David Lifodi: La vita agra dei minatori di Ribolla

Lo chiamano ancora il “pozzo della morte” quello dove il 4 maggio 1954 perirono oltre 40 minatori. Ribolla, paese della Maremmagrossetana, fu segnata da una delle più gravi sciagure minerarie della storia italiana, ma rappresentò anche un primo embrione di solidarietà e auto-organizzazione operaia che ancora oggi si tramanda. Lungo la strada principale che attraversa il paese si riconoscono ancora quelle che un tempo erano le casette dei minatori. Storie di lavoro, di emigrazione dal sud Italia, fatica e sudore si intrecciano fra loro nella violenta esplosione di grisou a 354 metri di profondità che sorprende i minatori al lavoro nel pozzo Camorra. A Ribolla come nei paesi che la circondano (Montemassi, Boccheggiano, Giuncarico) tra il 1835 e i primi anni del nuovo secolo vengono scoperti giacimenti di lignite e pirite, che produce acido solforico, la cui richiesta aumentò a dismisura con la prima guerra mondiale per la necessità di avere materiali esplosivi. La proprietà delle miniere di Ribolla viene così acquisita dalla Société generale des lignites en Italie, prima di passare, nel 1924, sotto l’amministrazione dell’italiana Società anonima delle miniere di Montecatini che, con il trascorrere degli anni, finisce per assumere la gestione della vita sociale del paese. Nuovi posti di lavoro, il cinema-teatro e la biblioteca, certo, ma anche erogazione a piacimento dell’acqua, distribuzione razionata della legna da bruciare per il fuoco e controllo delle ore di svago e divertimento: i risultati della squadra di calcio locale saranno legati all’andamento economico e alla volontà di gestione dell’azienda, per cui le vittorie erano celebrate come successi della Montecatini più che del piccolo villaggio minerario. Il bastone e la carota, insomma, in una storia che per certi aspetti non è così differente da quella attuale di una qualsiasi città o paese del sud del mondo o delle tante periferie urbane d’Europa fondate sullo sfruttamento intensivo del territorio e delle persone a opera delle moderne transnazionali. La Montecatini era chiamata la padrona.

 “L’acqua non c’è. Anche quella è della Montecatini. Ogni giorno la Montecatini manda in paese la botte, ma non ci toccano più di due brocche. Due brocche a famiglia per cucinare, pulire, lavarsi, bere. Gli impiegati, però, loro che sottoterra non scendono mai, l’acqua in casa ce l’hanno, corrente e pulita. E’ l’acqua che ha portato giù la Montecatini”. Un elettricista in miniera ricorda che la Montecatini non dava niente gratis: ti offriva determinati servizi, ma poi te li scalava dallo stipendio a fine mese, un esempio era il libretto per fare la spesa allo spaccio. “Tutto quello che c’era a Ribolla c’era perché c’era la Montecatini”, racconta.

In seguito alla guerra d’Etiopia del 1936 la Montecatini raggiunge il massimo del profitto grazie all’aumento dell’estrazione di lignite, considerata indispensabile con le sanzioni e dunque l’esclusione delle importazioni di carbone dall’estero e dunque la politica autarchica del regime fascista, del quale diventa una fra i principali interlocutori. Poi la lenta dismissione e i primi conflitti sindacali.

Fra il 1947 e il 1951 la Montecatini inizia a trasferire i lavoratori in altre località della zona (una sorta di delocalizzazione ante-litteram), poi interrompe le relazioni sindacali e infine tutti i minatori maremmani entrano in sciopero contro il cottimo individuale. Le condizioni lavorative peggiorano a vista d’occhio fino alle 8,20 del 4 maggio 1954, quando un’intera squadra resta sepolta sotto lo scoppio di due esplosioni. Scrive Luciano Bianciardi ne “La vita agra”: “Ma la mattina del 3 la festa era finita, e allora sotto a levare lignite. Si erano riposati abbastanza o no, questi pelandroni? Eppure il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era pericoloso scendere,  bisognava aspettare altre ventiquattr’ore, far tirare l’aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo. Insomma, pur di non lavorare qualunque pretesto era buono… . La mattina del giorno dopo la miniera esplose”. I ricordi delle vedove e di quelli che allora erano poco più che bambini raccontano della distesa di bare condotte dentro il cinema, le medaglie al valore concesse alle famiglie dei morti sul lavoro letteralmente gettate in faccia agli stessi dirigenti della Montecatini, costretti a rimanere bloccati in casa con le finestre chiuse mentre la gente tirava i sassi in una rivendicazione spontanea di quel potere operaio che anni dopo avrebbe acquisito una certa centralità nell’Italia che usciva definitivamente dal dopoguerra.

Ai funerali c’era tutta Ribolla, tutta Montemassi, tutta Roccatederighi, tutta Gavorrano e anche gli operai di Piombino: ai lamenti della gente della Maremma si univano le imprecazioni in dialetto meridionale. Molti minatori venivano dalla Sicilia e dalla Calabria, soprattutto dalla provincia di Cosenza, perché da quelle parti non c’era lavoro (ancora oggi, come un tempo, ricorda la moglie di un minatore, dalla Calabria arriva a Ribolla un camion carico dei frutti della terra con arance, castagne e pane: “Sono tanti i figli della Calabria che ancora vivono a Ribolla”). Alcuni sindacalisti filopadronali (allora come oggi) furono sonoramente fischiati, soprattutto quello della Uil, colpevole di aver accettato la nuova tecnica di franamento che avrebbe poi contribuito a creare le sacche di grisou da cui sarebbe derivata l’esplosione. Solo la presenza e il carisma della Cgil – c’era Di Vittorio – riuscirono a evitare che la situazione degenerasse.

La Montecatini aveva deciso di chiudere le miniere di Ribolla perché ormai la lignite non serviva più, per questo voleva risparmiare. Di conseguenza non servivano più a niente nemmeno i lavoratori, l’intero paese era divenuto una palla al piede e poteva anche essere dismesso. Semplicemente, i minatori non erano più funzionali al sistema di produzione della Montecatini. Dopo un primo mandato di cattura per concorso in disastro e omicidio colposo nei confronti di alcuni capi della miniera il 14 giugno 1955, il processo per la strage di Ribolla nel 1958 si concluse con una sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto.

Nonostante il dramma, i morti, il lavoro duro e pesante, Ribolla e la miniera non devono essere identificate solo con la Montecatini. Fra i lavoratori traspare un certo orgoglio nell’indossare i “pannacci”, gli abiti da lavoro chiamati così per il fatto che erano neri, logori, e quando le mogli li lavavano “veniva un fiume d’acqua scuro come il carbone”. Il paese – ammettono i minatori che per loro fortuna non erano nel pozzo Camorra quel 4 maggio 1954 – senza la miniera avrebbe fatto la fame e alcuni giurano che ci tornerebbero anche domani, commuovendosi al ricordo dei pranzi condivisi in un andito di galleria e delle celebrazioni per la festa di santa Barbara, “la nostra Santa, per noi gente della miniera”.

“Villaggio sperduto in una breve pianura ondulata sotto le colline di Montemassi e Roccastrada”, hanno scritto Luciano Bianciardi e Carlo Cassola ne “I minatori della Maremma” (1956): Ribolla fu, come il Vajont, un evento purtroppo atteso e per questo ancor più drammatico, prevedibile e al tempo stesso ignorato in primo luogo dalla Montecatini.

Ribolla però non dimentica: in occasione dei 50 anni dalla tragedia, nel 2004, è stato diffuso “La miniera a memoria”, su iniziativa del Comune di Roccastrada (di cui Ribolla è una frazione). Da qui ho tratto i pensieri virgolettati dei testimoni, delle vedove e di tutti coloro che vissero quei giorni affinché la memoria non ceda all’oblio. Lo dobbiamo non solo ai minatori di Ribolla, ma anche a tutti i morti sul lavoro di ieri e di oggi.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

3 commenti

  • Grandioso post… Nulla è cambiato, tutto è peggiorato.

  • Bellissimo post…c’è pure Bianciardi e La Vita Agra

  • da VITO TOTIRE
    Ribolla: ricordiamo la strage dei minatori del 4 maggio 1954
    Per un coordinamento dal “basso” tra le comunità locali colpite dalle stragi del lavoro nocivo

    Una delle importanti iniziative della «Bottega del barbieri» è quella delle “scor/date” che ha la funzione di contrastare le amnesie politiche, sempre riprovevoli; a differenza di quelle su base organica o psicologica che sconfinano nel fisiologico (vecchiaia) o in meccanismi di rimozione che possono anche essere (non sempre) utile autodifesa. La “scordata” del 4 maggio 1954 è forse diversa e ancora più sepolta nella memoria, rispetto ad altre; in particolare per chi ha vissuto lontano dalla Toscana e da Grosseto. Un evento che va ripescato da quella forma di oblio che offende la coscienza di chi ha a cuore la giustizia e il rifiuto dello sfruttamento dell’uomo sull’uomon.
    In realtà nella coriacea “Bottega del Barbieri” il tragico evento non è affatto sconosciuto, essendo stato richiamato da un chiaro articolo di Davide Lifodi del 29.9.2010.
    Le amnesie del passato gettano peraltro una sinistra ipoteca anche sul futuro approfondendo il solco della triste tendenza a “dimenticare”: la strage di Ribolla e quella di Modugno (Bari) il cui quinto anniversario (tutti i precedenti sono stati sempre super-rimossi) ricade il 24 luglio 2020.
    La strage di Ribolla (frazione del comune di Roccastrada, provincia di Grosseto) si consumò nel pozzo nominato Camorra, nelle viscere di una terra depredata dalla lignite prodotta dalla natura nei secoli. Pur consumatasi sotto terra fu una strage chiara come il sole; non solo prevedibile ma ampiamente prevista. Molti sapevano che dopo due giorni di festa e di pausa lavorativa il grisou si sarebbe accumulato, salendo oltre quella concentrazione nell’aria che rende materialmente possibile l’esplosione. Dalle cronache dell’epoca emergono alcune ipotesi sulla dinamica della strage. Scartata assolutamente quella dell’imprevedibilità del rischio, sono registrate due “spiegazioni” :

    – o le prove sulla concentrazione del grisou non sono state fatte (o eseguite, per incuria, in maniera errata); torna alla mente la strage di Ravenna del 13 marzo 1987, preceduta da una dichiarazione di ambiente gas-free fatta da un consulente della nave Mecnavi che dette il via libera all’uso della fiamma ossidrica, dunque, in rapida successione, alla strage. I disperati testimoni sopravvissuti alla strage di Ribolla si sono posti alcune domande: lo strumento tecnico per la misura (lampada Davis) esisteva, non fu usato? o usato “male” come a Ravenna? più anticamente i minatori usavano i canarini per percepire quel che il loro olfatto non era in grado di registrare. C’è memoria, anche molto recente, di questo (e purtroppo di scoppi di grisou, seppure meno mortiferi, anche in E-R, appennino bolognese 2006 ). Che l’ambiente nel pozzo Camorra sia stato monitorato o no , la sintesi del ragionamento-interrogativo è quella proposta da Amadeo Bordiga e da Oscar (le notizie derivano da una ricostruzione a cura di Laura Maggi che, a sua volta, attinge a documenti messi a disposizione da Alessandro Pellagatta). La sintesi dunque: la Montecatini e il sistema capitalistico grondano di sangue operaio. Attorno alla strage è disperazione. Un articolo di Gianluca Monastra sul settimanale di «Repubblica» (19 luglio 2019) richiama alcune fonti fondamentali («I minatori della Maremma» di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola ) e alcuni elementi del clima e delle condizioni sociali dell’epoca: le malattie (anche prima della strage (silicosi, pleuriti), la provenienza territoriale dei lavoratori (molti immigrati dalla Calabria e dalla Sicilia – non dall’Africa o dall’est Europa come sarebbe oggi – ma la “contraddizione sociale” è la stessa), il clima psicologico (si respirava polvere e paura), lo strazio ai funerali (le vedove piangevano in dialetti diversi), lo shock degli operai superstiti che preferirono emigrare verso i lavori di traforo del Monte Bianco, per cercare di dimenticare.
    Pare che la Regione Toscana abbia preannunciato una iniziativa: rendere fisso e formale il ricordo della strage, entro la fine della legislatura. Un po’ tardi ricordarsi di questo nel 2019; ma ogni polemica, di fronte al ricordo della strage, sarebbe fuori luogo.
    Anche in vista dell’anniversario della strage di Modugno (produzione di fuochi artificiali, in prevalenza, per la festa del “santo”!) proponiamo a tutte le comunità locali colpite storicamente dalle stragi del lavoro nocivo: diamoci un coordinamento dal basso non per cerimonie, esibizione di gonfaloni o esercitazioni retoriche ma per creare sinergie e agire per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro. Un coordinamento agile, per via informatica.
    Pensiamo (UN PROMEMORIA TUTT’ALTRO CHE ESAUSTIVO) e restando in Europa: Ribolla, Marcinelle (Belgio), Bologna (amianto Ogr delle ferrovie e Casaralta), Viareggio (strage ferroviaria), Casale Monferrato (Eternit), Ravenna (Mecnavi e amianto Enichem), Modugno (pirotecnica Bruscella), Torino (Tyssenkupp), Sesto San Giovanni (amianto Breda) ma anche Genova (ponte Morandi) e i siti colpiti da eventi sismici che sono anch’essi vittima di una organizzazione del lavoro e della produzione che non ha tenuto conto della sicurezza. Senza dimenticare, infine, i siti teatro di stragi di stragi da coronavirus di lavoratori della sanità e di persone anziane (dalla Val Seriana al Pio Albergo Trivulzio), TUTTI vittime di omissione delle misure di prevenzione.
    Il rischio è differente nei diversi eventi storici (grisou o coronavirus) ma la malattia è comune, non si cura col vaccino, si cura affermando il primato del diritto alla salute e alla vita prima del profitto.
    Oggi 4 maggio – dopo tanta deprivazione sociale e sensoriale da coronavirus – UN RICORDO, UN GESTO, UN MINUTO DI SILENZIO PER I 43 MINATORI UCCCISI A RIBOLLA.
    Vito Totire, «Rete per l’ecologia sociale»

Rispondi a anoipiace Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *