Transizione energetica: una crescita verde con una scia rosso sangue

di Giorgio Ferrari

In tempi che appaiono lontanissimi, Julius K. Nyerere (Presidente e fondatore della repubblica di Tanzania), rivolgendosi ad una delegazione giapponese presente nel suo paese per intavolare relazioni commerciali, pronunciò questo discorso:

“Attualmente non c’è paese tra quelli non sviluppati, che sia in grado di costituirsi un capitale partendo da modeste disponibilità o di esercitare un qualche controllo sui suoi rapporti con i paesi industrializzati. Siamo in realtà sottomessi alle pressioni risultanti dal carattere istantaneo e universale delle telecomunicazioni, e nel contempo i nostri sforzi di industrializzazione esigono milioni di investimenti immediati. Inoltre tutti i beni che potremmo arrivare a produrre, dovrebbero affrontare la concorrenza di quelli prodotti da società transnazionali che dispongono di tecnologie avanzate e di infrastrutture che noi non abbiamo.  A venti anni dalla sua fondazione (1961)  la  Tanzania ha fatto grandi progressi, ma essi divengono insignificanti se paragonati ai progressi ottenuti nello stesso tempo dal Giappone.

Questo significa che il principio secondo cui più ci si innalza e meno si trova resistenza, non vale solo per gli aerei.

Noi riteniamo che molti degli ostacoli che incontra il terzo mondo, fanno parte di questo sistema di relazioni internazionali di produzione e scambio che ci obbliga ad agire come se fossimo uguali ai paesi industrializzati per cui, ad esempio, acquistiamo petrolio allo stesso prezzo del Giappone o di qualunque altro paese sviluppato. Gli stessi organismi internazionali come il FMI e la Banca Mondiale, sono stati creati per i paesi industrializzati e sono tutt’ora in mano ad essi.

Ma quello che è ancora più grave è che dovremmo costruire la nostra economia in una condizione in cui i prezzi delle materie prime che esportiamo è determinato dai nostri clienti e quello dei manufatti che importiamo è fissato dai nostri fornitori, che poi sono più o meno le stesse persone.

Faccio degli esempi. Il Giappone acquista dalla Tanzania cotone, caffè e altre materie prime non trasformate.

Il solo prodotto trasformato che la Tanzania vendeva al Giappone era cordame ottenuto dalle fibre del sisal; per contro la Tanzania acquista dal Giappone camions, automobili, materiale per telecomunicazioni, etc.

Accade che per comprare lo stesso camion, la Tanzania ha dovuto vendere circa 7,15 tonnellate di cotone nel 1979 e 6,34 nel 1980, il che rappresenta una riduzione del 11,3%, cioè un vantaggio per la Tanzania.

Ma mentre nel 1979 il camion costava 13 tonnellate di sisal, nel 1980 costava 19,88 tonnellate, cioè un peggioramento nello scambio del 52%. Per il caffè la situazione è ancora peggiore. Un camion che nel 1979 aveva un costo equivalente di 2,32 tonnellate di caffè, nel 1980 ce ne volevano 4,5 di tonnellate, cioè una quantità di caffè quasi doppia da un anno all’altro, senza considerare che devono passare tre anni prima che una pianta di caffè produca.

Dunque, anche se può sembrare un paradosso, non c’è dubbio che costa molto caro essere poveri.”

 

Nyerere era socialista e poeta, come lo erano anche Sankara o Senghor, tutti leaders della lotta anti-coloniale, capaci di esprimersi con una semplicità e potenza di linguaggio a noi sconosciuta che dovrebbe indurci ad una riflessione più attenta su ciò che l’Europa sta predisponendo nei confronti dell’Africa e di altri paesi non sviluppati.

Ma non è quello che avviene perchè l’atteggiamento più diffuso nei confronti delle differenze di status tra i popoli dell’occidente e quelli di altre zone del mondo, è quello di un astratto richiamo alla mancanza di diritti, come se povertà, malattie, accesso a beni e servizi primari fossero da ritenersi tragiche calamità o, al massimo, la conseguenza di un deficit etico-giuridico che la retorica della “consapevolezza”, di cui è intrisa la cultura europea, colloca tra i punti all’ordine del giorno di un’agenda sempre uguale e sempre inevasa.

Mai che venga in mente di porre in relazione diretta la povertà del terzo mondo con l’agiatezza del nostro, di considerare che se le condizioni di vita di quelle popolazioni sono quelle che sono, non è perché non gli vengono riconosciuti certi diritti, ma perché sono impedite a tradurli in pratica proprio dal sistema di relazioni economiche concepito dai paesi sviluppati, che poi è quello che materialmente governa i rapporti di produzione e scambio a livello mondiale.

Non a caso nel discorso di Nyerere non c’è recriminazione alcuna che riguardi i diritti della Tanzania rispetto a quelli del Giappone. Anzi, la Tanzania  (e tutto il terzo mondo) è penalizzata proprio perché questo sistema di relazioni internazionali gli riserva lo stesso trattamento dei paesi industrializzati. Dunque non è sul piano dei diritti (di produzione e scambio) che si pone la questione, ma sulle reali modalità di applicazione di queste relazioni per cui, alla fine, un paese del terzo mondo non potrà mai godere di uno scambio alla pari con un paese sviluppato.

Qui sta l’essenza di quello che poi sarà chiamato neocolonialismo. Vale a dire il passaggio da una economia di rapina a mano armata come era quella degli insediamenti coloniali, a quella in cui le popolazioni del terzo mondo, anche dopo essersi liberate dalla presenza dei colonialisti, continuano ad essere rapinate nonostante (o come diceva Nyerere proprio perché) il sistema di relazioni internazionali le abbia equiparate a quelle dei paesi sviluppati.

L’Africa odierna è ancora il luogo dove questi contrasti appaiono in tutta la loro crudezza, nonostante l’Occidente europeo abbia cambiato approccio offrendo squarci di partenariato nello sviluppo sostenibile, information technology (come il 5 G), ma soprattutto  il coinvolgimento nel new green deal globale, per un continente in cui tutt’ora 600 milioni di persone non hanno l’elettricità, l’accesso all’acqua potabile e cucinano il cibo con la legna. Una sola cosa non è cambiata: l’attitudine al macello sistematico delle popolazioni indigene con la sola differenza che a commetterlo non sono più o soltanto gli eserciti regolari, ma milizie assoldate alla bisogna.

La Repubblica democratica del Congo (RDC) rappresenta il concentrato di tutti questi orrori. Le milizie del M23 finanziate dal governo ruandese, a sua volta finanziato dal Regno Unito, dagli Stati Uniti e da molti altri, stanno commettendo omicidi di massa e distruzioni ambientali.

Il 70% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno pur potendo disporre -in teoria – di risorse naturali enormi, ma dopo il saccheggio delle risorse fossili, è stata la volta dell’estrazione mineraria e del commercio illegale dei minerali basata quasi esclusivamente sul lavoro minorile, controllato dalle milizie armate che orientano il traffico di minerali verso il Ruanda dove vengono acquistati da società multinazionali o loro intermediari.

“Il conflitto, che dura da quasi 30 anni nella parte orientale della RDC è il più sanguinoso dalla seconda guerra mondiale, e le sue cause sono principalmente economiche”, spiega il premio Nobel  Denis Mukwege. Dal 1996, più di 10 milioni di persone sono state uccise, e innumerevoli altre sono state sfollate, violentate o reclutate con la forza (anche bambini) in gruppi armati.

Questo stato di cose, non solo è noto alle istituzioni internazionali, ma è addirittura alimentato dal fatto che gli aiuti da esse erogati sono indirizzati massicciamente al Ruanda dove le elite al potere ne garantiscono l’applicazione.

A peggiorare la situazione, negli ultimissimi anni, è intervenuta la transizione energetica che i paesi sviluppati (Europa e Nord America) hanno posto al primo punto della loro agenda politica: “una crescita verde che lascia una scia rosso sangue”. Così la definisce il drammatico reportage di Alexandria Shaner1 sulla situazione nella RDC in cui, inequivocabilmente, si coglie l’accusa di complicità, o quanto meno di indifferenza, rivolta ai paesi sviluppati e alla loro falsa etica.

“Mentre la finanza globale investe nella “crescita verde”, la ricchezza di risorse della RDC ha nuovamente portato violenza, rapina e distruzione ecologica. Le più grandi riserve mondiali di coltan, vaste riserve di rame, diamanti, stagno, oro e oltre il 63% del cobalto globale sono ambite da bande armate che le vendono a multinazionali e stati ricchi che vogliono produrre telefoni, computer, batterie e, sempre di più, fonti rinnovabili.”2

L’esempio della RDC, per quanto possa sembrare estremo, non è il solo.

Più volte mi è capitato di denunciare il fatto che la transizione energetica, anche quella che ipotizzano le anime più pure del movimento ambientalista (non mi stancherò mai di dirlo), è intrisa di neocolonialismo e di economia di rapina.

Nel Sahel occupato e cinto da un muro interminabile, il Marocco ha installato campi eolici e fotovoltaici per circa 1800 Mw la cui energia viene già esportata in Spagna; a questi si aggiungeranno 11500 Mw di pannelli solari e 3600 Mw di eolico che l’Inghilterra vuole importare dal Marocco con il progetto Xlinks: un cavo sottomarino di circa 4000 Km che unisce i due paesi, dal costo stimato di 24 miliardi di $.3

Nei territori occupati della Cisgiordania, Israele ha installato quattro campi fotovoltaici la cui energia elettrica è riservata esclusivamente ai cittadini israeliani e se un palestinese si azzarda a mettere su quattro pannelli solari per le sue necessità, l’esercito israeliano glieli demolisce.

Lo scorso 17 marzo, Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e il presidente dell’Egitto Al-Sisi, hanno definitivamente approvato il progetto GREGY che consiste in un cavo sottomarino di 1700 Km tra l’Egitto e la Grecia per portare in Europa 3600 Mw di energie rinnovabili.4

L’idea di interconnettere Europa e Nord Africa  per sfruttare le potenzialità energetiche dei paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo non è più un progetto avveniristico, ma una cinica realtà che l’Europa spaccia come esempio di collaborazione ed emancipazione con e per le popolazioni nord africane.

E’ la stessa Europa che nel 2011 fece di tutto per destabilizzare la Libia e uccidere, insieme al suo dittatore, anche il suo sogno: irrigare il deserto per assicurare un futuro alla popolazione libica e a quelle limitrofe quando, esauritosi il petrolio, queste genti avrebbero potuto contare sull’agricoltura.

Questo progetto, per certi aspetti giudicato folle, fu osteggiato in tutti i modi dai paesi occidentali fino al punto di sostenere che le grandi tubazioni che portavano l’acqua al deserto, servissero per scopi militari e pertanto furono anche bombardate.

Oggi i deserti nord africani sono tornati ad essere quello che l’Occidente vuole che siano: un luogo suggestivo (c’è sempre il “brivido” di incontrare gli uomini blu!) ma inospitale,  dove invece della folle rivoluzione verde di Gheddafi, si può realizzare un altra rivoluzione verde, quella della transizione energetica che serve all’Europa.

In questo cambio di “destinazione d’uso” non c’è solo lo scarto utilitaristico di una visione rispetto ad un altra (cioè la messa a valore di un territorio in senso tecnologico-capitalistico), ma la concezione stessa del mondo, il suo definirsi secondo canoni selettivi e discriminanti, per cui tutto ciò che nasce e si sviluppa fuori dell’Occidente è cosa folle o sbagliata, a meno che torni utile ai suoi interessi.

Forse che scavare un tunnel sotto la Manica, costruire un ponte sullo stretto di Messina per farci passare un treno è meno folle che portare l’acqua al deserto? Riempire i mari di migliaia di Km di cavi elettrici per portare energia dall’Africa in Europa è meno folle che costruire acquedotti sotto la sabbia?

No, evidentemente non è il “tipo di follia” a fare la differenza, ma il fine speculativo che un progetto ha o non ha e la transizione energetica, nel suo complesso, è decisamente speculativa, classista e anche colonialista: “Una crescita verde che lascia una scia rosso sangue”.

Sarebbe ora di prenderne atto e agire di conseguenza contro questo macroscopico imbroglio.

 

1              https://znetwork.org/znetarticle/drc-bleeds-conflict-minerals-for-green-growth/

2       Ibidem

3              https://xlinks.co/morocco-uk-power-project/

4              https://www.eeas.europa.eu/delegations/egypt/joint-declaration-strategic-and-comprehensive-partnership- between-arab-republic-egypt-and-european_en?s=95

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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