20 anni all’indietro: come l’Italia è diventata povera
Cioè l’eccezione in una Europa che “cresce”.
di Mario Sommella (*)
In vent’anni, l’Unione europea ha visto crescere il reddito reale delle famiglie di oltre un quinto. Secondo i dati appena pubblicati da Eurostat, tra il 2004 e il 2024 il reddito reale pro capite dei nuclei familiari nell’Ue è aumentato in media del 22%. Nel frattempo, in Italia è sceso del 4% e in Grecia del 5%. Sono gli unici due Paesi dell’Unione in cui le famiglie, a parità di potere d’acquisto, sono più povere oggi di quanto non fossero vent’anni fa.
Questa non è solo una statistica: è la radiografia di un modello economico che ha scelto consapevolmente chi doveva pagare il prezzo delle crisi, dell’austerità e delle “riforme strutturali”.
- La mappa Eurostat: un continente che sale e due Paesi che scendono
Eurostat misura il “household real income per capita”, cioè il reddito reale pro capite delle famiglie, corretto per l’inflazione. È l’indicatore che dice, in concreto, quanta capacità di spesa resta in tasca alle persone dopo vent’anni di crisi, rimbalzi e riprese.
La dinamica europea è chiara:
• crescita continua tra 2004 e 2008;
• stagnazione tra 2008 e 2011, per gli effetti della crisi finanziaria globale;
• calo nel biennio 2012–2013, nel cuore dell’austerità;
• ripresa graduale fino al 2020;
• nuovo scivolone con la pandemia;
• rimbalzo nel 2021 e crescita lenta ma positiva nel 2022–2024, con una nuova accelerazione nei dati preliminari del 2024.
Quando si passa dalla media ai singoli Paesi, la mappa si colora quasi tutta di verde, con intensità diverse. Le maggiori crescite si registrano in:
• Romania: +134%
• Lituania: +95%
• Polonia: +91%
• Malta: +90%
Sono Paesi entrati nell’Ue negli ultimi due decenni, che hanno sfruttato il mix di salari inizialmente bassi, investimenti esteri, mercato interno in espansione e fondi di coesione europei destinati a infrastrutture, digitalizzazione, reti energetiche, formazione e istruzione.
Le grandi economie storiche avanzano a passo più corto ma comunque in terreno positivo:
• Germania: +24%
• Francia: +21%
• Spagna: +11%
• Austria: +14%
• Belgio: +15%
• Lussemburgo: +17%
Poi ci sono i due puntini rossi in fondo alla legenda: Grecia e Italia.
La Grecia paga il prezzo di una crisi esplosa nel 2010, con debito pubblico fuori controllo, bilanci truccati per entrare nell’euro, perdita di competitività e una terapia d’urto imposta dalla Troika fatta di tagli lineari, crollo del Pil, esplosione della disoccupazione, povertà di massa. Oggi Atene galleggia su un’apparente “normalizzazione” finanziaria, con i titoli di Stato che performano bene, ma i redditi reali delle famiglie restano ancora sotto i livelli del 2004 e anche del 2010.
L’Italia, invece, non ha avuto un default, non è stata commissariata, non ha subito memorandum firmati a Bruxelles o a Washington. Eppure è lì, accanto alla Grecia, con un reddito reale familiare più basso di vent’anni fa. Il paradosso si spiega guardando dentro il motore: salari, produttività, mercato del lavoro, modello fiscale.
- L’illusione dell’“occupazione record”
Nelle stesse ore in cui Eurostat certifica il declino del reddito reale italiano, un altro dato fa il giro dei media: l’Istat segnala che il tasso di occupazione ha raggiunto il 62,7%, un livello mai toccato prima.
Due fotografie sembrano in contraddizione: più persone lavorano, ma le famiglie sono più povere. In realtà, combaciano perfettamente.
La “buona notizia” occupazionale è infatti accompagnata da almeno tre elementi strutturali:
• precarietà diffusa: una quota consistente dei nuovi posti è a termine, part-time spesso involontario, con giornate spezzate, turni intermittenti e poca capacità di programmare il futuro;
• giovani esclusi o marginali: la stessa nota sui dati occupazionali sottolinea che i progressi riguardano soprattutto over 50 e alcune categorie specifiche, mentre la fascia 25–34 anni resta la più penalizzata, con tassi di disoccupazione e inattività ancora molto alti;
• working poor: cresce l’area di chi lavora ma è povero, perché la combinazione di salari bassi e inflazione elevata ha eroso il potere d’acquisto più di quanto non abbiano compensato i contratti.
L’Ocse sintetizza la situazione in modo brutale: all’inizio del 2025, i salari reali in Italia erano ancora il 7,5% sotto i livelli di inizio 2021, il peggior risultato tra le grandi economie avanzate.
Nel frattempo, l’aumento dei prezzi ha gonfiato il gettito fiscale: l’Italia ha registrato un vero e proprio “tesoretto” di entrate trainate dall’inflazione e da una base imponibile spinta verso scaglioni più alti, senza che i redditi reali delle famiglie migliorassero davvero.
In pratica, si lavora di più, ma ogni euro vale meno.
- Vent’anni di stagnazione salariale e produttività zoppa
La radice del problema italiano non è solo nella congiuntura recente, ma in una traiettoria di lungo periodo. Studi recenti sull’andamento della disuguaglianza e dei salari in Italia mostrano un tratto costante: crescita economica debole, produttività stagnante e salari reali che non seguono nemmeno quel poco di crescita disponibile.
I punti chiave sono almeno quattro.
1. Produttività ferma
Dal 2000 in poi, la produttività del lavoro in Italia è cresciuta molto meno rispetto alla media Ocse, e in alcuni periodi praticamente si è fermata. Le imprese hanno risposto comprimendo il costo del lavoro – salari e diritti – più che investendo in innovazione, ricerca, formazione.
2. Salari bloccati e contratti lenti
La dinamica salariale è stata spesso inferiore non solo alla produttività (quando c’era), ma anche all’inflazione. I rinnovi contrattuali sono arrivati con anni di ritardo, erodendo progressivamente il potere d’acquisto. I dati Ocse parlano di una riduzione complessiva dei salari reali tra 1990 e 2020, caso pressoché unico tra le grandi economie.
3. Debolezza sindacale e conflitto addomesticato
Un’inchiesta internazionale recente descrive i sindacati italiani come “grandi ma sdentati”: molta burocrazia, molti servizi, pochi scioperi incisivi e lunghi su salari e condizioni di lavoro. Le vertenze sono spesso simboliche, di un giorno, senza quella pressione che altrove ha permesso di strappare aumenti maggiori.
4. Dualismo generazionale e territoriale
La stagnazione colpisce soprattutto giovani, donne e Mezzogiorno. Il mercato del lavoro è spaccato: una parte di lavoratori “protetti” o relativamente stabili, e una massa di precari, part-time, autonomi di fatto ricattabili, concentrati nei servizi a bassa produttività e nei settori a basso valore aggiunto.
Se negli anni Novanta e Duemila il ceto medio riusciva a reggere grazie ai salari stabili e a un welfare ancora relativamente robusto, oggi l’equilibrio si regge sempre più sui patrimoni ereditati e sulle pensioni degli anziani. È la fotografia, impietosa, di un Paese che vive di rendita più che di lavoro.
- Cosa hanno fatto gli altri che l’Italia non ha fatto
Confrontare l’Italia con altri Paesi non serve per nostalgia, ma per capire che le scelte non erano “obbligate”.
• Nel Nord Europa e in parte in Francia e Germania, le crisi sono state affrontate con robusti strumenti di sostegno ai redditi (Kurzarbeit, sussidi straordinari, politiche attive del lavoro), investimenti pubblici mirati e una contrattazione collettiva che, pur con contraddizioni, ha difeso meglio i salari reali.
• Nei Paesi dell’Est, i fondi di coesione Ue sono stati utilizzati in modo più coerente per modernizzare infrastrutture, reti energetiche, sistemi produttivi, formazione digitale: non solo bonus, ma trasformazioni strutturali.
In Italia, invece, il “modello” degli ultimi vent’anni è stato un altro:
• liberalizzazione e precarizzazione del lavoro come leva di competitività;
• uso disorganico delle risorse europee, spesso disperse in mille rivoli o catturate da filiere clientelari;
• compressione della spesa sociale e tagli lineari ai servizi pubblici;
• politiche fiscali a colpi di condoni, che premiano l’evasione più che il lavoro regolare.
Il risultato si vede nella mappa Eurostat: mentre quasi tutti salgono, l’Italia arretra.
- L’ipocrisia del “ce lo chiede l’Europa”
Per anni, ogni scelta impopolare è stata giustificata con la formula: “ce lo chiede l’Europa”. Ma se davvero le politiche seguite fossero state un destino comune, dettato da Bruxelles, dovremmo ritrovarci in una condizione simile agli altri grandi Paesi dell’eurozona.
Invece, con regole europee identiche per tutti, l’Italia è l’unica grande economia in cui il reddito reale delle famiglie è più basso di vent’anni fa, e una delle poche dove i salari reali non hanno recuperato nemmeno i livelli pre-pandemia.
Questo significa che il problema non è “l’Europa in astratto”, ma il modo in cui l’Italia ha scelto di stare dentro quella cornice:
• accettando l’austerità come dogma, senza mai costruire un serio piano industriale;
• usando la leva del debito e dei vincoli di bilancio per giustificare tagli e privatizzazioni;
• scaricando i costi delle crisi su salari, diritti, welfare, anziché toccare rendite, grandi patrimoni, profitti di settori iper-tutelati.
Oggi, paradossalmente, il Paese viene elogiato per aver riportato il deficit verso il 3% e aver incassato upgrade dalle agenzie di rating, ma questa “virtuosità” si regge su basi fragili: spinta inflazionistica, tasse crescenti sul lavoro e tagli alle protezioni sociali, mentre la produttività resta stagnante e le disuguaglianze si allargano.
- Che cosa servirebbe per invertire la rotta
Se l’obiettivo non è solo piacere ai mercati, ma evitare di essere il fanalino di coda dell’Europa anche tra vent’anni, servirebbe un cambio di paradigma.
Alcune linee di fondo:
• Ricostruire il potere d’acquisto
• salario minimo legale ancorato ai contratti dignitosi;
• indicizzazione parziale dei salari all’inflazione, almeno per i redditi medio-bassi;
• rinnovo rapido dei contratti collettivi, con clausole che impediscano il congelamento dei salari per anni.
• Ridurre la precarietà strutturale
• limitare per legge il ricorso ai contratti a termine e alle forme “spurie” di lavoro autonomo;
• vincolare sconti contributivi e incentivi pubblici alla trasformazione dei contratti in rapporti stabili;
• ripristinare tutele effettive in caso di licenziamenti illegittimi, ridando forza anche alla contrattazione.
• Usare davvero le risorse europee per lo sviluppo
• concentrare gli investimenti su scuola, università, ricerca, sanità pubblica, transizione ecologica;
• colmare i divari territoriali con infrastrutture reali nel Mezzogiorno, non solo con grandi opere spot, per fermare l’emorragia di giovani.
• Redistribuire la ricchezza, non solo il reddito
• una riforma fiscale progressiva che allenti il carico sul lavoro dipendente e colpisca di più le rendite immobiliari e finanziarie elevate;
• una lotta strutturale all’evasione, senza sanatorie cicliche che rendono l’illegalità una strategia premiante.
Conclusione: l’eccezione italiana non è un destino, è una scelta
L’immagine che arriva da Eurostat è semplice e brutale: in un’Europa che, pur tra mille contraddizioni, ha visto crescere il reddito reale delle famiglie, l’Italia e la Grecia sono rimaste indietro. La prima dopo un default de facto, memorandum, commissariamento. La seconda senza nulla di tutto questo, ma con decenni di politiche che hanno sistematicamente sacrificato il lavoro, i diritti e il welfare.
Non è una maledizione geografica, né un tratto “culturale”. È il frutto di scelte politiche, di rapporti di forza, di priorità messe nero su bianco in ogni legge di bilancio, in ogni riforma del lavoro, in ogni taglio alla sanità e alla scuola.
La domanda, ora, non è se i numeri di Eurostat ci piacciano o meno. È un’altra, più secca: vogliamo un Paese che, tra vent’anni, sarà ancora l’eccezione povera in un continente che cresce?
Perché se non cambiano le regole del gioco – salari, diritti, redistribuzione, investimenti – la mappa della decrescita non è un incidente statistico. È un programma politico già scritto. E, come i dati dimostrano, funziona benissimo: basta guardare chi si è arricchito mentre le famiglie italiane diventavano più povere di vent’anni fa.
FONTI E RIFERIMENTI
I dati comparativi sul reddito reale familiare pro capite nei Paesi dell’Unione europea nel periodo 2004–2024 si basano sulle elaborazioni ufficiali di Eurostat, in particolare sul comunicato “EU household real income per capita up 22% since 2004” (sito: https://ec.europa.eu/eurostat, pagina news: https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-eurostat-news/w/ddn-20251125-2), sul dataset “Household real income per capita (nasa_10_ki)” accessibile dal data browser dei Conti nazionali e settoriali (https://ec.europa.eu/eurostat/data/database, sezione “Sector accounts”) e sulla scheda di approfondimento “Households – statistics on income, saving and investment” nella collana Statistics Explained (https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Households_-_statistics_on_income,_saving_and_investment). A partire da queste fonti sono state inoltre utilizzate le ricostruzioni giornalistiche e i commenti pubblicati da Corriere della Sera/Withub (“Reddito reale, Italia e Grecia sono gli unici due paesi Ue dove le famiglie sono più povere di vent’anni fa: la mappa della decrescita”, https://www.corriere.it), in particolare nella versione online all’indirizzo: https://www.corriere.it/economia/lavoro/25_dicembre_02/reddito-reale-italia-e-grecia-sono-gli-unici-due-paesi-ue-dove-le-famiglie-sono-piu-povere-di-vent-anni-fa-la-mappa-della.shtml; da Assinews (“Eurostat: Italia e Grecia unici paesi Ue in cui il reddito delle famiglie è diminuito negli ultimi 20 anni”, https://www.assinews.it/11/2025/eurostat-italia-e-grecia-unici-paesi-ue-in-cui-il-reddito-delle-famiglie-e-diminuito-negli-ultimi-20-anni/660120194/); da Greenreport (“In Europa il reddito reale delle famiglie segna in 20 anni un aumento del 22%. In Italia invece siamo a -4,4%”, https://www.greenreport.it/news/approfondimenti/58921-in-europa-il-reddito-reale-delle-famiglie-segna-in-20-anni-un-aumento-del-22-in-italia-invece-siamo-a-4-4); da Il Fatto Quotidiano (“Il reddito reale delle famiglie italiane tra 2004 e 2024 è sceso del 4%: il dato peggiore nell’Ue con la Grecia. La media è +22%”, https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/11/25/reddito-famiglie-italiane-calo-eurostat-notizie/8206976/); oltre che dalle sintesi pubblicate da altre testate europee come Euronews (https://it.euronews.com) che riprendono lo stesso quadro Eurostat su Italia e Grecia come uniche eccezioni negative nel contesto europeo.
Per quanto riguarda il mercato del lavoro italiano, le informazioni sull’“occupazione record” e sulla distribuzione per classi di età derivano dalle note mensili dell’Istat “Occupati e disoccupati (dati provvisori)” pubblicate sul portale ufficiale (sito: https://www.istat.it, sezione Lavoro, pagina di sintesi: https://www.istat.it/it/archivio/occupati+e+disoccupati) e dalle tavole statistiche collegate. Il quadro comparato internazionale è stato integrato con l’“OECD Employment Outlook 2025 – Country Note: Italy”, disponibile sul sito dell’OCSE (https://www.oecd.org, sezione Employment Outlook: https://www.oecd.org/employment-outlook), che mette in luce il nesso tra aumento dei posti di lavoro, diffusione dei contratti atipici e crescita dei lavoratori poveri. Il quadro di lungo periodo su salari reali, produttività e disuguaglianze fa riferimento a studi accademici come Salvati e Tridico, “Real wages and productivity: a lesson from Italy, 1980–2023”, pubblicato su Structural Change and Economic Dynamics e consultabile tramite il portale ScienceDirect (https://www.sciencedirect.com, ricerca per titolo dell’articolo); Checchi et al., “Inequality trends in a slow-growing economy: Italy, 1990–2020”, pubblicato su Fiscal Studies e disponibile sul sito Wiley Online Library (https://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/1475-5890.12385) e nella versione working paper sul sito del CSEF/Università di Napoli (https://www.csef.it); il lavoro di Depalo e Lattanzio “The increase in earnings inequality and volatility in Italy: the role and persistence of atypical contracts”, Occasional Paper n. 801 della Banca d’Italia accessibile all’indirizzo: https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/qef/2023-0801/index.html; e il paper di Bavaro e Raitano “Is working enough to escape poverty? Evidence on low-paid workers in Italy”, pubblicato su Structural Change and Economic Dynamics e presentato anche tramite l’Institute for New Economic Thinking di Oxford (scheda di sintesi: https://www.inet.ox.ac.uk/publications/is-working-enough-to-escape-poverty-evidence-on-low-paid-workers-in-italy).
Per il contesto politico, fiscale e sindacale, l’analisi è stata arricchita dalle inchieste e dagli articoli internazionali firmati da Reuters, in particolare “Big but toothless – Italy’s unions blamed for wage stagnation” e “Italy reaps tax windfall thanks to inflation, job growth”, entrambi consultabili sul sito dell’agenzia (https://www.reuters.com, sezione World/Europe, ricerca per titolo degli articoli); dal commento di Le Monde “Meloni’s deficit reduction masks Italy’s struggling economy”, pubblicato nell’edizione inglese del quotidiano e accessibile all’indirizzo: https://www.lemonde.fr/en/economy/article/2025/09/30/meloni-s-deficit-reduction-masks-italy-s-struggling-economy_6745957_19.html; e da ulteriori approfondimenti sul ruolo dei sindacati, sulle politiche di bilancio e sul legame tra inflazione, gettito fiscale e vincoli di rating, veicolati da agenzie e osservatori internazionali, tra cui Anadolu Agency (portale: https://www.aa.com.tr/en/) e rassegne economiche specializzate che collegano la stagnazione salariale italiana alle scelte di politica economica dell’ultimo ventennio.
(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com
