Su «Black Music» di Amiri Baraka

Jazz? Usavano questa parola ma «intendevano solo musica da negracci». Così raccontava Max Roach – probabilmente il più grande batterista del secolo scorso ma anche compositore e intellettuale completo – e Amiri Baraka lo ricorda in una bellissima antologia appena uscita: «Black Music: i maestri del jazz», curata da Marcello Lorrai per Shake edizioni (240 pagine, 16 euri). Shake aveva già ristampato «Il popolo del blues», opera storicamente decisiva sulla musica afroamericana.

Qui sono raccolti 24 articoli o brevi saggi.

Si inizia con Blind Tom, nato schiavo nel 1849: un «mezzo animale» per i bianchi ma alcuni di loro ammisero: per come suonava era l’ottava meraviglia del mondo. Subito dopo – in forma di sceneggiatura musicale – il dimenticato pianista di inizio ‘900 “leone” Willie Smith. Poi l’era di mezzo degli Ellington e Tatum.

«Che succede?» chiese il giovane Baraka (che allora si chiamava Le Roi Jones) al «sommo sacerdote del bop», Thelonius Monk e quello rispose: «Tutto. Continuamente. Ogni infinitesima frazione di secondo»; con questo lungo pezzo il libro-concerto si avvia al jazz moderno. Un lungo omaggio, con inclusa poesia, a Max Roach. Una «giornata» con Roy Haynes, altro grande batterista. Poi quattro riflessioni sulle cantanti, inclusa Abbey Lincoln – «voce, strumento, narratrice, drammaturga, attrice, regista, autrice, improvvisatrice, melodista, poetessa» – che da noi è purtroppo quasi sconosciuta anche perché le case discografiche non gradirono il suo impegno contro l’apartheid.

Baraka torna due volte su Jackie McLean, tre sul Trane (ovviamente John Coltrane) e ben quattro sull’amato-odiato Miles Davis.

Molti gli artisti decisivi ma quasi ignoti in Italia ai quali Baraka dedica lunghi ritratti musical-poetici. Eric Dolphy con «quella tipica intonazione che sembra ogni volta un filino acuta, come se stesse suonando tanto forte da deformare il metallo». Il troppo presto (e in circostanze misteriose) scomparso Albert Ayler. E Sun Ra, musicalmente un genio ma stravagante nell’atteggiarsi a nativo di Saturno casualmente sulla Terra, pianeta piuttosto primitivo.

Ha avuto molti nomi e almeno tre vite Amiri Baraka. Nella prima (si chiamava ancora Le Roi Jones) fu romanziere e poeta «beat», una sorta di Ginsberg nero. Fra gli anni ’60 e ’70 diventa un incendiario del Black Power. Dopo gli anni ’80 torna alla poesia e al lavoro di artista e di organizzatore culturale, sempre attento al nuovo ma con uno sguardo molto amaro sull’oggi. Alcune costanti legano queste tre fasi della sua esistenza: il jazz è la principale e questa antologia ne rende conto magnificamente ma ci sono – lo ricorda Lorrai nell’introduzione – altri elementi comuni a tutta la sua produzione artistica: «il respiro beat della scrittura, l’abilità di giocare con le parole, l’elemento predicatorio (assorbito attraverso la chiesa nera), il linguaggio della militanza politica e fors’anche il vezzo dell’intellettuale autodidatta di essere talvolta non del tutto perspicuo». E la ricerca della libertà: è l’essenza di ogni arte ricorda di continuo Baraka con un linguaggio che oscilla fra il recensore musicale, il predicatore appunto, il sociologo, il rivoluzionario, soprattutto il poeta: «La parola verità suona moscia solo se non capiamo cosa si dice all’opposto di essa». E ancora: «La questione della libertà è alla base della poesia. Non soltanto la libertà politica ma una libertà ancora più di fondo: una libertà dalle limitazioni. E’ chiaro cosa intendo? L’estasi, la possessione».

In definitiva «Black Music» è un libro indispensabile per chi si lascia graffiare dal jazz ma può essere una straordinaria scoperta anche per chi ama le scritture vicine al parlato e attente al ritmo, le parole scomposte e ricreate, l’ironia, l’impegno sociale. Il lavoro di traduzione dev’essere stato difficilissimo ma il testo italiano scorre con grande efficacia. Se però sapete bene l’inglese e volete ascoltare Baraka dal vivo fate un salto in rete: qualcosa c’è ed è abbastanza sconvolgente.

UNA BREVE INFO E POI DUE PIGNOLERIE

Prima di questo ottimo libro gli editori italiani hanno dedicato pochissima, quasi nulla, attenzione ad Amiri Baraka. Per questo segnalo una mia recensione (che ora ho recuperato in blog, la trovate in data 1 marzo 2007) a «Ritratto dell’artista in nero» di/su di lui.

Come forse sa chi passa spesso per codesto blog, sotto le mie ascelle ospito due strane creature: sotto la destra abita Severo De Pignolis, sotto la sinistra Horny To Rinko, un vispo ornitorinco. I due erano svegli e assai partecipi mentre leggevo questo «Black Music». L’ornitorinco si è entusiasmato quasi a ogni pagina mentre Severo (non a caso visto il nome) mugugnava su due punti. Perché mettere in copertina Ornette Coleman se di lui qui si parla pochissimo? E perché intitolarlo «Black Music» come il bel libro di Amiri – ma a firma LeRoi Jones – che uscì nel 1968 e fu più volte ristampato? In effetti quell’antologia fu tradotta in molte lingue (io ho una bellissima edizione francese della Buchet/Chastel) ma purtroppo in italiano no, no, no. (db)


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