La Città – 6

di Mauro Antonio Miglieruolo

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(segue da “La Città – 5”, mercoledì 26 luglio)

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Senza Tempo IV

Nell’abissale distanza che mi separa dalla vecchia vita, ora che sono al sicuro al primo piano di una vetusta palazzina in stile rustico; ora che ho fatto capolino dall’acqua e mi sono guadagnato il mio posto al sole: una monocamera, due euro di pensione e la possibilità, oltre che del pane quotidiano, di acquistare anche un po’ di companatico, ora le parole fluiscono. Vengono. Spingono. Si impongono. Sono vigorose, convincenti, pervasive. Hanno un loro scopo e lo perseguono. Sperano di poter illustrare lo schifo che le ha prodotte, l’iniquità che le rende necessarie. Ambiscono di mettervi sull’avviso, di togliervi dalle illusioni. Per come i professori, gli esperti e i conduttori televisivi ve la raccontano, alle illusioni è certo che vi aggrappereste; per come la racconto io, vi sarà impossibile. Io sono davanti a questo Orecchio Quantico per svergognare con le mie parola l’infamia della Città che ci ospita, per tracciare il bilancio dei miei errori e degli orrori che mi son lasciato alle spalle; sono qui per, attraverso questo bilancio, nello stesso tempo redimermi e redimervi.

 

La Città, eterna, probabilmente ascolta quel che dico e sorride (magari irride). Ride di me e delle mie velleità. Ho il sospetto che mi lasci fare in quanto esecutore inconsapevole delle sue volontà. Probabilmente non faccio altro che quel che lei vuole che faccia, non sono altro quel che lei vuole che io sia: la sua voce, la voce del ventre oscuro d’una metropoli sconfinata, del suo oscuro affannarsi, del suo inesorabile, spietato precipitarci verso la rovina. Non certo, come vorrei, il primo granello di sabbia della valanga che travolgerà (ma quando?) tutto questo disdoro.

 

Dentro la Città Eterna nulla si muove se non per andare incontro alla morte. Tutto ciò che alla Città dà vita, dà anche vita alla morte.

 

NOVE

Sbagliavo.

Lo capii dopo alcuni mesi ch’ero uscito di prigione. Ci ero entrato subito dopo aver cercato di cambiare il centone. Falso. Fasullo come colei che me lo aveva dato. Lo scoprii non appena tentai di cambiarlo. Il tizio dietro il banco, faccia da poker, non disse nulla. Mi pregò di aspettare, aveva finito i biglietti di piccolo taglio. Tempo cinque minuti mi ero visto piombare addosso una dozzina di energumeni in divisa. Le botte che presi, non appena dentro, per indurmi a confessare dove l’avessi preso o chi me l’aveva dato! Confessa, stronzo! Confessa o ti rompiamo tutte le ossa! Ma che potevo confessare? Che avevo fatto una marchetta e mi avevano rifilato un bidone? Confessai di averli rubati e amen!

Il Giudice a cui fui affidato, ancora pieno di lividi e dolorante, capì meglio dei poliziotti la sostanza di quel che era effettivamente successo. Ero troppo malmesso per essere un malvivente. Si capiva come fosse incappato in qualcosa troppo grande per me. Si impietosì e mi diedi il minimo. La periodica amnistia con cui il governo liberava le carceri che riempiva di poveracci con i più assurdi pretesti, ben presto mi rimise in strada, più pezzente di quando ne ero stato prelevato. Ma per punirmi ulteriormente, non per avvantaggiarmi. Prima almeno, mangiavo, avevo una cella dove dormire. Dopo, in quanto pregiudicato, neppure più l’alloggio e il pane quotidiano diventato un terno al lotto.

Mi adattai a lavorare anche in cambio di solo un pasto. Né colazione, tantomeno cena. Mi piazzavo nei posti di raccolta, un cartello sul petto (Lavoro in Cambio del Mangiare) e aspettavo. A volte il lavoro veniva, a volte no. Quando non veniva era dura, impiegavo un sacco a prendere sonno nelle sale d’attesa delle stazioni o dentro al dormitorio nel quale a volte riuscivo a farmi ospitare. Fui costretto a adattarmi a lavoretti poco puliti, manovalanza al livello più basso (non sei adatto, sostenevano scuotendo la testa), tipo riciclare oggetti rubati (Signore, le farebbe comodo uno stimolatore sensoriale?), far da palo ai ladruncoli (quelli importanti non mi volevano), ripulire del portafogli gli ubriachi addormentati; e simili.

Avevano ragione. Non ero adatto. A me non interessava davvero guadagnare. Neppure vivere, mio interessava. Quel che veramente volevo era chiudermi in un buco di culo qualsiasi e, al buio, compatirmi. Come avevo fatto a ridurmi in quello stato? E per cosa? Per una tarantola pronta a riempirmi del suo veleno mortale!

Pensando a lei trascorrevo notti d’incubo, inseguendo fantasmi, inabile a prendere sonno.

Ma ho detto che mi ero sbagliato, che le cose andarono diversamente da come mi ero aspettato (andarono peggio).

Infatti durante una di quelle rare volte in cui riuscii a infilarmi di soppiatto in un Anfiteatro Sensoriale, l’unico ambiente protetto dove si potesse chiudere gli occhi senza timore (il pericolo della Forza, i teppisti in cerca di poveracci da ridurre in fin di vita, i cacciatori d’organi che imperversavano ecc. ecc.); in una di quella rare notti mi riuscì di rivederla.

Per godere le prestazioni degli Anfiteatri operavo in questo modo. Lasciavo che la poltrona sistemasse i suoi sensori dove voleva, che l’inserviente di fila controllasse che tutti li avessero e appena lui si allontanava mi affrettavo a togliermeli di dosso, ad allungare le gambe e iniziavo a russare.

Non sempre andava bene. A volte l’inserviente di fila era un pignolo, controllava l’insieme dei biglietti d’entrata e delle presenza effettive. Se i conti non tornavano si metteva a cercare tra le file i tipi più dimessi, li tirava fuori dalla stasi e chiedeva di vedere lo scontrino. Ne seguivano scene memorabili che spesso finivano in rissa e nel licenziamento del controllore (per questo i più furbi evitavano di approfondire); quando però trovavano un portoghese erano portati in palmo di mano, finivano sui telegiornali e magari si beccavano un premio. Era capitato anche a me una volta d’essere preso in flagrante, senza gravi conseguenze per fortuna. Gli agenti venuti a prelevarmi s’erano divertiti a manganellarmi un po’ e lasciato andare.

Quella fatale notte in cui la rividi l’inserviente indugiò troppo nell’effettuare i controlli e la Registrazione Sensoriale m’afferrò prima che facessi in tempo a togliermi i sensori. M’afferrò e mi scagliò nel peggiore degli incubi. In un percorso che riassumeva il peggio della mia vita.

Diavolo! Fu come prendere un milione di pugni tutt’insieme, un trauma psichico indescrivibile. Di punto in bianco fui messo a confronto con la colossale disavventura iniziata in Città e conclusasi sul molo. Passo passo fui condotto per mano attraverso le varie tappe, dal tentato suicidio alle prime botte;  e poi oltre, fino agli avvenimenti più recenti. Cominciò come doveva, con la vecchina che mi randellava, la donna che si sporgeva dal finestrino e offriva le sue sporche cinquanta, il lungo viaggio in macchina, il pestaggio, la scena di sesso con i due gorilla ed a seguire, dopo l’intervallo di una didascalia, l’avventura con la biondona della casa navigante, il calvario dell’ultimo incontro con Madonna, lei che si dispiaceva, i poliziotti che mi pestavano, per concludere con il Giudice largo di manica. Tutto. Tutto ripercorso in tempo reale, riassunto in un Sensoriale da brivido che non nascondeva niente, nessuna turpitudine. Né dolore, non degradazione. Proprio tutto. Incluso l’immaginario seguito dal quale la fortuna, una volta tanto benigna, mi aveva escluso.

Il ruolo di protagonista dell’atto conclusivo, apoteosi infernale, toccò a un attore attirato dall’imperitura trappola del bisogno. Un morto di fame sconosciuto, uno dei tanti, con il demerito di saper mettere in fila due battute senza balbettare. La sua immagine era stata manipolata elettronicamente in modo da somigliarmi. Pessimo trucco, ad opera pessimi tecnici. Impossibile per una impresa del genere trovarne di migliori. Nella ipperrealistica finzione l’Io-finto e Madonna si incontravano, apparentemente per una spiegazione definitiva, per la terza e ultima volta. Nella ricostruzione lui dice, pieno di rancore è stata tutta una commedia, anche la seconda volta tutto contraffatto, la stanza  zeppa di microcamere e sensori di registrazione, vero? Vero che mi aspettavate? E Madonna, con la pacatezza che la rassegnazione (e un pizzico di cinismo) rende possibile che ci vuoi fare? così vanno le cose oggi, in questo modo si tira su pane e companatico. Recitando dalla mattina alla sera. Recita anche chi non vuole recitare. Anche noi adesso che confessiamo la nostra reciproca verità, anche noi recitiamo. Tutta una gran recita, la vita. Tutto un unico gigantesco sogno angoscioso. Con l’inevitabile sciagurato epilogo.

 Lui non comprende cosa Modonna voglia dire. Non lo comprende finché non è troppo tardi. Per intanto è fermo alla ridotta realtà di quello che gli hanno già fatto, crudele ma non illimitato (il peggio deve ancora venire). È stato profanato, umiliato, raggirato per un insulso Sensoriale Sadomaso e il prezzo che ha pagato affinché potesse essere registrato gli sembra troppo alto per i guadagni che la diffusione promette di ottenere. Cosicché insiste nelle lamentele, incapace di prendere le distanze dal suo ruolo di vittima. Dice, preoccupato dall’inessenziale non godevi mentre lo facevamo, fingevi soltanto. Che bisogno avevi di rifilarmi quel biglietto falso? Seiunagranfigliadimiggnotta! Ma lei, che conosce l’essenziale, non si fa fuorviare, un po’ continua a confessarsi, un po’ tenta di fargli capire non dire stronzate, non mi avrebbero scelto fossi stata una qualsiasi simulatrice? Che sarebbe rimasto impresso sui sensori, altrimenti? A chi vuoi che interessino le prestazioni di una puttanona sfiancata dal mestiere? No, guarda io sono viziosa sul serio, a me quella roba piace, anche se mi duole il piacere che ne traggo. Ho anche io un po’ di cuore, cosa credi? E allora, se posso, ogni tanto, compio una buona azione…

E lui deficiente fino in fondo disgraziata, quale buona azione? Neanche immagini quante ne abbia prese per quella tua buona azione! È al punto di convincere Madonna a desistere, impietosita da tanta dabbenaggine. Quell’attore non è una vittima, è una supervittima. Una iperbole di vittima. Non vale prendersela con uno come lui! Tuttavia bisogna andare fino in fondo, non c’è scampo. Madonna lo capisce, smette di improvvisare, smette di abbandonarsi al pietismo, un poco va bene, migliora il Sensoriale, attenta però a non esagerare… Non esagera. Solo che, nel fornire le ultime tragiche spiegazioni, inserisce nel Sensoriale il messaggio che le sta a cuore. Un messaggio che arriva direttamente al mio cuore. Ma non capisci? dice. Come fai a non capire! Era per tenerlo lontano, per darti una possibilità, ecco perché. E invece tu, stupido, sei tornato per mettere la testa nel cappio! Adesso è troppo tardi. Forse un minuto fa potevi ancora salvarti, ma giunti a questo punto è quasi impossibile. Oddio, che rincoglionito! Ancora con quell’espressione interrogativa in volto? Ancora non ti decidi a tagliare la corda? Qui si fa sul serio, capisci? qui si rompono le ossa, si straziano le carni. La gente vuol sentire cosa si prova venendo torturati. Essendo violentati e uccisi. Si diverte, ride, alcuni godono fisicamente. Il buon concittadino medio e tipico della civile convivenza vuole provare tutte le possibilità combinatorie tra sesso e tormento. Tra dolore e piacere. È un committente dispotico e benevolo, quello. Un committente generoso. Non bada a spese quando sono in ballo i suoi piaceri. È disposto a pagare, pagare, pagare, pagare sempre, piccole somme che compongono le grandi! L’ingranaggio in cui ambedue siamo coinvolti è gigantesco, inarrestabile… ma o tu o un altro, qualcuno è sicuro ci rimetterà le penne!

Così dicendo, mentre mi affliggo per il lui nello spazio virtuale del Sensoriale, un lui che avrei potuto essere io, entrano due no tre tizi, due li conosco, armati di mazze di ferro e cominciano a colpire.

Non mi dilungo oltre. Solo che il sosia ci mise un sacco a morire. Una brutta fine, la sua. La fine che mi era destinata ritorta contro un secondo innocente. Ed io respirando sollevato, mors tua vita mea, fingevo persino di compatirlo. Orribile.

Il Sensoriale terminò, le mie ore di sonno svanirono (non solo non avevo dormito, ma neppure riposato) e fui costretto ad abbandonare la protezione del locale. Mi sudavano le mani, ma faceva male la schiena, non un dente che fosse disposto a perdonarmi.

Tremavo tutto.

Non tremavo più però quando imboccai la strada per il molo.

DIECI

Il mare mugghiava ferocemente, trattenuto a malapena dalle deboli barriere elettroniche poste a protezione della piattaforma e delle barche all’ancoraggio (ce n’era più d’una). Gli spruzzi e il rumore orrendo comunque arrivavano ugualmente, ottenendo di rendere ancora più cupo il tetro della notte. Avvertivo sulla pelle il vento umido delle montagne d’acqua vaporizzate. Nelle orecchie il suono funebre d’una musica lontana. Il cielo senza stelle non prometteva nulla di buono. Era la notte giusta per vivere in una tragedia. La mia personale tragedia. Peccato che quella appena rivissuta rischiasse di apparire sempre più, tolta la tara della superviolenza, con il suo seguito di equivoci e sostituzioni di persona, una commedia francese fin de siècle.

La casa galleggiante non era più la stessa (anche io). Nuova, bella comoda, al passo con quelle rutilanti pieni di luci (su una di esse ballavano) che le stavano accanto, poneva il proprietario sotto una nuova luce. Non un vecchio sdentato mio simile, ma un vero e proprio Datore di Miseria, uno che si poteva permettere molto e se non se lo permetteva era perché aveva qualcosa da dar da bere al prossimo. Evidentemente non occorreva più desse da bere, non a me, certamente. Lo scemo era stato abbindolato, manipolato spremuto e il Datore di Miseria non era più costretto a far mostra, a sua volta, di incontenibile miseria.

Sono finalmente uscito dal Sensoriale, valutai. Questa volta non ci sto più. Sono qui a titolo personale. Non perché portato trascinato costretto. Dopo tanto tempo potevo vivere la mia vita nel pieno dell’imprevedibilità e personalizzazione che l’autentico comporta.

Forse…

L’amico, lui dormiva. Accanto festeggiavano e lui dormiva. Lo chiamai un paio di volte, la prima piano, la seconda con quanto fiato avevo in corpo. Qua e là sull’acqua si accesero le luci di coloro che, come il Datore di Miseria, che si erano abbandonati all’abbraccio del sonno. Una voce irata protestò. L’amico si affacciò sulla murata e mi rivolse in impietoso cenno di far silenzio.

– Che ti prende? – bofonchiò ancora insonnolito. – Non ti fai vedere per un anno e poi capiti d’improvviso prima dell’alba e pretendi ti siano immediatamente aperte le porte!

– Vedo che hai fatto i soldi, – risposi. – O li hai sempre avuti?

– Zitto! Cazzodiundio. Non mi svegliare i vicini. È gente che conta.

– E io? Io conto?

– Dai, non fare lo stronzo, entra…

Fece scorrere lo sbarramento metallico che impediva l’accesso alla passarella e potei entrare. Niente puzza dentro, nessun segno di rovina. Neppure lusso però. Il giusto per un tenore di vita decoroso, anche se acquisito indecorosamente.

– Te la passi bene, per essere il bastardo che sei! – commentai.

Lo dissi in tono neutro, tranquillo, quasi indifferente. Volli che così fosse e ci riuscii. Era un fatto quel commento, non un giudizio. Gli era connaturata la bastardaggine. Perciò riuscii a dirglielo nel modo giusto, per offenderlo e nel contempo impedirgli di reagire.

Se lo aspettava. Incassò bene. Sedette sulla cuccetta, aggiustandosi come poteva la camicia nei pantaloni. E rispose:

– Non metterla giù tanto dura…

– Né dura né molla. La pura verità.

– Ok, sono un bastardo. Ma sono le tre del mattino e a quest’ora anche i bastardi hanno diritto di essere lasciati in pace.

– Sapevi tutto, vero?

– Sissignore, sì, sapevo.

Lo ammise con rabbia, senza però neppure una briciola di pentimento.

– Hai anche avuto la tua parte, scommetto. Confessa, hai preso i dindi… sicuro come la morte che li hai presi!

Sospirò. Si sdraiò sulla cuccetta e chiuse gli occhi.

– Chi credi io sia? Non ti mettere strane idee in testa. Sono un signor nessuno, proprio come te. Prendo uno stipendio e basta. Come un qualunque mezzemaniche, un operaio, un cuoco, l’addetto a un call center… ma non è uno stipendio al quale possa rinunciare. È uno stipendio obbligato. Ci ho rimesso parecchi denti prima di capirlo. Prendere o lasciare. Prendere i quattro soldi o lasciarci la ghirba. Ho scelto di prendere i soldi. Tu che avresti fatto?

– A te una manciata di soldi, a me sempre solo e soltanto un sacco di bastonate…

– Sì, quello era il gioco, ma adesso è finito. Adesso anche tu avrai la tua parte…

Aveva una busta a portata di mano. La prese, sapevo ti saresti fatto vivo, e me la porse.

Che bastardo!

– Non voglio quel danaro. Non da te.

Scrollò le spalle.

– Non è danaro mio. Sono stato incaricato di dartelo. – Sorrise. – È danaro buono, cosa credi? Te l’ho detto, i giochetti sono finiti.

– Non voglio danaro…

– Lo so, lo so quello che vuoi, – mi interruppe. – Ma quello che vuoi non lo puoi avere. Nessuno te lo può dare. La ferita che infligge una donna non c’è medico al mondo che la possa curare, diceva un tale. A volte neppure la donna stessa, dico io. Credimi, ti conviene prendere i soldi e dimenticare.

– Ma che uomo sei, tu, per dire queste cose? Che specie di fogna di uomo sei?

– Vedo che non capisci, che non vuoi capire. Io ti sto parlando di sopravvivenza, amico. Di salvare la buccia. Tu però non mi ascolti. Sappi che hai avuto ciò che lei non ha mai dato a nessuno. Il massimo, credimi. Ti ha regalato la vita, cosa vuoi di più? Per te è diventata un’assassina, è stata costretta a scegliere chi far vivere e chi morire… ha brigato per escluderti dalla fase finale trovando il tipo adatto a sostituirti. Perciò, contentati, sii grato, lasciala perdere a quella! Per il tuo e il suo bene, dimenticala!

Strinsi i pugni, strinsi tutto me stesso intorno alla mia disperata volontà di soffocare l’anima, lo strazio di ciò che le parole svelavano, sebbene i fatti non l’avessero mai nascosto. Strinsi i pugni per non urlare, per non udire. Non volevo udire, non volevo sapere. Soltanto averla davanti per potermi prosternare e chiederle perdono.

Pietosa com’era, me l’avrebbe dato quel perdono. Mi avrebbe carezzato la nuca ed esortato a tirarmi su. Cosa fai lì per terra, scemo? Avrebbe chiesto. E io le avrei umilmente risposto, senza sollevarmi: l’amore di un uomo è nulla di fronte a quello d’una donna! Lascia che stia dove mi compete. Ai tuoi piedi, Madonna!

– Perché poi dovresti avercela con me? Solo perché sono abbastanza ammanicato e abbastanza in là con gli anni da non finire sotto la locomotiva? Ti ho trattato come chiunque altro, né meglio, né peggio. Come mi obbligano a fare. Perché credi viva solo e mi imbottisca di merda? coca, ero, acido, tutto quello che capita. Perché lo sono solo, l’uomo più solo del mondo. Vorrei avere amici, ma non me li posso permettere. Finirebbero tutti sul banco del macellaio. È la vita, amico. Bisogna pur mettere insieme pane e companatico. E per averlo devi dare dieci in cambio di uno. Questa è la regola.

Aveva ragione, non potevo evitare di dargliela. Lo stesso sentivo l’impulso di ammazzarlo. Tra tutti quelli che mi avevano preso per i fondelli forse non era il peggiore, ma certo era quello più preso nell’ingranaggio. Il più irrecuperabile. Se ne faceva una ragione, lui. Un po’ rassegnato, un po’ consenziente. Più consenziente però che rassegnato…

– Questa è solo filosofia e io non mi intendo di filosofia. Mi intendo di risvegli turbolenti, di depressioni mattutine, di notti insonni, di disdetta e disperazione. Di questo mi intendo. Della rabbia sorda che mi divora dentro e dell’impossibilità nei confronti delle possibilità del mondo. Mi intendo di voci interiori che ammoniscono, protestano, chiedono aiuto. L’aiuto che non viene. Le proteste rimaste inevase. Gli ammonimenti inascoltati. Ma ce ne uno che non riesco a ignorare. Per la verità è un’implorazione, una supplica, più che un ammonimento. Recita più o meno questo: non esagerare, amico. Qualunque siano le circostanze c’è un limite che non puoi valicare. Io quel limite non intendo valicarlo. Perché il volto che vedo nello specchio al mattino quando mi sbarbo non voglio mi faccia venire voglia di sputargli in faccia!

S’oscurò tutto, disgustato.

– Smettila di fare il moralista, non ti si addice.

– Credi?

– Prendi i soldi e vattene.

– Non li voglio!

– Non ho altro per te.

La mise giù dura, sul mio stesso tono.

– Se li prendessi, – spiegai, – implicitamente approverei i vostro sporco gioco… un gioco sulle persone, sulla loro vita e sulla loro morte.

Mi guardò. Sorrise. Scosse il capo.

– Non mi infinocchi, amico. Non essere ipocrita, confessa. Tu non ti vendi per danaro, forse no, non in tutti i casi. Voglio crederti. Ma per qualcosa ti vendi. Non conosco nessuno che non lo faccia. Tu, per cosa ti vendi?

Bevvi fiele, inghiottii furore. Il fiele delle parole, la rabbia del loro effetto. La rabbia della soddisfazione con cui continuava a guardarmi.

– Apri quella busta, – disse infine con fare paziente e navigato. Conosceva il mondo, lui! – Aprila. Il danaro lo puoi lasciare, ma non c’è soltanto danaro dentro…

Tornò a rilassarsi, sdraiato, sulla cuccetta. Chiuse gli occhi, compiaciuto. Aveva accertato che non ero meglio di lui. Né che il mio prezzo fosse più alto. Era semplicemente diverso.

Aprii la busta. C’era un biglietto dentro. Tre righe.

 

Stai alla larga, fatti un favore. Non rompere. Sei stato una discreta scopata, ma questo non basta a farti entrare nel cerchio delle mie conoscenze. Neppure vorrei: stai alla larga, allora, fatti un favore!

 

Senza firma, senza saluti, senza neppure un “ciao” un “addio” o un “vaffanculo” mandato con tutti i sentimenti. Niente.

 

(segue La Città – 7, mercoledì 9 agosto)

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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