La guerra non dichiarata ma proseguita

di Helena Janeczek (*)

L’incipit di una delle più famose poesie di Ingeborg Bachmann recita La guerra non viene più dichiarata, ma proseguita. L’inaudito è divenuto quotidiano. La poesia si intitola “Tutti i giorni” ed è stata composta nel 1953, all’apice della Guerra Fredda e nello stesso anno in cui fu deciso di condonare alla Germania gran parte del suo debito di guerra. Negli ultimi mesi e soprattutto nelle ultime settimane, seguendo il conflitto tra il governo di Syriza e le istituzioni dei suoi creditori ho spesso pensato a quei versi.

Ho pensato che ci troviamo davanti a una guerra fredda “non dichiarata ma proseguita” che somiglia a una parodia tragicomica di quella storica. Solo che l’obiettivo di ostacolare o rovesciare una forza politica sgradita non avviene con le giunte militari, i piani golpisti occulti o i carri armati sovietici ma con qualche manovra abbastanza trasparente sebbene sinora malriuscita: ultimatum take it or leave it;, la riduzione della liquidità alle banche decisa dalla BCE, minacce prima del voto, speranza nella vittoria del sì referendario, e ora nuove proposte irricevibili. Al tempo stesso questa strana guerra non disputata con le armi è stata, secondo molti, capace di creare alla Grecia danni paragonabili soltanto a quelli causati da un conflitto bellico. Quindi nemmeno così “fredda”: quando lo stato sociale viene aggredito al punto da non fornire più le cure contro il cancro o la mortalità infantile sale del 43%, dovrebbe essere chiaro che sulla popolazione civile si è abbattuta una dose concreta e piuttosto massiccia di violenza. Questa situazione – che comprende oltre il terzo dei cittadini ridotti in uno stato di povertà – non si è creata da quando Tsipras è diventato primo ministro; ma è interessante notare che solo la prospettiva della Grexit ha fatto parlare apertis verbis di “emergenza umanitaria” e che il primo a parlarne fosse il socialdemocratico Martin Schulz, presidente dell’Europarlamento, mentre minacciava che, in caso di voto a favore del NO, si sarebbe proceduto in quel senso. Non c’è dubbio che l’escalation delle ultime settimane, con la chiusura delle banche innescata dalla BCE, ha creato un’ulteriore inasprimento che anche nella migliore delle ipotesi avrà lunghe e pesanti ricadute. Però, per tornare alla poesia della Bachmann, l’inaudito divenuto quotidiano ha reso invisibile questo stato delle cose per troppo tempo.
C’è un aspetto di questo quotidiano a cui ci si è fatti l’abitudine che trovo particolarmente inaudito. A differenza della Germania strangolata dalle riparazioni imposte dal trattato di Versailles o graziata dei debiti di guerra nel ’53 – paragone usato per mettere in guardia dalle catastrofi politiche favorite dagli eccessi di austerità – la Grecia non ha aperto né perso una guerra. Il suo debito di Stato, tuttavia, è stato trattato come se lo fosse – come se il paragone fosse opportuno e legittimo. Qui, forse, mi si può obiettare che non tengo conto di quanti Stati in via di sviluppo sono stati strangolati dal Fondo Monetario Internazionale, una delle tre istituzioni della Trojka. Peccherei, sostanzialmente, di uno sguardo eurocentrico, mi scandalizzerei soltanto perché un paese del cosiddetto mondo avanzato riceve lo stesso trattamento riservato a quelli del cosiddetto Terzo Mondo. Un po’ è così, lo ammetto. Ma il vero punto è che che quel paese non fa semplicemente parte dell’Europa geografica (e culturale), bensì di quell’Unione Europea che avrebbe dovuto garantire, al contrario, pace e benessere a tutti i suoi membri. Il fatto più inaudito e al tempo stesso meno visibile della crisi greca è che si è sviluppata nei modi che sono sotto i nostri occhi proprio perché la Grecia è un paese della UE e dell’Eurozona. In pratica: il conflitto che si è aperto nell’ ”Europa unita” è una guerra interna. Forse è la prima volta che tocca assistere a una guerra fredda che somiglia anche a una guerra civile. E perché si tratta di un conflitto “non dichiarato ma proseguito” non è davvero detto che tutto si risolva entro domani o lunedì prossimo, per un verso o per un altro, non bene per nessuno, in ogni caso.

Ma ci sono alcuni aspetti che possono essere riassunti e analizzati sin da ora. Il primo riguarda proprio le cose che ho scritto fin qui, cose che prima di queste ultime settimane – immagino – sarebbero suonate molto più iperboliche e “ideologiche”, ossia politicamente partigiane. Poi sì: sono di parte. Sono contenta che in Grecia la crisi abbia portato alla crescita, vittoria elettorale e infine formazione di un governo di sinistra. Ma vorrei che si facesse attenzione all’ordine cronologico e, soprattutto, di causa-effetto sintetizzato nella frase precedente. Senza gli effetti dell’austerity che hanno aggravato in modo massiccio, per la Grecia catastrofico, le ricadute della crisi finanziaria del 2008, non ci sarebbero mai stato il successo di Syriza (o di “Podemos” in Spagna) e nemmeno sarebbero entrati in parlamento i neonazisti di Alba Dorata, così come non ci sarebbe stata l’avanzata dell’estreme destre razziste e chauviniste negli altri paesi UE, incluso il nostro. Semplicemente la crisi ha dimostrato che un’armonica convivenza tra un certo ortodosso liberismo e un discreto livello di stabilità e giustizia sociale non era possibile, rendendo obsolete le convinzioni e ricette di Blair e Schröder ancora tanto care al nostro “moderno” renziano centro-sinistra (che però ha una lunga storia – fatta per esempio di D’Alema di cui vennero ampiamente decantati i viaggi nella City). La cosa per molti aspetti assai grottesca è che la Patria del Libero Mercato ha reagito a quella crisi nazionalizzando addirittura pro tempore le banche fallimentari, mentre, in Europa, il paese che simboleggiava il modello di Stato sociale funzionante, la Germania, ha ostacolato in tutti modi che la BCE potesse stampare nuova moneta, quella ora fluita copiosamente in tutte le banche tranne quelle greche. Il perché della stranezza (c’è Obama, d’accordo, ma la Merkel non sarebbe a guida di un partito stile tea party) è troppo fuorviante e complicato analizzarlo, ma penso si intravvedano delle divergenze di natura storica e culturale che aggiungendosi a interessi economici e “razionalizzandosi” in idee/ideologie economiche (la pericolosa razionalizzazione di ciò che conserva un fondo irrazionale), finiscono per tramutarsi in scelte politiche determinanti.
Ed è qui che torniamo al governo Tsipras. Penso sia indiscutibile che non è riuscito a “rompere con l’austerità” come ha promesso in campagna elettorale. Ritengo verosimile che la proposta presentata possa essere un po’ migliore di quella che avrebbe dovuto firmare sotto ultimatum, anche se, come si è puntualmente visto ieri con la proposta tedesca di una Grexit temporanea e il rifiuto finlandese condizionato dai “Veri Finnlandesi”, lo sforzo a cui avrebbero partecipato anche i francesi è servito a poco o nulla. Ma tutto questo, a mio avviso, è secondario rispetto al risultato politico, solo che quel risultato politico dipende anche da come viene interpretato e valorizzato.
L’azione politica del governo greco è stata proprio quella di svelare che la controparte non agisce secondo regole unanimemente avvalorate da una comunità di tecnici (chi legge non tanto Il Manifesto ma il Financial Times o il Sole 24 Ore si rende conto che su molti aspetti della linea guida UE sono in disaccordo, da tempo, anche economisti tutt’altro che marxisti o keynesiani classici alla Stiglitz e Krugman). Inoltre, ha dimostrato – per esempio nella riunione delirante dell’Eurogruppo conclusasi alle cinque di questa mattina – che la UE è attraversata da conflitti, conflitti tra nazioni e interessi nazionali e conflitti sull’idea di Europa, conflitti di potere sinora il più possibile gestiti a porte chiuse. La Francia (del pallido pavido Hollande) non è mai andata così apertamente contro la Germania; i paesi satelliti a Est (cui un partito di origine comunista che parla con Putin fa simpatia quanto uno sputo nell’occhio) forse hanno avuto il loro momento di conflitto di lealtà quando gli Stati Uniti hanno fatto sapere, con forza, che la Grecia sbattuta fuori dall’Euro non era di loro gradimento; il FMI ha calato la carta del debito insostenibile, nonostante alcuni “Europei” avessero premuto per non rendere pubblico il report in cui questa valutazione viene esposta. E tutti, ma proprio tutti, si sono dovuti confrontare con il voto popolare che, anche se lo si vuole considerare una mossa plebiscitaria e demagogica, resta un voto democratico. Con quel 61,31 % di NO i greci hanno espresso, oltre a un’ingombrantissima fiducia al governo, forse in primo luogo la volontà di non sottomettersi, non farsi esautorare e intimidire. Ma sebbene quell’ OXI rigetti solo l’austerità insostenibile e non l’euro, penso che vi si possa comunque cogliere la preferenza per un esito ignoto, il salto dalla finestra (di un piano terra) anziché sorbirsi un altro anno di minestra cucinata secondo le penitenziali o punitive ricette imposte. Non sapevano quello che si accollavano, non riuscivano a prefigurare la reazione feroce che avrebbero scatenato? E nemmeno Tsipras e chi con lui ha deciso per il referendum? Probabile. Ma la politica accade anche lì dove si mette piede su terreno ignoto, dove il rischio non è soltanto calcolo (poi anche i calcolatori più smagati spesso sbagliano a far di conto). Ci si può far male? Sì parecchio.
In ogni caso non è stato solo la scelta di un governo “sbagliato” e l’azzardo del referendum a mettere i greci in una situazione sempre più simile quella del topo della piccola favola di Franz Kafka, dove “queste lunghe pareti si restringono così alla svelta che ho già raggiunto l’ultima stanza, e lì nell’angolo c’è la trappola cui sono destinato” mentre, cambiando direzione, c’è il gatto pronto a mangiarlo. E non è stato il gatto a far loro cambiare direzione; ma il desiderio di non sentirsi in trappola, di potersi sentire liberi e sovrani di decidere della propria sorte.

In ultimo: l’acting out europeo imposto da Syriza ha fatto sì che molte persone venissero a conoscenza di un’altra interpretazione e narrazione della crisi. I media che in Grecia (ma anche in Italia) sono tanto risaputamente orientati da essersi mostrati irrilevanti (scusate il bisticcio) hanno dovuto dare spazio e voce ai protagonisti della parte pià debole. Non tutto è storytelling, ma indubbiamente nei conflitti contemporanei la propaganda ha un ruolo non secondario. Però nelle democrazie, specie europee, il “Quarto Potere” dovrebbe essere vincolato da una certa deontologia nel riportare le notizie e garantire il pluralismo delle opinioni. Il fatto che non funzioni proprio così è uno dei grandi problemi della crisi europea, problema che emerge leggendo gli autorevoli e compassati giornali tedeschi o guardando i telegiornali e le trasmissioni politiche più popolari, quelle del servizio pubblico di cui i cittadini, a differenza nostra, si fidano. Da quando mi è capitato di seguire i media tedeschi a proposito di Grecia, mi sono fatta l’idea di un meccanismo circolare tra opinione pubblica e potere politico-economico dove il mediatore veicola promuove e amplifica consenso, condizionando entrambi, ed è a sua volta condizionato dalla richiesta di dare voce all’opinione pubblica.
Insomma se nell’Unione di tanti stati democratici, per parafrasare Orwell, tutte le democrazie sono uguali ma alcune sono più uguali di altre, questo dipende dal fatto che, in aggiunta al suo ruolo di primo creditore e prima economia, la volontà della maggioranza dei cittadini tedeschi conta di più di quella dei cittadini greci, spagnoli, francesi ecc. La politica europea è stata condizionata dal successo stabile e fortissimo della CDU di Merkel che nel suo terzo mandato governa la Germania da dieci anni con una maggioranza parlamentare non sfiduciabile dalla risicata opposizione e con la SPD di Sigmar Gabriel che, nella questione greca, ha superato la cancelliera a destra. In quel lungo lasso di tempo è stato riprodotto un discorso pressoché unanime, un discorso anch’esso demagogico e nazionalista come rileva Giorgio Mascitelli, fatto di greci fanulloni e truffaldini, di compiti a casa, di regole-che-sono-regole, di “tutti vogliono i nostri soldi”, di Schuld che vale sia debito che colpa, di austerity chiamata, semplicemente, in positivo e senza neologismi, Sparpolitik, politica del risparmio.
Ma a un tratto dalla Grecia arriva Yanis Varoufakis e – letteralmente – buca lo schermo: con il suo inglese elaborato, il suo aspetto da rock star e soprattutto la sua retorica: come quando in un’intervista con ARD usa la favola delle formiche e delle cicale per dire che sono le cicale del Sud e Nord che vivono sulle spalle delle formiche del Sud e Nord, una sorta di Marx for dummies mutuato da Esopo. Qui non sto parlando della sua competenza come ministro o economista ma del semplice fatto che in tutta Europa tutti conoscessero il nome il volto e un pochino anche le idee del ministro delle finanze greco. Ed è esattamente questo, questo assurgere istantaneo a simbolo e idolo che ha fatto concentrare gli sforzi per discreditare il governo Tsipras sulla character assassination o perlomeno messa in ridicolo e addomesticazione “pop” di Varoufakis. Ma nonostante gli enormi passi falsi del medesimo nella gestione della propria immagine (segno ulteriore della purtroppo autentica sprovvedutezza di Syriza), il fatto che un ministro dell’economia – e qui la sfera digitale e dei social ha il suo peso – fosse stato in grado di smuovere e polarizzare a tal punto l’immaginario del continente, resta un segno che la creazione di un eroe o anti-eroe del genere avesse trovato l’humus di una ricettività preesistente.

Resterà qualcosa di tutto questo o è stato tutto effimero e inutile? Non posso dirlo. Ma posso dire che, per la prima volta dall’inizio della crisi dell’Eurozona, queste brecce, queste messe in discussione dello status quo, sono state forti e hanno goduto di una partecipazione senza precedenti.
Ritengo altamente possibile che il governo greco abbia davvero sopravalutato le poche carte che poteva giocarsi. O sottovalutato la cieca convinzione del “blocco tedesco” che “colpirne uno per educare gli altri” – un governo e gli elettori insubordinati – fosse l’obiettivo prioritario e il metodo migliore per un ritorno all’ordine e che la Grexit non avrebbe minato le basi economiche e politiche della UE o forse semplicemente non le proprie e dei propri alleati. Ma so che in tutti modi, almeno a livello europeo (su quel che hanno o non hanno combinato in patria so troppo poco per pronunciarmi), Tsipras, i suoi ministri e soprattutto la maggior parte dei cittadini greci hanno lottato per fare politica. Anzi hanno fatto politica anche se domani o già oggi dovessero risultare schiacciati e sconfitti su tutta la linea. E quindi non è vero che non c’è più spazio per la politica in questo mondo post-tutto: lo spazio, però, bisogna aprirlo con forza, e aspettarsi che qualcuno, con forza anche maggiore, cerchi di chiuderlo.
È assai probabile che la conseguenza del recente braccio di ferro, vuoi che la Grecia resti o venga espulsa dall’eurozona, sarà un’erosione della credibilità e dell’appoggio a Syriza. Con questo, i custodi delle “regole” avranno gioco più facile a sconfiggere anche altrove il pericolo di un’alternativa a sinistra mentre quelle di estrema destra quasi sicuramente ne beneficeranno. Infine è certo che i greci, tutti, pagheranno un prezzo profondamente ingiusto per scelte e colpe inegualmente distribuite: vuoi perché la UE e la Trojka dettano legge da 5-6 anni e Syriza governa da 5-6 mesi ma soprattutto perché, come insegna lo zio Ben a Peter Parker, a un grande potere corrisponde una grande responsabilità. E il potere politico di guida e veto che il governo tedesco esercita nella UE, non riguarda solo la responsabilità verso i propri cittadini ma anche quelli degli altri stati membro, nonché verso tutta la costruzione unitaria.
Per la prima volta ho dei dubbi enormi che “un’altra Europa è possibile” e penso anzi che non sarà più possibile nemmeno questa “Europa” che fa schifo.
Ma non ho dubbi che se senza uno sforzo forte, appoggiato da tanti, il muro da abbattere non si sposta nemmeno di qualche centimetro. Quindi starà a noi scegliere, senza mistificazioni idealizzanti, con discernimento critico ma altrettanta consapevolezza che cosa vogliamo significhi per noi ciò che è accaduto in questi giorni: solo il preludio di una probabile sconfitta, dove non si può far altro che cercare di medicare chi si è schiantato contro un muro, o anche il riafacciarsi di quel uomo che dice no che Albert Camus ha chiamato L’uomo in rivolta.

(*) tratto da http://www.nazioneindiana.com/ – 11 luglio 2015

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