Storia di uno stadio a Gaza
L’impianto sportivo Yarmouk, simbolo dell’unità del popolo gazawi, è diventato il simbolo della sua umiliazione più feroce.
di Valerio Moggia (*)
Pochi edifici raccontano l’epoca contemporanea quanto gli stadi di calcio. Luoghi di culto moderni, per dirla come avrebbe fatto Marc Augé, in cui la comunità si riunisce in un rito collettivo, che a sua volta si lega a uno dei grandi fenomeni culturali dell’ultimo secolo, lo sport di massa. Più dei templi religiosi, più dei parlamenti e delle scuole, gli stadi incarnano lo spirito, i pensieri, le passioni, le ambizioni e i desideri delle comunità che li circondano. Lo stadio Yarmouk di Gaza, oggi, abbraccia la sua comunità, spaventata e infreddolita, sfregiata e violentata come l’impianto stesso. Non si gioca più a calcio, dentro lo Yarmouk: è ridotto a una rovina, ricolmo di tende e di fame, vano baluardo contro la violenza genocida di Israele.
La sua storia è iniziata nel 1952, appena quattro anni dopo la disastrosa guerra arabo-israeliana, a cui aveva fatto seguito la Nakba, l’esodo forzato di 700.000 palestinesi dalle proprie terre, cadute sotto il controllo di Israele. La Striscia di Gaza rimase isolata dal resto dei territori palestinesi in Cisgiordania, e occupata dall’esercito egiziano. Furono le autorità del Cairo a finanziare la costruzione dell’impianto, con una capienza di circa 9.000 posti, nel Nord della regione, all’interno di quella che sarebbe in seguito divenuta nota come Gaza City. Uno stadio per la popolazione gazawi e per i numerosi profughi fuggiti dalle aree conquistate da Israele durante la guerra. L’idea degli egiziani era quella di farne non solo un luogo di sport, ma anche un simbolo della cooperazione araba a sostegno del popolo palestinese. Una valenza controversa, perché implicitamente celebrava anche la presenza militare dell’Egitto nella Striscia, che preveniva ogni possibilità di costituire uno stato palestinese autonomo e sovrano.
Ma, nonostante questo, lo stadio Yarmouk divenne un punto di ritrovo per la popolazione di Gaza. Non solo per assistere ai principali eventi sportivi organizzati nella regione, in particolar modo le partite di calcio, in quanto era di gran lunga l’impianto più grande e prestigioso, ma anche per occasioni che con lo sport avevano ben poco a che vedere. Al suo interno venivano organizzate feste e celebrazioni di vario tipo, facendo della struttura una sorta di centro polifunzionale per l’intera comunità. Per certi versi, lo stadio Yarmouk era Gaza. E così fu fino al 1967, quando scoppiò la Guerra dei Sei Giorni: Israele sbaragliò l’esercito egiziano e occupò la Striscia, imponendovi in seguito un’amministrazione militare destinata a durare fino al 1994, quando le trattative per il processo di pace permisero il ritiro dell’IDF dalla regione. Nei successivi undici anni, Israele si disimpegnò dalla Striscia, rimuovendo i propri insediamenti dal territorio di Gaza, ma mantenendo un blocco lungo i confini in comune e al largo della costa.
A quel punto, lo stadio Yarmouk venne recuperato e ristrutturato dall’amministrazione cittadina di Gaza, recuperando il suo ruolo storico di luogo di eventi sportivi e comunitari, come festival e addirittura matrimoni. Ma fu una rinascita complicata: già alla fine del 2008, la guerra tra Hamas e l’IDF portò a gravi danneggiamenti dello stadio, che richiesero in seguito nuovi investimenti per la ricostruzione, finanziati dalla banca tedesca KfW. Nella successiva guerra, scoppiata nel 2012, l’impianto venne preso di mira da un bombardamento israeliano, nel corso del quale due persone restarono ferite. Lo stadio Yarmouk veniva danneggiato a ogni conflitto nella Striscia, e in seguito riparato o ricostruito. Ha ripreso a ospitare partite, come ad esempio la finale della Palestine Cup del 2016, vinta dall’Ahli Al-Khaleel di Hebron sullo Shabab di Khan Younis. Una finale, a Gaza, è già un’impresa: le competizioni iniziano, ma non si sa mai se potranno arrivare alla conclusione, perché un nuovo conflitto può fermare tutto, distruggere strutture, disperdere le squadre, assassinare giocatori e allenatori.

Il 2 ottobre 2023, l’Ittihad Al-Shujayya ha sconfitto l’Hilal Gaza nella sesta giornata del campionato della Striscia di Gaza: si è trattata dell’ultima partita ospitata dallo stadio Yarmouk. Cinque giorni dopo, ci sono stati gli attacchi di Hamas in Israele, a cui sono seguiti i nuovi bombardamenti su Gaza, che sarebbero stati i più lunghi della storia. Le persone che abitavano nella zona settentrionale della Striscia hanno abbandonato le proprie case, rifugiandosi dentro lo stadio. Un campo da calcio come ultimo rifugio degli sfollati e dei disperati. Poi, sono arrivati i carri armati e i soldati. Il 24 dicembre hanno circondato lo stadio, sono entrati e lo hanno occupato, hanno catturato tutte le persone che non erano riuscite a fuggire e le hanno imprigionate all’interno. Lo Yarmouk, che era stato un simbolo dell’unità del popolo gazawi, è diventato il simbolo della sua umiliazione più feroce.
Le immagini, in quegli ultimi giorni del 2024, hanno fatto il giro del mondo. Decine di persone in ginocchio sul campo su cui un tempo si giocava, spogliate, con dei cappucci sulla testa, con le mani legate. Tutto questo è solo la punta dell’iceberg, però, la superficie di una quotidianità di torture fisiche e psicologiche inflitte dai soldati alla popolazione locale, violando ogni principio del diritto internazionale. Testimoni riportano che alcuni dei prigionieri dello stadio Yarmouk sono stati assassinati dai soldati: tra di essi ci sarebbe il figlio di Tamer Al-Absi, che prima della guerra era il vice-presidente della federazione di atletica palestinese. Nel frattempo, lo stadio viene violato e devastato come i suoi occupanti, perquisito da cima a fondo alla ricerca di tunnel e nascondigli, sventrato con le scavatrici, fino a essere reso inservibile. Quindi, nel giro di pochi giorni, abbandonato. “Lo Yarmouk era così importante per noi. – commenta a Le Monde Nader Jayousi, il presidente del Comitato Olimpico Palestinese – Adesso, i nostri ricordi peggiori saranno per sempre associati a quel posto”.
Ma in guerra non hai tempo neppure per gli incubi. Subito dopo che l’IDF ha lasciato l’impianto, la gente è tornata a popolarlo e a cercarvi riparo, spinta dalla necessità. Lo hanno trasformato in una tendopoli, ricavando vicoli sabbiosi – dato che ormai l’erba ha smesso di crescere – e vialetti lungo quella che era la pista di atletica. Dalle immagini che vengono diffuse dai media arabi, si nota che almeno un lato della struttura dovrebbe essere stato completamente raso al suolo: dove ci dovrebbe essere una curva con i suoi spalti, si accede direttamente alla strada e ai pochi palazzi circostanti ancora in piedi. Lo stadio ospita oltre 300 tende, ognuna delle quali è la casa di una famiglia, solitamente piuttosto numerosa. È stato improvvisato un sistema di illuminazione, ma manca l’acqua corrente, e così ogni giorno un componente della famiglia deve recarsi in un punto apposito dove ci sono i rifornimenti, per portarne a casa qualche secchio.
Il campo dello Yarmouk non lo calcano più gli atleti, ma sfollati che provengono da Beit Lahia, Jabalia e Beit Hanoun, i quartieri di Gaza più vicini al confine settentrionale con Israele. “Ci siamo svegliati e abbiamo trovato i carrarmati davanti alla nostra porta. – racconta ad Arab News Um Bashar, una donna di Shejaiyah, un quartiere orientale di Gaza City – Non abbiamo preso nulla, quando ce ne siamo andati: non un materasso, non un cuscino, né abiti, nulla. Nemmeno del cibo”. Le tende sono di quattro metri per quattro, ma non ce ne sono abbastanza per tutti, così spesso ci si riduce a ospitare due famiglie dove ce ne dovrebbe stare una soltanto. Per molti, non è neppure il primo campo profughi: quando le loro case sono state distrutte, sono scappati e si sono rifugiati da qualche parte; poi Israele ha colpito anche lì, e si sono nuovamente dovuti spostare. Infine sono arrivati allo Yarmouk, la più grande struttura della Striscia. Qui, un posto lo si trova sempre.
“Il campo da calcio su cui ho giocato una volta, adesso è il mio rifugio di guerra.” racconta a TRT World Mahmoud Raafat Salama. Ha 30 anni, e prima della guerra era un calciatore professionista: aveva giocato a Gaza con l’Al-Wifaq, poi con l’Al-Ahly, in Egitto, e con l’Al-Aqaba, in Giordania. Lui e sua moglie hanno dovuto abbandonare la loro casa a Shejaiyah assieme alla figlia Selene. La secondogenita, Sila, è nata a guerra già iniziata, e non ha mai avuto una casa, al di fuori dello stadio Yarmouk. “Quando è nata, invece di festeggiare tremavamo per le esplosioni. Il suo primo pianto si è mescolato al suono delle bombe.” ha detto Salama.
Dopo due anni di bombardamenti e massacri, lo Yarmouk resiste, anche se non è più nemmeno lontanamente rassomigliante a un impianto sportivo. La Striscia di Gaza è in macerie, ma molta gente ancora vive al suo interno. Non perché sia più sicuro di altri posti, ma perché spesso i suoi abitanti non sanno dove altro andare. E almeno qui si può stare insieme, all’interno di un luogo che, in qualche modo, molti a Gaza City considerano casa. Si muore ancora, attorno allo Yarmouk: il 20 settembre 2025, quattro persone sono state uccise da un bombardamento mentre si trovavano nella loro tenda, nei pressi della struttura, secondo quanto riporta l’agenzia dell’ONU OCHA.
Fonti:
–Gaza’s biggest soccer stadium is now a shelter for thousands of displaced Palestinians, Arab News
–“Yarmouk Stadium”: The first camp for displaced people from the northern Gaza Strip, UNA OIC
–ZIDAN Karim, The systematic destruction of Gaza’s football stadiums, Sports Politi
(*) Link all’articolo originale: https://pallonateinfaccia.com/2025/10/05/storia-stadio-yarmouk-gaza/#more-12475