Rocchetta si fa bella ma l’acqua non è sua

di Paolo Cacciari (*)  

Non basterebbe un libro per raccontare questa storia di resistenza popolare che vede schierati gli abitanti di Gualdo Tadino – quindicimila residenti, sulle falde dell’Appennino, tra Gubbio e Assisi, in provincia di Perugia – contro l’intero potere economico e politico locale: la Spa Rocchetta, la Regione, il Comune e anche i sindacati coalizzatisi nel pretendere il rinnovo con ampliamento per altri venticinque anni della concessione per la captazione dalle sorgenti del monte Rocchetta della famosissima acqua minerale che fa fare “plin plin”.

In gioco c’è un investimento di più di trenta milioni di euro che comporta l’apertura di nuovi pozzi, l’aumento dei prelievi da dodici fino a quaranta litri/secondo, la creazione di un nuovo marchio commerciale, l’estensione da 208 a 908 ettari delle aree soggette a servitù e salvaguardia, la “riambientalizzazione” delle profonde gole del monte sfregiate da trincee e tubature a cielo aperto, infine – come contropartita – la creazione di ventidue nuovi posti di lavoro negli impianti di imbottigliamento.

I cittadini, da tempo infastiditi dalle pretese della società e dalla acquiescenza dei poteri pubblici, organizzati in un Comitato di difesa dell’acqua, hanno voluto vederci chiaro scoprendo che gli incassi di Regione e Comune per la “concessione mineraria” (un euro a metro cubo emunto) sono briciole per una società che solo in pubblicità spende miliardi, che le ripetute “proroghe” della concessione (rinnovata dal 1952 senza bando e gara pubblica) non ottemperano le direttive europee sulla concorrenza, che non è stato deliberato alcun cambio di destinazione d’uso dei terreni, che gli studi sulle portate delle acque sotterranee, sul deflusso minimo vitale dei torrenti, sul fabbisogno degli acquedotti dei comuni non sono affatto convincenti e, soprattutto, che i terreni su cui sorgono i pozzi di captazione non sono nella disponibilità né della Regione, né del Comune, ma della Comunanza Agraria dell’Appennino Gualdese, un antica istituzione che gestisce il demanio collettivo (2.350 ettari). Altrove si chiamano usi civici, regole, vicinìe, partecipanze… I loro beni sono indivisibili e inalienabili. Appartengono alla comunità di riferimento che li amministra nell’interesse collettivo (su questi temi leggi anche Crisi, movimenti e commons di Massimo De Angelis).

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Per dirla con le parole di Paolo Grossi, attuale presidente della Corte Costituzionale:

«Gli assetti fondiari collettivi costituiscono un altro modo di possedere, caduto in oblio e perseguitato perché estraneo alla modernità borghese, ma meritevole di tutela perché crea spazi identitari culturali, economici, ambientali».

A Gualdo Tadino hanno ricostituito la Comunanza che ha presentato vari esposti per abusi vari e una istanza al Tar per l’annullamento della richiesta di proroga della concessione.

Nadia Monicelli è la presidente della Comunanza: «Soffriamo la sordità delle istituzioni, ma il legame delle popolazioni con le loro terre ci da la forza per continuare una lotta che è prima di tutto di principio».

(*) Ripreso da «Comune Info»; pubblicato anche su «Left». Paolo Cacciari è autore di articoli e saggi sulla decrescita e sui temi dei beni comuni. Il suo ultimo libro è «101 Piccole rivoluzioni. Storie di economia solidale e buone pratiche dal basso» (Altreconomia). «Vie di fuga» Marotta&Cafiero) – un saggio splendido su crisi, beni comuni, lavoro e democrazia nella prospettiva della decrescita – è invece leggibile nella versione completa pdf. In bottega si parla dei suoi libri qui Elogio del condominio, futura umanità e qui Coniugare caos e ordine?. (db)

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