Scuola, architettura, capitale

di Giovanni Carbone

Un piano di adeguamento edilizio delle strutture scolastiche è ormai divenuto assolutamente necessario, ma, su questo, l’unanimismo che si registra, mi pare frenare la sua attuazione anziché determinarne la concreta realizzazione. Del resto, nella prospettiva del PNRR (una diligenza che passa tra anfratti e nascondigli ottimi d’agguati) non c’è chi ne parli. Tuttavia, in attesa di riscontri fattuali, vale la pena provare a metter su una riflessione più approfondita sulla cosa, poiché, se è evidente l’impellenza di dotare la scuola di strutture efficienti– e la pandemia ne ha dimostrato tutta l’ineluttabilità –, questo non può prescindere da un’analisi attenta e profonda sul modo con cui si è determinato il riassetto urbanistico del paese e di come la scuola, dunque, vi si possa inserire nel nuovo contesto.

La città, l’architettura, le trasformazioni sociali.

Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come si compete nei giochi d’ossimori, tanto più è affollato. Il reale, trasformato in immagine spettacolare (come nei fantasmogorici skyline di Dubai, ma senza andare troppo lontano, certe periferie di grandi città, da nord a sud), è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, e non sono più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo. Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia. Ma se l’agnello o l’orrendo porco s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali. Pure l’effimero, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva. Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici divenuti non luogo di relazione ma turistifici, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale del mercato. che reclama le sue vittime. Le mura cittadine, anche quelli dei centri più piccoli, s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, si ha quasi il desiderio di farlo. Una sindrome della capanna ante litteram. Rinchiudersi diventa principio identitario, quando si cerca di definire quello come identità culturale da difendere contro l’altro, l’invasore, lo straniero. Dunque, vi si legge una dimensione quasi caricaturale.

La progressione verso la forma estrema del mercato – il narcisismo individualista – ha soppiantato persino le gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali. E il consumo diventa una sorta di dogma definitivo. Le città si sono attrezzate per assecondare questo processo. Le città prese d’assalto hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi. Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente.

Il ruolo dell’architettura scolastica

La scuola pare però soggetto passivo di questo processo, non ne è l’esatto contraltare, non torna al centro dell’ambiente urbano per riaffermare il suo ruolo di fondamentale istituzione di formazione sociale, di luogo della partecipazione e di pratica democratica. Se dunque vi è la necessità del suo ammodernamento strutturale, questa è condizione non sufficiente per ri-pensare una scuola protagonista negli spazi del quotidiano. Gli architetti progettano i nuovi edifici scolastici senza avvertire il bisogno di un confronto innanzitutto con la collettività, nemmeno con la natura trasmissiva ed inclusiva da attribuire alla scuola. Piuttosto accettano la mediazione con la politica, assecondano e/o rincorrono il taglio dei nastri, le fasce tricolore. Scuole d’eccellenza diventano nell’immaginario i poli scolastici progettati dalle archistar, sganciati dal proprio contesto sociale ed urbano, corpi estranei che contribuiscono a cementificare, a consumare territorio, dunque antiecologici per definizione. Ubicati in un altrove ancora più periferico, diventano altro rispetto alle condizioni sociali di chi le frequenta, dagli alunni ai lavoratori. Non partecipano al recupero dell’esistente, al rapporto con la comunità. Sono organizzazioni separate e burocratiche, con una fortissima gerarchizzazione dei rapporti che non lascia esprimere compiutamente prospettive creative, non sono nel corpo vivo delle città e dei territori, quali laboratori permanenti di partecipazione. Va quindi ripensata l’architettura scolastica come strumento di crescita per l’intera società, che ponga al centro i processi educativi e la maturazione della personalità dei cittadini, ma anche occasione di creazione di spazi aperti e condivisi, dialettici, se occorre, senz’altro democratici, improntati alle forme più alte dell’ecologia ambientale e sociale. È piuttosto evidente che i maghi del cubo di cemento magico non apprezzano una scuola che recupera l’esistente, che collabora alla riscrittura dell’ambiente sociale in termini partecipativi e solidali. Temono un nuovo protagonismo dei lavoratori della scuola, un rilancio della democrazia interna, poiché l’efficacia dei percorsi educativi e l’attenzione per essi non si misura solo costruendo edifici funzionali, ricchi di belle aule, ampie ed attrezzate, ma, dentro questi, amplificando il ruolo formativo e pedagogico della scuola, eliminando la pletora di orpelli burocratici il cui proliferare l’ha mortificata, impedendone l’osmosi necessaria con l’ambiente urbano.

Per ciò che attiene l’architettura stessa dell’edificio, dello spazio scolastico, infatti, il consumo del territorio stride con il ruolo formativo della scuola. La costante aggregazione dei plessi, sino alla creazione di immensi ed affollatissimi edifici, rema contro i percorsi di inclusività, poiché va gestito in modo opposto alla creazione di sistemi di relazione tra chi frequenta la scuola – a qualsiasi titolo – e tra questi e l’ambiente sociale. La necessità di recuperare gli spazi urbani esistenti, anche con le opportune strategie di adeguamento antisismico, energetico e funzionale (da questo punto di vista vi sono stati passi in avanti notevolissimi nelle pratiche ingegneristiche e architettoniche), sarebbe un punto di partenza per ridare centralità alla scuola, oltre ad essere, alla lunga, anche economicamente vantaggioso per il pubblico. Riduce i costi per gli spostamenti, ha impatto ambientale minore, crea isole di salubrità culturale in luoghi che ne sono privi, consente a chi vi abita di riconoscersi nelle azioni formative della scuola. In definitiva, crea “identità” autentica, non un suo artificio retorico. E si comprende come nel PNRR questi aspetti appaiano lontani e marginali. Mica si vorrà stemperare la natura di centri commerciali di certi centri storici, mica si vorrà creare discontinuità strutturale nei dormitori per consumatori, mostrando loro le vie della cultura e dell’istruzione?

Questo articolo esce in simultanea su www.diatomea.net; «Diatomea è una piattaforma che nasce con l’intento di divulgare e promuovere l’​Arte in ogni sua forma e contenuto».

 

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