Trapani, ponte verso il mondo arabo

Scoperta di analogie fra due culture diverse, ricostruendo il mio percorso educativo- al femminile

di Lella Vultaggio Di Marco   

(In memoria di Giovanni Vultaggio, mio padre. Per me ponte fra due culture: quella trapanese e quella algerina)   

Ritornare al passato, rivivere usanze, tradizioni, ritualità… non è sempre bisogno di conservazione , immobilismo esistenziale , cristallizzazione di ricordi ma può essere curiosità culturale, desiderio di capire, individuare contatti, relazioni , ibridazioni culturali, connessioni fra popoli.

Significa entrare nel passato per impossessarsi delle radici e prenderne la dignità.

Raccogliere l’eredità per andare oltre, mettersi in movimento.

Per noi che abbiamo la fortuna di avere radici solide culturalmente e affettivamente significa riscoprire REGOLE, LEGGI in un periodo storico DOMINATO DALL’ASSENZA DI LEGGI

significa entrare nella modernità e vivere il proprio tempo in divenire, senza relazioni o punti di riferimento “liquidi” alimentando anzi, le “passioni forti”

significa: non avere paura e non combattere lo straniero – l’altro da noi perché s/conosciuto.

 

A me interessa tutto questo. A me nata a Trapani, da padre trapanese cresciuto in Algeria da genitori emigrati agli inizi del Novecento, assieme a tanti altri trapanesi: operai contadini,artigiani pescatori di corallo.

La mia curiosità è continuamente stimolata dalle mie pratiche di vita che nell’ultimo decennio, per mie scelte personali, mi vedono a contatto con donne arabe provenienti dal nord Africa.

Fare lavoro sociale e culturale con loro per me è come rivedere mia mamma, le zie , le nonne e tutte le donne della mia infanzia che, da Trapani non si sonomai allontanate.

 

Fatiha, Hend, Zorha, Hajiba, Fousia, Fatema, Leila e le altre hanno rafforzato il mio amore per il mondo arabo con racconti, storie, abitudini, saperi, cibi. Con la loro cultura .

Il mio desiderio è dare un contributo alla conoscenza di una realtà come quella del MAGHREB che non è soltanto integralismo e diversità ma anche ricchezza di mondi che appartengono a storie comuni a noi, con l’obiettivo di aprire un dialogo interculturale fra i popoli delle due sponde del Mediterraneo. Quel Mare intenso di storia, attualmente noto per i tristi sbarchi, ma che deve tornare a essere officina di civiltà e culture.

Le mie fonti di conoscenza e di ricerca, sono le donne arabe incontrate nell’ultimo decennio a Bologna, ma anche nei miei viaggi in Egitto, Tunisia, Marocco, supportate da letture specifiche e contatti con docenti universitari, studiosi e ricercatrici del mondo arabo

Ma nella mia ricerca/riflessione c’è un punto di vista iniziale: la consapevolezza di essere come trapanese anche un po’ araba e avere – in quanto donna, affinità con tutti gli esseri umani di genere femminile.

COMINCIAMO DALLA LINGUA: esempi limitati quelli che affiorano nella mia memoria e nel ricordo della lingua madre … Ritrovo abitudini, scelte, riti, processi educativi e di relazioni, cultura

Quando nel IX secolo gli arabi sono arrivati in Sicilia, la struttura della “lingua siciliana” era già definita—con le sue diverse influenze culturali. Il latino era arrivato attraverso la lingua romanza, il greco sopravviveva negli istituti religiosi di stampo bizantino e nelle lingue di terra a NORD-EST.

Del resto oltre al commercio e la navigazione, l’economia principale era l’agricoltura. Infatti è proprio nelle zone rurali e fra il “popolino” che l’eredità lessicale degli arabi è ancora viva. L’espansione degli arabi fu lenta ma incisiva soprattutto nel tessuto economico e sociale , mentre la lingua collocatasi vicino alle espressioni greche e latine, cominciò a imporsi nelle zone agricole e anche come lingua letteraria.

Oggi nel dialetto trapanese molti vocaboli sono eredità degli arabi.

Amici dei miei genitori si chiamavano Fragalà (gioia di Allah), Vadalà, Badalà (servo di Allah), Zappalà (forte in Allah).

Mio nonno materno che era proprietario di GIARDINI per la coltivazione di agrumi veniva chiamato Don Peppe u siniaru cioè addetto alla senia che era la macchina – forse inventata dagli arabi, grandi idraulici – che serviva a estrarre l’acqua dal pozzo per irrigare i campi.

In casa c’era il cafìsu che serviva per misurare l’olio (da qaf+ z,) e nei giardini aveva costruito la gebbia (da già-bìa gabiya) cioè una vasca rettangolare per conservare l’acqua destinata alla irrigazione dei campi ma anche per abbeverare il bestiame.

La terra si indicava a tùminu cioè tomolo (misura agraria, da tumn) e per comprare altri “giardini” si andava dai senzàli (mediatori di terreni da sinzar).

Quando si doveva sgridare un contadino, che non assolveva al suo dovere, lo si chiamava jarrùsu cioè giovane effeminato (da arùsa, sposa): tanto per offenderlo nella virilità.

Mio nonno era un po’ manesco e irascibile: spesso gli giravano i cabbasisi (termine ormai di grande divulgazione grazie al commissario Montalbano inventato dallo scrittore siciliano Camilleri – per indicare i testicoli) simili nella forma ai grandi tuberi ovali di una pianta (habb ariz) e se litigava con qualcuno non era difficile che cominciasse a “cafuddare” (da kaff cioè palmo della mano).

Nei giardini intenso era il profumo di zagara, fiore dell’arancio (da zahr, fiore; dall’arabo ispanico azzahár) e a lui “mischinu” cioè poverino, meschino (dall’arabo misk+ n) per il pesante lavoro in campagna, quando è venuta la “vaddara” ovvero l’ernia (da adara) è riuscito a cadere in mezzo alle piante di “zabbar”, l’agave (da sabbara).

Mia nonna doveva lavare per terra o bagghiu spazio fra diverse case (da bahal) e buttava acqua “arrusciari” insomma arrusciava il pavimento. Racconto l’esito del consulto con il mio amico Rafia da Casablanca: in effetti in dialetto marocchino “arrusc” o “rusc” vuol dire innaffiare, sia per le piante sia più in generale buttare acqua, però in arabo classico sembra che questa parola non ci sia. Sarebbe interessante conoscere il percorso che tale parola ha fatto… potrebbe essere un prestito berbero entrato nell’arabo colloquiale in nord Africa e da lì passato in Sicilia? oppure potrebbe aver fatto il percorso inverso: dal siciliano è entrato nell’arabo popolare…

La nonna aveva il “pollice verde” e amava ogni tipo di piante, seminava bulbi e semi nelle “casirie” (vaso per piante in terracotta, da hasira). Era molto brava quando accendeva il forno a legna per il pane, a preparare per noi bambini il “cabbucio” (Karbusa: specie di pizzetta molto morbida condita con olio sale origano e aglio) o la “cuccìa” (frumento cotto condito con sale olio o crema di ricotta, da kisiya) per il 13 dicembre festa di Santa Lucia.

Come da tradizione.

Quando raccoglieva frutta o verdura usava la “coffa”, grande sporta in tessuto (quffa).

Mia madre sferruzzava con la lana e aveva il problema che con il caldo si “camulisse” (si bucasse, mangiata dalla “camula”, da qamal cioè il tarlo). Infatti spesso trovava maglioni “camuluti” ma il suo bucato era fantastico. Le lenzuola profumate emanavano una luce azzurrina. Li sciacquava con una polvere detta “azzolo” (da azul cioè azzurro).

Lei non amava molti convenevoli che chiamava “salamelecchi” (da salam’ alaik) però quando usciva da casa era sempre elegantissima e ingioiellata , insomma si “azzizzava” (da aziz – prezioso) e a noi bambini indicava i luoghi dove era imprudente fermarsi, come i “catiti” (quad’id, abitati dai capi-rione). La cosa non mi è stata mai molto chiara, io ci vedevo soltanto donne e bambini in ambienti degradati e maleodoranti; forse il riferimento-pregiudizio era rispetto a una tradizione poco nobile, di quei luoghi.

Mangiavamo:

“babbaluci” cioè lumachine di terra (dall’arabo babush, che indicava le scarpe da donna con la punta ricurva verso l’alto, difatti le pantofole di pezza in siciliano sono chiamate “babuscie”);

“carrubbe” cioè frutti del carrubo (da harrub) bolliti per fare sciroppo per la tosse;

cassata, torta tipica siciliana con ricotta (da qashata);

“giuggiulena” ossia seme di sesamo (da giulgiulan) sul pane e nei biscotti.

Se andavamo in campagna bevevamo alla favara ovvero alla sorgente d’acqua (da “fàra”, gorgoglio che emette l’acqua che sgorga dalla fonte).

Tra i condimenti “zaffarana” cioè zafferano (dall’arabo-ispanico azza´farán) era d’obbligo.

Lo zio Gaspare aveva amici a Pantelleria che puntualmente, quando era la stagione adatta, facevano arrivare cassette di “zibbibbu”, un tipo di uva a grossi chicchi (da zab+ b, “uva passita”) ed enormi grappoli di uva passa, “passuluni”. Tale zio era molto generoso ma non dinamico come suo fratello – cioè mio nonno – e così veniva criticato perché quando camminava se ne andava “catammari catammari” (termine dall’origine incerta ma secondo me deve avere una qualche attinenza con tammar arabo. venditore di datteri dalla camminata un po’ rozza, di uno che si ferma di qua e di là per cercare i clienti che vogliono vedere e assaggiare la sua mercanzia).

Quando era la stagione della pesca del tonno, mio padre all’invito del RAIS della tonnara San Giuliano ci portava ad assistere alla mattanza, fra i canti propiziatori intonati dal capo tonnara (capo-rais) con grande patos all’indicazione della camera della morte.

E quando io – giovinetta – andavo a scuola da sola, mia madre ogni mattina mi diceva stai attenta se qualcuno ti “talìa” da taliàri cioè guardare, osservare (dall’arabo-ispanico attaláya). Se le chiedevo perché rispondeva “gli uomini pensano solo una cosa ma a loro deve rimanere soltanto la taliata” (lo sguardo). A volte chiedevo di andare al cinema con le mie amiche. Assolutamente no. Io insistevo: Era “ammàtula” (arabo batil) inutilmente, senza risultato alcuno.

In estate andavamo in vacanza nella campagna di mio zio, noto latifondista dell’epoca, a Marausa (arabo “Mara u zack” che significa “pascolo povero” o pastura scarsa). Probabilmente quella zona è stata abitata dai primi pastori arabi. E in quel posto mio fratello poteva costruirsi il suo giocattolo preferito, la “zzotta” cioè frusta (soth) per andare a caccia di lucertole.

Di mio padre ricordo le discussioni con il pescivendolo che invece della carne pregiata del tonno gli voleva rifilare la “surra” (surrah, la pancia del pesce). E quando uno non voleva studiare o non capiva, lo apostrofava come “sceccu” (esek: somaro, asinello). E quando si arrabbiava recitava una strana filastrocca dove Maometto faceva rima con “mufulettu” (pane molto morbido però dall’etimo francese); probabilmente l’aveva imparata durante il soggiorno in Algeria, fra gli arabi francofoni e altri immigrati trapanesi.

Mi scuso per eventuali sviste o errori nel mio viaggio a ritroso attraverso il “lessico familiare”: nessuna pretesa scientifica, soltanto una testimonianza. Sto confrontando i miei ricordi lessicali con fonti orali, con alcuni testi specialistici cartacei e digitali. E mi dispiace sottolineare come non ci siano ancora studi approfonditi sulla lingua siciliana, conosciuti oltre i confini del mondo accademico specialistico o del campo amatoriale di chi vuole conservare le TRADIZIONI.

 

Indicazioni bibliografiche e considerazioni sul dialetto siciliano
Vocabolario etimologico siciliano, Volume 1
Lessici siciliani
Vocabolario etimologico siciliano
Autori
Alberto Vàrvaro, Rosanna Sornicola
Editore; Centro di studi filologici e linguistici siciliani
Provenienza dell’originale la University of Michigan
Digitalizzato 16 gen 2007

A mio avviso ogni dialetto è insostituibile e intraducibile. Usare parole dialettali è andare subito al centro della VERITA’.

E’ come attivare metaforicamente un bisturi che fa percorrere la storia. Insegnare e parlare il dialetto è andare controcorrente. Come per contrastare la massificazione lessicale e linguistica imposta dai media e rivendicare una particolarità identitaria.

Indubbiamente nel SICILIANU l’arabo è soltanto una delle componenti linguistiche lasciate dai diversi dominatori che si sono succeduti nei secoli. Pur essendo una lingua indoeuropea viene classificato tra i dialetti italiani meridionali estremi.
Vari filologi e l’organizzazione Ethnologue lo descrivono come «abbastanza distinto dall’italiano così particolare, tipico tanto da poter essere considerato un idioma separato. Il che risulta ovvio da qualsiasi analisi dei sistemi fonologici, morfologici e sintattici, oltre che per il lessico».
Peraltro il siciliano non è una lingua derivata dall’italiano, ma – al pari di questo – direttamente dal latino, e costituì la prima lingua letteraria italiana. Anche l’Unesco riconosce al siciliano lo status di lingua madre, motivo per cui la maggior parte dei siciliani è descritta come bilingue, e lo inserisce tra le lingue europee non a rischio di estinzione” (fonte web)

Redazione
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