Scordata: 11 marzo 1977
«La città piange e fa pena»: Roberto Roversi ricorda Francesco Lorusso (*)
La creta, la selenite e l’arenaria.
Di qui nasce il colore di Bologna.
Nei tramonti brucia torri e aria.
A che punto è la città?
La città è lì in piedi che ascolta.
Io non dico il privato è politico.
Dico anche il privato è politico.
A che punto è la città?
La città si nasconde le mani.
I democristiani non governano l’Italia
ma la gestiscono.
In trent’anni l’hanno succhiata leccata masticata
peggio dei Visigoti
e di Attila che correva a cavallo.
Al confronto Attila è una farfalla dai novanta colori
Questi hanno facce di pesci-tonno, pesci-guerra, pesci-fuoco.
A che punto è la città?
La città legge la sua pergamena.
Un giorno gli schiavi sono vestiti di bianco.
Quel giorno l’impero di Roma è condannato.
Quando gli uomini si contano
un momento di storia è cominciato.
A che punto è la città?
La città tace perché non è più primavera.
La verità è il massacro.
Il massacro è la realtà.
Mille creature tagliano l‘acqua con il coltello affilato
per guardare il sangue del mare.
A che punto è la città?
La città in un angolo singhiozza,
Improvvisamente da via Saragozza
le autoblindo entrano a Bologna.
C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato.
A che punto è la città?
La città si ferisce
camminando
sopra i cristalli di cento vetrine.
A che punto è la città?
La città piange e fa pena.
Poi elicotteri in aria
perché le vetrine son rotte
Le vecchiette allibite
perché le vetrine son rotte
Commendatori adirati
perché le vetrine son rotte
I tramvieri incazzati
perché le vetrine son rotte
Tutte le strade deserte
perché le vetrine son rotte
Carabinieri schierati.
perché le vetrine son rotte
Sessantamila studenti
perché le vetrine son rotte
Massacrati di botte
perché le vetrine son rotte.
A che punto è la città?
La città si scuote come un cane.
Il ragazzo ucciso è seppellito
con il rito formale.
Segue la pace ufficiale
con i poliziotti ai cantoni
In galera centottanta capelloni.
Grida la gente: lazzaroni,
studiate
invece di fare barricate
per mandare in malora una città.
Non si trascina alla gogna
la città di Bologna.
Chi è studente va con la ragazza
non in piazza a farsi ammazzare.
A che punto è la città?
La città ansima e ascolta
il suono di un chiodo che ferisce
strisciando sul vetro di marzo
e così dice:
Era un ragazzo venuto dal niente.
ucciso per strada.
colpito alla fronte.
era un ragazzo venuto da niente.
gridava la gente.
scappava sul ponte.
era un ragazzo, le ore del cuore
le passava sui libri
a mangiare il furore.
una mano di sangue strisciando sul muro
picchiò con la rabbia
un colpo sicuro.
la gente piangeva. era freddo cemento
l’asfalto disteso
e lui moriva nel vento.
bandiera stracciata. un mese è passato.
La terra è fiorita
sul suo corpo straziato.
A che punto è la città?
La città apre le porte e cammina per strada.
Cosa dice la città?
Dice che nell’inverno del ’76-’77 non ci fu neve.
Dice che in marzo è ancora inverno.
Dice che adesso è aprile.
Dice che ogni giorno aspettiamo qualcosa.
Dice: Eco? Umberto? questo intellettuale
da calendario, sarà il nuovo rettore?
A che punto è la città?
La città riacquista i suoi colori.
Ma noi per eterni languori all’italiana vediamo
ripetersi la scena che accompagnò all’inizio degli
anni Sessanta la gimkana del centrosinistra, quando
un partito fu dato in pasto ai leoni che lo spolparono.
II gestore del pranzo di gala, furbetto
e sciapo quasi a chiedere scusa, fu l’on. Moro.
Oggi col suo occhio sbiascicato
eccolo riapparire
con il mandato e la giustificazione
di masticare la nuova polpetta
in un solo boccone.
Ma senza fretta senza fretta senza fretta.
Cosa grida la città?
La città dice che l’età dei guerrieri è finita.
Dice che ieri è cominciato il tempo
degli uomini-rana, degli uomini-gabbia,
degli uomini-lamento.
Ma che non si può finire
col non dire più niente.
Se si tace, il silenzio è la morte.
E nella notte resta solo voce di vento.
Dice che
la violenza è stupida e imperfetta.
La violenza è un luogo comune.
La violenza è vecchia e senza fantasia.
La violenza è inutile e malata.
Dice che
la libertà è difficile
e non è lì che aspetta.
La libertà fa soffrire.
La libertà spesso fa morire.
La libertà ha tre segni semplici e terribili:
vuole la mano
vuole il cuore
vuole la pazienza.
Conoscere non vuol dire distruggere
e poi amare la cosa distrutta.
Amare ciò che si è distrutto
non vuol dire lottare perché
una nuova verità sia avviata.
Un ultimo dubbio e la più
urgente delle necessita ed
è conoscenza vera.
Chi è sul carro
deve buttarsi a terra e correre correre lontano
quando il traguardo è a portata di mano
e il carro è vincitore.
Non offrirti così non sarai comperato.
Questo non è un tempo orribile.
E’ un tempo nuovo.
Non è un tempo impossibile.
E’ un tempo in cui ogni sera
si aspetta una notizia
da Maratona.
(*) Questa poesia di Roberto Roversi, poeta anticonformista e coraggioso, fu pubblicata prima sulla rivista «Inchiesta» e poi, in una più lunga versione, in «Il cerchio di gesso». Non è dimenticato Francesco Lo Russo, ucciso – alle spalle – dalle forze “dell’ordine”: ogni anno a Bologna molte/i lo ricordano. Però una preoccupante amnesia cala su quegli anni, sulla repressione e sulla Bologna che, come scrive qui Roversi, si preoccupa più delle vetrine rotte che di un ragazzo ucciso. Vi fu allora il silenzio di molti intellettuali: il Pci anzi chiamò le “teste pensanti” della sinistra a fare «le sentinelle» contro gli estremisti, cioè a difendere l’ordine costituito… Si stringeva un abbraccio mortale con la Dc che ebbe tanti nomi (compromesso storico, unità nazionale, governi d’emergenza) e un solo risultato: combattere idee e pratiche di sinistra. Al contrario di tanti Roversi non fu zitto né un giullare di regime. Si schierò dalla parte della rivolta. E il suo «cerchio di gesso» non rimanda solo a un’opera (quasi omonima) di Bertold Brecht ma soprattutto si riferisce a quei cerchi intorno alle pallottole, fatti con i gessetti – si possono ancora vedere in via Mascarella a Bologna, sotto una lastra di vetro che compagne/i da anni difendono dalle aggressioni di chi vorrebbe rimuoverla – dove uccisero Francesco.
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata», di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che la gente sedicente “perbene” ignora, preferisce dimenticare o rammenta “a rovescio”.
Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sull’11 marzo avevo ipotizzato: –1387: battaglia fra veronesi e padovani; 1818: esce «Frankenstein»; 1895: una complessa storia di razzismo anti-italiano (in «Corda e sapone, storia di linciaggi», pag 43); 1924: nasce Franco Basaglia; 1938: Hitler invade l’Austria; 1965: a Selma ucciso James Reeb; 1976: Carl Duckett fa uno sbaglio che gli costa la carriera; 1984: «La piovra» in tv; 2000: il tribunale assolve gli armatori Haven- stesso giorno condanna di Maletti e Ordine Nuovo per l’attentato «Bertoli»; 2004: strage a Madrid. E chissà, a cercare un poco, quante altre «scor-date» salterebbero fuori ogni giorno.
Molte le firme e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevissimi, magari solo una citazione, un disegno o una foto. Se l’idea vi piace fate circolare le “scor-date” o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)
Andro’ in via Mascarella a visitare la memoria perche’ non si avvilisca nel solo ricordo dei testimoni, perche’ possa nutrirsi di nuove riflessioni capaci di prenderla sottobraccio e accompagnarla verso futuri non ingessati dall’indifferenza.
Giorgio
Sull’ultino numero della rivista – di strada – “PIAZZA GRANDE” leggo che tutta la produzione poetica (ma anche riflessioni, canzoni, saggi ecc) di Roberto Roversi, morto l’anno scorso, sarà un po’ per volta consultabile e scaricabile gratuitamente su http://www.robertoroversi.it.
Si inizia con la raccolta “L’Italia sotto la neve”.
eh .. ROVERSI .. UN GRANDE MAESTRO .. altro che tromboni & trombette gruppo 63 e .. peggio ancora gli epigoni replicanti attuali .. ..
NON CI SARANNO MAI IN QUESTO MONDO NE IN NESSUN ALTRO ABBASTANZA PLOTONI DI ESECUZIONE PER FUCILARE TUTTE LE BOLLE DI SAPONE. Roberto Roversi.
Chiedi chi era Lorusso
.
Fu un colpo di fucile a tradimento
(tutto è agli atti).
Non eran poliziotti di Bologna
ma militi, agli ordini di Roma.
Ministro dell’interno era Cossiga.
Lui stesso, cioè Cossiga, tempo dopo
ammise tutto quanto, intervistato
sul Resto del Carlino: può, chi vuole,
andare e controllare, era d’ottobre.
Duemilaotto, ventitré di ottobre.
Franca Menneas ci scrisse intero un libro
(che dica di Cossiga non ricordo
-chiedo scusa).
Io avevo sedici anni. La rivolta
bruciava in tante scuole, tante piazze.
Non eran neofascismo, né “untorelli”,
non seppe capir nulla il Gran Partito.
E fu tragedia.
Cossiga se ne fece un bel boccone.
Fu un movimento
votato alla sconfittà?
E disperato in fondo, e senza meta?
Lo fu in gran parte -com’è che han detto i fatti.
Sì, e con questo?
A chi ha vent’anni e sbaglia, chi è che parla?
E come, soprattutto? E cosa dice?
Non c’era riflessione, non mai calma.
E’ vero, c’era furia ed estremismo
e tenerezza: agnelli al lor massacro.
Non era un fumettaro, era un profeta
Andrea Pazienza. Un vero artista.
Ogni sommossa ha forse il suo poeta
in Russia Majakovskij, qui Pazienza.
E Radio Alice, certo, e i muri
che come è stato detto, già, parlavano.
Ci fece, Franco Fiore, la sua tesi:
raccolse quelle scritte ad una a una
(però nessuno l’ha poi pubblicata).
Cos’è rimasto? E’ tutto solo cenere?
Se c’è risposta riposa in grembo a Omero.
Ho perso un poco il filo. Quel giovane
quell’uomo che studiava Medicina
quel compagno
urlato, poi, milioni e più di volte
in piazza, nei cortei, su tanti muri,
(per chiedere giustizia che è chimera,
che non sarà mai più -è troppo tardi).
Chiedi chi era Lorusso.
Chiedi chi era Roversi.
Chiedi chi era Lomastro. Repubblica
gli dedicò una pagina. Intervista
a chi era allora il capo della Mobile.
E m’è sembrato onesto -anche sincero.
Subì anche lui, decise tutto Roma. E’ molto chiaro
-van solo messi insieme tutti i pezzi.
A me molti mancavan, ma iniziai
ci scrissi la mia tesi -è disponibile.
E’ storia molto vecchia. Archeologia
a fronte delle cose che oggi chiama.
Ma come chiameresti chi rinnega
di aver tirato un sasso, o detto “cazzo”?
Il perbenismo ipocrita ci ammorba
e rende tutti (o quasi) dei pupazzi
che fan pena o ribrezzo. Pure tristi.
Ho affisso manifesti -ma abusivi
e feci molte scritte sopra i muri.
Fumai dell’erba, solo e in compagnia.
Gridai “Rivoluzione”, “lotta dura”.
Ed eravamo in tanti.
Di dire quel che penso non ho smesso.
Di chiedermi che è giusto, be’, nemmeno.
Ma adesso sono adulto, sono padre
la madre e il padre miei son sotto terra.
Nell’esser “sempre contro” vedo oggi
nient’altro che una moda. Non è quello.
Di Peter Pan ce n’è davvero troppi
gli adultescenti a me fanno ribrezzo.
Quando diventi adulto hai da capire
quello che nasce e quello che ha a finire.
Modelli non ce n’è, di certo è vero…
Ma è falso, se è pietà che un po’ ti guida.
C’è un filo rosso, e lega teste e cuori.
E’ la pietà centrale in tutto questo
(Roversi -ancora lui- non mente, è guida).
Così, mentre ricordo qui Francesco,
ricordo anche mio padre, cioè Felice.
E un altro lottatore, uomo e padre:
Joe Strummer, che ritorna dal deserto
e rientra nella vita con pazienza.
Chi ha dei ricordi non deve viver senza.
Chi ha dei ricordi ha il dovere di parlare
e stare nel presente col suo fare.
Gualtiero Via
Budrio. 11 marzo 2019