Tempo di saldi, tempo di feste, tempo di spese e lustrini. Io me ne sto a casa, non né ho voglia nemmeno risorse per far parte della schiera di grande partecipazione. Mi faccio un librino che s’era acquattato in un angolo della libreria, una sigaretta, un bicchier di vino, m’ascolto qualche standard. Se non fosse stato per il vento furibondo che soffia gelido – sono uomo d’Africa, poco avvezzo al gran freddo – avrei prolungato i quattro passi lungo il fiume. Mi tengo nostalgia per certe cose laggiù, cose che spariscono, altre che fanno strenue resistenza.
“Tengo la posizione”, rispondeva al “come va?”. Poi la posizione non ha retto. Francesco, armato di sigaro, se ne stava in trincea, provando l’ultima difesa di un mondo che scompare e che prima di farlo prova a dare un ultimo colpo di coda testimoniale, sotto assedio del resto che avanza. La sua libreria, – pochi metri quadrati, umidi e malconci – per qualcuno fuori del mondo, era oasi nel deserto. I libri là dentro è probabile che li aveva letti tutti, perché, se gliene chiedevi uno, lui te ne parlava, pure con dovizia di particolari. Se passavi sotto San Pietro e ti andava di fare sosta nell’oasi nel deserto, aveva le sedie di plastica bianche, impilate a fianco della vetrina che dà sulla piccola piazzetta, il “quadrato della palma”, come la chiamava lo scrittore Franco “Ciccio” Belgiorno che lì s’accomodava spesso.

Lui ti diceva “prenditi una sedia, siediti”, quando c’era il sole nell’autunno fresco, o l’ombra nelle estati torride del sud. A tempi variabili, dunque. M’è capitato di vederlo preoccupato, dopo l’invito a sedersi, se valuta eccessi di corpulenza nell’ospite: “prendine due, – diceva con garbo e dissimulando la preoccupazione – resistono meglio, sono vecchie, mi fido poco”. Non mi ricordo di averlo mai visto scuro in volto. Francesco sorride a prescindere, a tutti, e con tutti scambia quattro chiacchiere. Mi prende in giro per il mio ritiro quasi romitico, nei luoghi d’un altro Francesco. Mi dice che da bambino i suoi lo portavano in vacanza lì, tra boschi fitti e scuri, eremi, santuari, monasteri. Leggevano le Novelle della Nonna della Perodi, tra Gatti Mammoni, oscuri presagi gotici e povere contadinelle, la cui unica speranza d’emancipazione dalla miseria “obbligata” e dalle privazioni della vita ai margini della foresta, era di sposarsi il nobile fiorentino. Un inno al femminismo, praticamente. “E ti pare che non venivo su così?”, ammiccando a come claudica. Se guardo le festose adunate dinnanzi e dentro i centri commerciali, le file coi carrelli stracolmi, lo struscio acritico e il divertimento pret-a-porter, il trionfo dell’industria del divertimento, le compere on line, mi viene da pensare a quello che saremmo se Francesco e quelli come lui fossero loro il virus, un virus che ammala di avvicinamento sociale, ma senza folla, che la folla è ansiogena, che sgombera il metabolismo dal “devo farlo per forza, ora e subito”.























Mi viene da pensare che altro che crisi economica da pandemia e crollo dei consumi. Il PIL, una cosa del genere, lo asfalta, lo seppellisce definitivamente, altro che Covid. Ci toccherebbe vivere senza tempo, senza ansia, senza angosce, forse senza parecchi soldi. E che campi a fare se non hai pensieri torti e sconnessi, se non hai l’assillo che ti devi cambiare il cellulare che il tuo l’hai preso che sono passati già sei mesi? Di che cosa ti preoccupi se le scarpe colorate sono terminate? Come ti pensi domani, che il rottame che guidi non ci ha manco i sensori del peso che ti segnalano l’indice di massa corporea e che ti devi mettere a dieta? Che campi a fare se l’aperitivo è off limits, quello con gli ombrellini e il beverone colorato al benzene doc, con le tartine alla presunzione di gambero affumicato, al caviale di Marte ed al salame molecolare, bello pigiato col resto del mondo, in scatola o liofilizzato? Praticamente ti manca l’aria. Che poi, al massimo, ti tocca farti l’uovo sodo ed il bicchiere di vino rosso da Piero, con il piattino col sale dove buttarcelo dentro, sul tavolo bianco rovinato dal sole ed i gatti del quartiere che ti si strusciano al polpaccio per rivendicare la propria quota parte del banchetto. Ti tocca, anche lì, di scambiare quattro parole, col rischio orrendo, in quella calma irreale, che pure le capisci tutt’e quattro. Mi viene da pensarlo, lì per lì. Poi mi passa, e me ne torno coi piedi a terra, e mi chiedo al massimo come sia stato possibile che Francesco, la sua libreria, là non ci sono più. Per lui, per quelli come lui, malattie sotto traccia, sotto il primo strato di pelle, sotto le ringhiere rugginose e le mura scorticate, il vaccino c’è già. Con vaccinazione di massa, praticamente immunità di gregge dietro l’angolo. Le stanno debellando queste malattie, pure con successo, che manco il vaiolo e la peste bubbonica le hanno combattute con la stessa efficacia. Si, qualche contagiato ancora c’è, resiste, ma vedrete che ora ci si pensa, si fa il tracciamento e si chiudono i focolai. Così alla fine, il PIL, quello almeno, l’abbiamo salvato.
Due considerazioni sul mondo. Una giornalistica, seria, preoccupante. L’altra umana, capace di strappare un sorriso ma comunque drammatica se la guardiamo allo specchio della nostra normale “normalità”. Lontane e vicine quasi esistesse un wormhole che le unisca. Perché la malattia non mina solo il fisico ma anche la mente. E se ci si aggiunge la solitudine della malattia (il Covid dovrebbe avercelo insegnato) il danno è anche peggiore. Il guaio però è che di menti malate ce ne sono molte, forse troppo, più del dovuto, più del necessario: la pazzia, la follia del gesto e del grido sono necessarie al mondo. Ma se ogni gesto e ogni grido sono di follia, allora il mondo (noi tutti) diventiamo incapaci di servirci di quella forza sotterranea e ne diventiamo schiavi. Il vaccino, già, il vaccino. Ha salvato realmente la generazione del Covid (tutti compresi al suo interno). Ma se il Covid non ci fosse stato? Se fosse esistita la volontà di agire e non quella di re-agire? Eppure lo strumento esiste e da tempo, da decenni. La rete che tiene sotto controllo l’influenza funziona da anni e bene. Perché l’Oms punta ad affrontare una malattia conclamata quando quella malattia – o quelle simili – potrebbero facilmente essere tenute sotto controllo a ogni focolaio sospetto? Poi ci saranno i farmaci, i vaccini, le cure in genere. Ma prima di tutto abbiamo bisogno di sorveglianza e non del nostro pensiero ma almeno dei nostri corpi. Una sorveglianza che vada al di là dei particolarismi, dei populismi, dei “prima gli…”, una sorveglianza che vigili sulla malattia prima che questa si diffonda. La prevenga. Questa parola, però è invisa: prevenzione vuol dire meno cure, meno farmaci, meno malati. E c’è chi ha interesse a che questo manchi perché la pillola magica (che pure ha fatto un gran bene da due secoli a questa parte) va acquistata. E che sia la Nazione a farlo o il singolo individuo, non conta. Conta vendere. Conta fare ricerca finalizzandola a uno scopo: il farmaco magico, quello che ci solleverà da ogni malattia. Ma la cura, quella di Battiato, quella che tiene conto della sofferenza, del patimento, della fragilità dell’essere umano, quella che non chiede ma da, dov’è? Dimenticata in qualche cassetto? O nascosta in qualche cassetto?
I Nostri vecchi dicevano:ecco la nostra befana, indicando un cassetto pieno di medicinali. Ora questo sistema ha consumato ogni illusione, desiderio od utopia sulla sanità umana resa fragile e chimerpica, totalmente dipendente dal pillolino o dal compresso e formato maxi, che sicuramente ingrassera le tasche di qualcuno, ma certo non risolverà la fragilità dell’essere malato