Viterbo, un carcere dove vige il terrore

di Patrizio Gonnella (*)

«Ho subito violenze, gravi lesioni corporali e torture varie». «Mi hanno tenuto in mutande di inverno per giorni in una “cella liscia” e sono stato preso a pugni. Ho la testa piena di cicatrici». «Hanno tre squadrette solo per menare detenuti». «Aiutatemi ad andare via da questo carcere». «Se dico qualcosa qua mi menano». «Qui si cerca di sopravvivere alle ingiustizie e restare al proprio posto, sempre con i nervi saldi. Sempre più torno a convincermi di trovarmi in un mondo infernale. Si ricevono umiliazioni da parte delle guardie quando nelle perquisizioni che effettuano settimanalmente lasciano la tua cella sottosopraLa divisa che indossano dà loro un potere, non dà loro nessun onore e possono quindi infierire sul detenuto, come e quando vogliono, renderlo indifeso… sono diverse le storie di percosse che han subito alcuni detenuti della mia stessa sezione e rimangono celate nel silenzio. Qui si vive con la paura individuale, il buio, gli incubi. Per ora ancora sopravvivo, ma quando uscirò da questa struttura lotterò perché la verità esca fuori».

«Sono stato malmenato dalle guardie, picchiato forte da farmi perdere la vista all’occhio destro. Un trauma alla testa per le pizze e pugni che ho preso senza motivo perché ho chiesto più volte all’appuntato di poter andare a scuola e le guardie mi rispondono che a scuola non ci vai… Io gli rispondo che fate i mafiosi con me senza motivo… Passano quattro o cinque minuti e mi vengono ad aprire la cella… mi portano per le scale centrali da lì hanno cominciato a picchiarmi forte tra calci, schiaffi, pugni e sono intervenuti altri con il viso coperto. Erano otto o nove mentre mi menavano dicevano noi lavoriamo per lo Stato italiano negro di merda perché non torni al paese tuo».

Questi sono soltanto alcuni degli estratti di lettere arrivate ad Antigone da differenti detenuti reclusi nel carcere di Viterbo nell’ultimo anno e mezzo. Estratti drammatici che ci possono far solo immaginare cosa significhi vivere nel terrore della violenza che da un momento all’altro si potrebbe abbattere sul proprio corpo, distruggendo la propria psiche.

Non è finita. Il 9 gennaio 2018 nel carcere Mammagialla di Viterbo si toglie la vita Abouelfetouth Mahomoud, vent’anni. Il 21 maggio Andrea Di Nino, trentasei anni, si suicida anche lui. Il 30 luglio 2018 si ammazza Assan Sharaf, ventuno anni. Tre suicidi in sette mesi non possono non destare allarme.
Un brutto, nero 2018 che ha avuto una tragica appendice qualche giorno fa con l’omicidio di un detenuto da parte di un altro ristretto, sempre nella stessa prigione.

Il sistema carcerario italiano è articolato, complesso.
Così come molte altre istituzioni, anche quelle penitenziarie si presentano in modo molto poco omogeneo. Vi sono luoghi dove l’impegno di direttori, poliziotti e operatori sociali è tutto orientato, tra mille difficoltà, a muoversi nella legalità. Dunque ogni generalizzazione sarebbe ingiusta e scorretta.

Detto questo, di fronte a tante lettere disperate, tre suicidi, un omicidio (anche se quest’ultima è un’altra storia) è dovere delle autorità pubbliche e della magistratura aprire i riflettori su quel carcere, restituire speranza a chi vive nel terrore, far entrare nel carcere Mammagialla di Viterbo i giornalisti, velocizzare le inchieste penali e amministrative che sappiamo essere pendenti, specializzare (come ha fatto la procura di Napoli) nuclei investigativi nei casi di abusi su persone private della libertà.

Il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi ha preannunciato iniziative in attesa degli esiti delle ispezioni in corso. Sarebbe importante che lo Stato si costituisca parte civile nel caso in cui i procedimenti penali vadano avanti.

La violenza diffusa è un modello antropologico di dominio sui corpi e non è solo la cattiveria di uno o di tanti. Il problema, sempre che si accerti che quelle violenze ci sono state (e sappiamo quanto è difficile accertarlo in un luogo chiuso, opaco, appartato quale è il carcere), è smantellare un modello dove lo spirito di corpo colpisce tutti e tutto, capire perché possa accadere che non ci siano persone in divisa o non che obiettino coscienza, che si ribellino alle illegalità.
È necessario che l’inchiesta sveli il meccanismo della violenza, individui i complici oltre che i colpevoli.

(*) Antigone. Tratto da “Il Manifesto”, 6 aprile 2019.

Le lettere dei detenuti del carcere di Viterbo: “Ti menano fino a renderti un vegetale” (*)

C’è un sentimento che aleggia nel carcere di Viterbo e non è solo la solitudine o la disperazione.
È la paura.
Quella che ti fa venire le fitte al cuore e irrigidire la colonna vertebrale, che ti fa salire il brivido lungo la schiena e mozzare il fiato.
Ed è proprio terrore misto ad angoscia che traspare dalle lettere inviate dai detenuti rinchiusi all’interno della struttura all’associazione Antigone.
Pagine e pagine che raccontano di abusi che sarebbero messi in campo sistematicamente dagli agenti di polizia penitenziaria.
Assistenza medica negata, celle devastate durante le perquisizioni, medicinali sostituiti senza dare spiegazioni.
Le botte, i pugni in testa e i pestaggi collettivi contro un singolo detenuto.
La voglia di ammazzarsi piuttosto che di continuare a vivere in questo modo, ma anche la speranza di arrivare a vedere un giorno migliore.
Sono solo alcuni degli episodi raccontati dai detenuti del carcere Mammagialla di Viterbo, la cui unica speranza non è nemmeno quella di vivere una vita “normale”, ma solo di sopravvivere a un altro giorno dietro le sbarre.
Questi sono stralci dei loro racconti.

Mi hanno fatto fare le celle lisce (forma di contenimento più volte stigmatizzata da varie organizzazioni internazionali, che consiste nel rinchiudere il detenuto in una stanza senza appigli, finestre, brande e sanitari, tanto che sono costretti a fare i bisogni sul pavimento, N.d.R.) per giorni, in mutande d’inverno.
Ho mangiato delle lamette. Mi portavano in ospedale di notte, non firmavano l’entrata e l’uscita.
Ho subito aggressioni con pugni e calci che mi hanno lasciato cicatrici in faccia, sul corpo e anche agli organi interni.
Ho problemi con la milza, con i reni, ho problemi con il battito del cuore, ho problemi con i testicoli penso sia ernia, ho problemi con la colonna vertebrale, il piede sinistro che appena lo muovo penso che fra qualche mese possa rimanere paralizzato.
Mi fa male lo sterno non appena respiro, mi si blocca il respiro di colpo che ho anche paura di addormentarmi. Ho la testa piena di cicatrici dalle botte subite, ho paura di avere un coagulo in testa.
Quindi sto chiedendo alla vostra signoria, questi non sono problemi gravi? E poi, secondo voi, come posso fare per avere le copie della cartella clinica dato che qui le copie sono a pagamento?
Anche se io farò queste copie secondo voi loro mi stampano l’intera cartella?
Loro stampano solo quello che è a loro favore, penso che i fogli importanti non vengano stampati, qui si fanno abusi e prepotenze“.

Il detenuto che ha inviato questa prima lettera ne ha poi mandata anche un’altra. La sua situazione non è migliorata. Continuano i pestaggi, e come se non bastasse una bombola del gas gli è esplosa a distanza ravvicinata, anche se non ne specifica il motivo.

Io adesso sto gravemente con la salute perché mi è esplosa una bombola del gas e ho tutto il braccio sinistro bruciato. E qui mi curano molto male visto che non mi trasferiscono non ho avuto la scelta. E mi mette solo una pomata, tutto qui. Ho anche fatto una denuncia il 30 aprile che il 29 aprile sono stato picchiato dalle guardie. (…). Ho fatto la denuncia, non ce la faccio più, e poi vi volevo dire che io non ho problemi mentali sono con i piedi per terra“.

Questa lettera è stata inviata invece da un altro detenuto.
Dalle sue parole si evince lo sconforto per una situazione ingiusta e violenta che non aiuta la persona in prigione a riabilitarsi, ma la incattivisce ancora di più.
Tutto passa sotto silenzio, perché le denunce sono poche.
L’unica speranza, il poter uscire un domani dal carcere e cominciare una nuova vita.

Qui si cerca di sopravvivere alle ingiustizie e restare al proprio posto, sempre con i nervi saldi per non creare screzi, cercare di andare d’accordo con tutti, sopportare e portare rispetto, soprattutto con quelli della sezione, anche se non è così semplice come sembra per via di caratteri diversi e la presenza di tanti stranieri di varie razze e religioni.
Benché vi siano alcune cose che tutti i detenuti devono affrontare (l’essere chiuso tra le sbarre, aria consumata, insetti, ratti, cattivi odori, rumori di ogni genere… di chiavi, grida le porte di ferro; scarsità di ogni cosa proveniente dal mondo esterno). Mi convinco sempre di più di trovarmi in un mondo infernale.
Ricevere umiliazioni da parte delle guardie quando nelle perquisizioni che effettuano settimanalmente lasciano la tua cella sottosopra (letti disfatti, gli abiti puliti stropicciati e buttati qua e là… il caos).
Come può un essere umano comportarsi così con un suo simile (questo è abuso di potere, è bullismo, è approfittarsi e rendere un tuo simile una proprietà e gestirlo come si vuole). È così che il carcerato si irrita a queste ingiustizie.
Parlano tanto: di inserimento nella società, di rieducazione, di riabilitazione… ma una volta uscito da quest’inferno il detenuto non esce migliorato, anzi esce con un carattere più crudo.
Eppure viviamo in un paese democratico, cattolico, abbiamo la Chiesa, il Papa… diffondiamo la voce per i diritti umani… ma dove sono!
Quanta ipocrisia ci gira intorno.
La struttura del carcere dovrebbe essere gestita da un personale qualificato, da veri professionisti, non da poliziotti provenienti da chissà quale parte d’Italia… da un mondo villano; ci sono buzzurri, ignoranti primitivi senza scrupoli, la cui divisa che indossano non dà loro alcun onore (dà loro un abuso di potere e sentirsi così i padroni della struttura carceraria) e possono così infierire sul detenuto come e quando vogliono, renderlo indifeso (un vegetale, picchiandolo… e sono diverse le storie di percosse che hanno subito detenuti della mia stessa sezione) e rimangono celate, nel silenzio.
Un poliziotto la cui coscienza delle faccende personali che si porta da fuori gli permette di tartassarvi in modo che non vi sareste mai sognati.
Qui si vive anche con la paura individuale, gli incubi, il buio, la paura di impazzire, di suicidarsi, di infliggersi ferite solo per essere ascoltati.
La speranza e le date di fine condanna che giocano un ruolo nella vita del prigioniero.
Si pensa molto. Si pensa il giorno, si pensa la notte.
Il cervello entra in una fase di riflessione della propria vita trascorsa… e viaggia nel tempo. Quanti anni di collegio (perché orfano), cresciuto senza affetto.
Una vita di sacrifici, per sopravvivere e arrivare ad avere qualche proprietà, qualcosa di mio e vedere ora la mia vita sbriciolarsi per poter pagare i debiti processuali.
Provo sentimenti di isolamento e devo adattarmi alle dure condizioni del carcere; e avviato questa macchina, i soprusi, i censori che sperano di portare al silenzio per creare il silenzio, sotto cui nascondono le peggiori atrocità. Il silenzio li protegge dalla loro responsabilità. (…).
Un delirio improvviso può causare dolore, nella stessa misura del sollievo. Il mio singhiozzare spasmodico che mi prende nel pieno della notte e a volte il pensiero lo riaffaccia al giorno.
Proprio in questo momento compare il pescatore di anime umane o l’educatore, lo psicologo che ti tira fuori, intontito dal sotterraneo, per un colloquio; per sentire e sapere la tua storia. (…).
Ci sarebbe molto da dire sulle condizioni delle carcere. Mi fermo qui dicendo: “qui non funziona niente”.
Per ora ancora sopravvivo, ma una volta uscito da questa struttura (manca poco tempo) dovrò combattere la mia battaglia personale per riuscire a tirare fuori la verità dei fatti. Vivo solo per questo“.

In questo stralcio di lettera, il detenuto racconta come le cure mediche non sarebbero garantite e verrebbero eseguite in modo sciatto, senza nessuna preoccupazione per la salute di chi è recluso.
Chi chiede una visita, la ottiene difficilmente.
E racconta di due suoi compagni di sezione: uno morto per un tumore al pancreas, che forse si sarebbe potuto salvare se fosse stato curato in tempo, e uno affetto da demenza, picchiato costantemente per le sue “intemperanze”.

Qui dentro ognuno deve salvaguardarsi per la propria salute come può, non c’è nessuno che si preoccupa per la tua malattia.
La sanità è zero… non funziona come dovrebbe.
Posso portare alcuni esempi, sia quelli vissuti dal vivo sulla mia pelle e di altri.
Al mio arresto già stavo male fisicamente (mi era stata convalidata un’invalidità del 67%).
Il chirurgo che mi operò e mi ha tenuto in cura mi prescrisse una terapia a vita che dovevo rispettare e volevo stare bene… ma giunto qui mi è stata cambiata (sostituita) con altri farmaci. Non sono valsi i
tanti reclami.
Mi rispondono: quelli che ti diamo sono uguali, pensi che i dottori interni non sappiano cosa darti?
Ma succede che ora sono subentrate delle allergie che prima non avevo mai riscontrato nella mia vita e chiedo una visita dermatologica, almeno per sapere se può dipendere dai farmaci che assumo.
Quando quelli del PM scrivono “riceve i necessari trattamenti sanitari in regime penitenziario (è falso). E cosa dire di un certo CARLO, cella numero 20 della mia stessa sezione, detto anche “il professore” (perché era veramente un professore: di matematica) che purtroppo della sua morte si è saputo tramite voci esterne. Com’è successo? Il povero Carlo, che conoscevo personalmente, soffriva di forti dolori addominali che gli rendevano
le giornate impossibili. Marcò visita.
Senza alcun esame gli prescrissero di assumere degli antibiotici per qualche giorno, ma i dolori proseguivano col passare delle ore, senza alcun miglioramento. Marcava visita continuamente, anche di notte.
Dimagrì tantissimo in pochi giorni, non riusciva nemmeno a stare in piedi e ciò che mangiava lo rigettava.
Dopo giorni di sofferenza decisero così di ricoverarlo d’urgenza all’ospedale del territorio per un controllo.
Dopo vari esami gli riscontrarono un tumore al pancreas. Fu operato, andò tutto bene, tramite il suo avvocato gli furono concessi gli arresti domiciliari.
Non passò molto tempo che si è venuto a sapere che era deceduto. Io dico!
Se le visite fossero state tempestive, forse sarebbe ancora in vita!
Su di noi vigila un fantasma burocratico vendicativo, è come se Dio si fosse stancato di fare tentativi e avesse chiuso le porte della pietà.
C’era in questa sezione anche un certo MAURIZIO. Lo ricordo quando entrò in questa sezione, spaventato e perso (forse per la sua prima carcerazione).
Lo sistemarono nella cella di fronte la mia con un certo Mustafa, un individuo violento, esaltato, prepotente e aggressivo.
Il povero Maurizio era succube di costui e quello che questo gli ordinava di fare lo eseguiva per paura. Si notava tanta sofferenza e infelicità (mentre chi di dovere doveva intervenire non
c’era).
Finché dopo alcune settimane decise di cambiare cella, andando a stare con un italiano. Il suo carattere era ormai compromesso, stava cambiando e peggiorava di giorno in giorno, il suo comportamento dava segni di pazzia. Strillava come un ossesso, aveva manie di persecuzione, disturbava tutta la sezione. Dava segni di squilibrio: usciva dalla cella per andare a farsi la doccia e girava nudo per il corridoio.
La guardia per il suo comportamento lo picchiava
, senza capire che non era più lui e che doveva essere spostato in un’altra struttura perché aveva una demenza senile progressiva. Tutti noi della sezione ci ridevamo perché ci divertiva con i suoi modi strani, nello stesso tempo capivamo pure la sua malattia.
Raccogliemmo firme per farlo spostare a tutt’altra struttura.
Una volta uscito da questa sezione, di lui non ho più saputo nulla”.

E conclude così la sua lettera:

Il mio ultimo sguardo va attraverso la finestra ferrata, con gli occhi arrivo a guardare al di là del muro di cinta. Una chioma d’albero ambrato dalla notte. Nella metà del cielo le nuvole passeggiano, mentre nell’altra metà verso la montagna si scoprono le stelle sotto un chiaror di luna. Non vi è altro luogo dove guardare, tranne l’immenso vuoto. Finisce così un altro giorno e mi sdraio supino sul mio letto; socchiudo gli occhi… riecheggia libero il pensiero… con la speranza che il nuovo giorno sia migliore”.

(*) Tratto da Fanpage.

alexik

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