causa del suo amore per Ali, non esita a spettegolare con le compagne di fabbrica. Ali, per contro, non è la vittima sacrificale e non esita ad abbandonarla quando la donna lo opprime con atteggiamenti possessivi. Fassbinder non si lascia prendere dal facile pietismo nei confronti dell’immigrato, non tenta neanche di spiegarlo moralisticamente, si limita a presentarlo. Lo inserisce all’interno di uno scenario che è quello di un uomo lontano da casa che cerca – attraverso mediazioni fatte di gesti semplici, scanditi dallo scorrere della quotidianità – di comunicare con il nuovo contesto in cui è inserito. Si potrebbe dire che il rapporto fra Emmi e Alì non ha come sfondo la società, ma è il rapporto stesso che, nelle sue implicazioni e interrelazioni, ne è una rappresentazione. Proprio partendo da questa relazione l’autore costruisce un manifesto sul tema dell’immigrazione che implica necessariamente l’incontro con culture diverse. Infatti i personaggi respirano, hanno un significato per l’ambito sociale all’interno del quale sono inseriti e mettono in evidenza il significato cosmico del razzismo, che non trae origine solamente dal diverso colore della pelle, o dal sesso, o dalle diseguaglianze sociali ed economiche ma si esplicita ogni volta che l’altro viene etichettato per evitare il difficile compito della comunicazione.

Fassbinder aveva capito che il rapporto privilegiato con i mass-media è indissolubilmente legato alla ricerca di una risposta semplice, schematica e rassicurante. In pratica si cercano la fata, il principe, il gatto con gli stivali, Cenerentola e il lieto fine delle fiabe. Attualmente è intervenuta una variazione interessante e significativa che si concretizza nel rifiuto della formula “E vissero tutti insieme felice e contenti.” Tale frase rientra a pieno titolo nell’ambito degli atteggiamenti buonisti nei confronti dei migranti, assolutamente da aborrire.

Nella relazione con i mass media non esiste contraddittorio e il fruitore può tranquillamente colloquiare senza tema di essere smentito. La stessa cosa succede adesso con l’ascesa delle forze dette sovraniste: il fruitore rifiuta la complessità e si affida totalmente agli imbonitori e ai semplificatori. Perde colpi la sanità pubblica, peggiorano le condizione di lavoro, aumenta la disoccupazione, c’è un evidente e profondo degrado ecologico e la colpa è da ascrivere agli immigrati, i quali hanno il taumaturgico potere di far dimenticare tutto il resto. Addirittura, il fruitore-elettore è talmente convinto che siano l’origine dei suoi guai che ha venduto l’anima al diavolo ed è indifferente – addirittura, qualche volta, plaudente – nei confronti delle migliaia di cadaveri che vagano per il Mediterraneo. In tutto questo gioca un ruolo sicuramente molto importante il rifiuto della comunicazione e del contraddittorio.

Fassbinder, con il suo film, intende rompere tale circolo chiuso, cercando di dimostrare la necessità di una comunicazione non semplicisticamente liberatoria ma in grado di mettere in relazione mittente e destinatario. Ecco perché, descrivendo Alì e Emmi, rifiuta di favorire facili meccanismi di identificazione catartica, un processo che, finito il film, non ha un seguito nella quotidianità; ma evidenzia la complessità e le contraddizioni dei meccanismi di relazione, tentando, attraverso una partecipata conoscenza, di favorire una consapevole accettazione dell’altro.

Quando la paura rischia di diventare la padrona della nostra vita, si può essere tentati da meccanismi di sopraffazione o si può masochisticamente accettare il giogo della sottomissione; oppure si possono svolgere contemporaneamente i due ruoli. O semplicemente si può cercare di comprendere perché la paura mangia l’anima.

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