La criminalizzazione di attivisti e dissenzienti in Italia
di Livio Pepino (*)
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1) Il trattamento della protesta e del dissenso come misura della democrazia
Chi – politici, pubblici ministeri e giornalisti – contesta che sia in atto un processo di criminalizzazione del dissenso e dell’opposizione politica radicale afferma che la repressione è semplicemente l’inevitabile risposta alla commissione di reati e che il suo andamento (più o meno intenso) dipende dal numero e dall’entità dei reati commessi. L’affermazione è tanto suggestiva quanto infondata.
È vero, infatti, che da sempre i codici penali prevedono come delitti, a difesa della società, gli atti violenti contro le istituzioni, le aggressioni all’ordine pubblico e le forme più estreme di “contestazione”.
Ma ciò che distingue i sistemi democratico/liberali da quelli autoritari è l’entità della repressione e le forme che essa assume: mentre i sistemi democratico/liberali tendono a minimizzarla e a circondare di garanzie il suo esercizio, quelli autoritari la usano come strumento ordinario di governo, azzerando o riducendo al massimo i diritti di chi vi è sottoposto.
Per questo si può dire che oggi il livello di democraticità di un sistema si misura, più che in base al suo sistema elettorale, in base al grado di repressione politica che esso esercita.
Ci sono casi di scuola di regimi che, pur prevedendo periodiche elezioni (più o meno libere), sono universalmente ritenuti illiberali perché caratterizzati da una repressione indiscriminata del dissenso e/o delle minoranze: l’Iran degli ayatollah, la Russia di Putin, la Turchia di Erdoğan, l’Egitto di Al Sisi, l’Israele di Netanyahu (non solo oggi ma da decenni dedita a un violento apartheid nei confronti della popolazione palestinese), etc.
Non è la situazione ordinaria dei paesi occidentali, ma le differenze si stanno attenuando, ché questi ultimi rispondono sempre più alla crisi di consenso e di partecipazione che li attraversa con un surplus di repressione del dissenso radicale [1].
Basta guardare gli Stati Uniti e l’Europa (non solo l’Ungheria di Orbán ma anche la Spagna, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna e, non ultima, l’Italia, come vedremo più avanti), tutti coinvolti nel processo di trasformazione dello Stato sociale in Stato penale, nella crescita – in quantità e in qualità – degli interventi repressivi nei confronti del “nemico interno”, nella dilatazione (spesso incontrollata o addirittura favorita) del potere degli apparti, nel deperimento del sistema delle garanzie. È a questo surplus che si fa riferimento quando si parla di criminalizzazione del dissenso e di diritto penale del nemico.
Nessuna sorpresa.
La mancata corrispondenza tra andamento dei reati e andamento della repressione è, a livello generale, un fatto confermato da tutte le ricerche criminologiche, per ogni tipo di reato. Basti dire che, nel nostro Paese, il picco dei delitti in generale si è avuto nei primi anni Novanta del secolo sorso, quando in carcere c’erano poco più di 30.000 detenuti (35.485 il 31 dicembre 1991) mentre oggi, con i reati più gravi in netto calo (gli omicidi volontari, per limitarsi a un esempio, sono passati, da 1938 del 1991 a 314 del 2024), i detenuti sono circa il doppio (erano 62.728 il 30 giugno scorso). Il fatto è che l’entità della repressione, pur ovviamente legata alla commissione di reati, risente delle politiche “criminali” assi più che dell’andamento dei reati stessi.
Un’ultima considerazione. Questa fotografia della realtà, lungi dall’essere frutto di una visione estremizzata o di parte, è patrimonio comune degli osservatori imparziali e non mainstream. Uno per tutti: «La prima cosa che dovrebbero chiedersi i giuristi oggi è che cosa poter fare con il proprio sapere per contrastare questo fenomeno, che mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità. In concreto, la sfida presente per ogni penalista è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali»[2].
2. Continuità e novità della repressione in Italia nel nuovo millennio
Nel nostro Paese il tentativo di governare la società con la repressione non è una novità, ma una sorta di fiume carsico che ha caratterizzato non solo l’epoca liberale e il fascismo [3] ma anche l’interregno post fascista [4] e, poi, il periodo repubblicano.
Basti dire che dal 1946 al 1977 si sono contati ben 155 morti nel corso di manifestazioni (di cui 14 tra le forze di polizia e 141 tra i dimostranti) [5] e ricordare che le strette repressive si sono succedute in tutti i periodi di crisi sociale e politica, a partire dalla fine dei “trent’anni gloriosi”, quando vide la luce la cosiddetta legge Reale sull’ordine pubblico (legge n. 152 del 1975), che rese più facile e impunito l’uso di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine, reintrodusse il fermo di polizia e aumentò i termini della carcerazione preventiva.
Oggi ci sono, peraltro, due importanti novità che segnano la stagione iniziata con il nuovo millennio:
a) la rinnovata svolta repressiva avviene dopo un periodo di allentamento del controllo poliziesco e penale e di (tentata) democratizzazione degli apparati di polizia. Negli ultimi decenni del secolo scorso, sulla scia dell’amnistia politica varata nel 1970 per chiudere le pendenze dell’autunno caldo[6], si era aperta una stagione di depenalizzazione (pur cauta e contraddittoria), plasticamente evidenziata dalle vicende dell’oltraggio e del blocco stradale, depenalizzati, in tutto o in parte, nel 1999 e ripristinati, rispettivamente, 10 e 19 anni dopo con la legge 15 luglio 2009 (uno dei primi “pacchetti sicurezza”) e con il decreto legge 4 ottobre 2018, n. 113 (primo decreto Salvini).
Quel che è oggi in atto sul versante legislativo – con una proliferazione di reati senza precedenti, un aumento generalizzato delle pene e l’introduzione di aggravanti inedite – è un nuovo paradigma repressivo, addirittura più accentuato di quello previsto dal codice Rocco (nel quale, per esempio, la commissione di reati nel corso di manifestazioni, ora configurata come aggravante per molti reati, era considerata, a certe condizioni, un’attenuante ai sensi dell’art. 62 n. 3 codice penale).
Non solo, ma, sul finire del Novecento, la smilitarizzazione e la sindacalizzazione della polizia (introdotte con la legge 1 aprile 1981, n. 121) e il ricambio dei vertici degli apparati avevano attenuato la strategia di controllo della piazza fondata sulla contrapposizione frontale e fatto balenare la possibilità di un governo negoziato del conflitto nel quale il diritto di manifestare fosse considerato prioritario, forme anche dirompenti di protesta fossero tollerate, la comunicazione fra manifestanti e polizia venisse considerata fondamentale e si cercasse di ridurre l’uso di mezzi coercitivi puntando alla selettività degli interventi. Questa impostazione (che aveva dato, in realtà, buoni frutti a cominciare dal venir meno di morti e feriti nel corso di manifestazioni) si è interrotta nel luglio 2001 a Genova [7] con l’emergere di una nuova strategia che ha avuto, poi, il banco di prova principale in Val Susa, con un intervento – tuttora in corso – che di è dispiegato per oltre un decennio diventando una sorta di “caso di scuola”[8] (a cui, per questo, si faranno ripetuti riferimenti nel seguito);
b) gli oppositori e i dissenzienti sono cambiati ed è cambiato il loro riconoscimento sociale. Non per caso, ma perché stanno cambiando i protagonisti del conflitto e della protesta: non più (almeno in prevalenza) operai e braccianti, come nella seconda metà del secolo scorso, ma (sempre in prevalenza) antagonisti, studenti e attivisti ambientali (a cominciare dagli odiati No Tav), considerati alla stregua di pericolosi sovversivi, dopo il fallimento dell’iniziale tentativo dell’establishment di blandire i Fridays for Future e l’irruzione sulla scena di Extinction Rebellion e di Ultima Generazione.
Ma soprattutto gli oppositori e i dissenzienti oggi sono isolati, sia dalla politica che dai media, che veicolano, anzi, la vulgata dell’esistenza di un conflitto sociale di particolare intensità. E ciò mentre la situazione, nel nostro Paese, è quella di un conflitto a bassa intensità (a differenza di quanto accaduto tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta [9] e di quanto sta accadendo, per esempio, nella vicina Francia). Superfluo dire che l’opposta narrazione, lungi dall’essere casuale, è il portato di uno stile di governo della società, della strumentalizzazione della paura, della considerazione dell’antagonismo alla stregua di un delitto. Fino a punte grottesche, come l’evocazione continua del pericolo anarchico o, addirittura, dell’ “attacco al cuore dello Stato” realizzato con l’imbrattamento dell’ingresso del Senato. (Continua)
(*) Tratto da Questione Giustizia.
Il testo è la rielaborazione della relazione svolta il 19 luglio 2025 nel corso di formazione di Rovigo di Amnesty International.
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Immagini:
[1] Bansky, Londra, 2025.
[2] Aldo Barbieri, La Fossetta delle Armi, Crevalcore, 1948-1949.
[3] Blu, Bologna, sul muro del XM24. Cancellato nel 2016 contro un tentativo di privatizzazione della street art.
Note:
[1] Merita aggiungere che, parallelamente, anche la valenza democratica dei sistemi elettorali di molti paesi occidentali va scemando. Da un lato per il prevalere di sistemi maggioritari, che riducono massicciamente la rappresentanza, e per la caduta verticale del numero dei votanti (spesso inferiore alla metà degli aventi diritto). Dall’altro perché – come dimostrano numerose indagini negli Stati Uniti e in Europa – il protagonista delle elezioni è sempre meno il popolo e sempre più il denaro, al punto che, da alcuni decenni, si sta affermando la regola – smentita da pochissime eccezioni – che a vincere le elezioni sono i candidati che hanno a disposizione il budget maggiore (cfr. sul punto, già più di dieci anni fa, M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, 2013, pp. 84 ss.).
[2] Forse qualcuno si sorprenderà, ma la citazione e di Papa Francesco, nel discorso indirizzato il 15 novembre 2019 ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale.
[3] Il riferimento è ai ricorrenti interventi limitativi di diritti fondamentali (fin dalla legge Pica del 1863 per la repressione del brigantaggio); alle ripetute proclamazioni, durante il periodo liberale, dello stato di assedio; all’affidamento della gestione dell’ordine pubblico all’esercito (come nel 1898 a Milano, quando le truppe del generale Bava Beccaris spararono con i cannoni sulla folla); ai processi agli anarchici di fine Ottocento (con imputazioni mirabolanti e carcerazioni preventive prolungate, seguite per lo più, ad anni di distanza dai fatti, da assoluzioni dibattimentali); alle interpretazioni giurisprudenziali in tema di domicilio coatto o di «associazione di malfattori» (ripetutamente contestata ad anarchici e socialisti); all’uso spregiudicato dei reati di opinione (fino al punto da ritenere, in alcune sentenze, integrato il delitto di eccitamento all’odio di classe, in espressioni come «abbasso la borghesia, viva il socialismo!» o addirittura nel semplice canto dell’inno dei lavoratori); alla previsione come reati dei comportamenti tipici del conflitto sociale (a cominciare dallo sciopero: art. 502, comma 2, del codice Rocco del 1930, rimasto in vigore sino alla dichiarazione di illegittimità avvenuta con la sentenza 4 maggio 1960, n. 29, della Corte costituzionale), etc.
[4] Prima dell’avvento della Repubblica, all’indomani della caduta del regime fascista, la circolare 26 luglio 1943, emanata per impedire manifestazioni popolari contro il Governo e contro la guerra, dispose lo stato d’assedio provocando 80 morti, 300 feriti e 1.500 arresti. Nel testo della circolare si legge: «qualunque pietà e riguardo nella repressione è un delitto. Poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito. Ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine. Non è ammesso il tiro in aria. Si tira sempre a colpire come in combattimento»
[5] In particolare va ricordata la circolare Pacciardi del 1° giugno 1950, con cui venne militarizzato l’ordine pubblico per contrastare le manifestazioni di operai e braccianti, con l’effetto che, dal gennaio 1948 al luglio 1950, ci furono, nel corso di manifestazioni di piazza, 62 lavoratori morti, 3.123 feriti, 91.433 arrestati e 19.313 condannati.
[6] L’amnistia politica concessa con l’art. 1 del decreto presidenziale 22 maggio 1970 fu finalizzata a chiudere la stagione del ’68-’69 nella quale – con riferimento al solo ultimo quadrimestre del 1969 – erano state denunciate, secondo i dati del ministero dell’Interno, 8.396 persone per 14.036 reati, tra i quali 235 per lesioni personali, 19 per devastazione e saccheggio, 4 per sequestro di persona, 124 per violenza privata, 1.610 per blocchi stradali e ferroviari, 29 per attentati alla sicurezza dei trasporti, 3.325 per invasione di aziende, terreni ed edifici e 1.376 per interruzione di pubblici servizi. Disse, allora, il relatore della legge autorizzativa dell’amnistia che occorreva dare risposta al «disagio diffuso nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di reato che erano stati dettati in un’epoca in cui era sconosciuta la realtà storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli Stati moderni». Da notare che l’amnistia riguardò tutti i reati «commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell’occupazione, della casa e della sicurezza sociale e in occasione ed a causa di manifestazioni ed agitazioni determinate da eventi di calamità naturali» punibili con una pena non superiore nel massimo a cinque anni e, sempre alle stesse condizioni, la violenza o minaccia a corpo politico o amministrativo, la devastazione, gli attentati alla sicurezza di impianti, il porto illegale di armi o parte di esse e l’istigazione a commettere taluno dei reati anzidetti.
[7] Il bilancio delle manifestazioni in occasione del G8 di Genova è stato, tra il 20 e la notte sul 22 luglio, di 253 arresti tra i manifestanti (di cui 93 nel corso della perquisizione alle scuole Diaz e Pertini la notte sul 22). Ad essi vanno aggiunti 49 arrestati nel giorni successivi (soprattutto cittadini stranieri che si stavano allontanando da Genova). Dei 253 arrestati 28 sono stati posti in libertà direttamente dalla Procura che ha chiesto, per gli altri 225, la convalida dell’arresto. I gip non hanno convalidato 76 arresti; alle 149 convalide hanno fatto seguito 100 scarcerazioni per mancata emissione di misure cautelari, 29 misure cautelari non detentive e 20 applicazioni della custodia in carcere. Il bilancio dei feriti è stato di 560 medicati o ricoverati in ospedale (e si tratta, ovviamente, di una rappresentazione sottodimensionata della situazione, dovendosi tener presenti i molti che non si sono recati in ospedale per timore di ritorsioni e quelli che hanno fatto ricorso a cure in ospedali non genovesi).
[8] In Val Susa nel decennio 2010-2020 sono state indagate circa 2.500 persone (con una punta di 327, quasi uno al giorno, nel 2011) con una incidenza territoriale percentuale che non ha pari nemmeno nei territori di mafia. A ciò si sono accompagnati arresti e misure cautelari in gran numero, contestazioni di reati gravissimi (fino all’attentato con finalità di terrorismo) e forzature di diverso genere su cui si tornerà più avanti.
[9] Basta riandare alle tappe principali della storia del dopoguerra con i veri e propri moti successivi all’attentato a Togliatti, la sommossa di Genova del luglio 1960, le manifestazioni di piazza Statuto e di corso Traiano a Torino o, ancora, alcune manifestazioni del 1968; e lo stesso vale per Reggio Calabria e il movimento dei “boia chi molla” che, tra il 1970 e il 1971 paralizzò la città per sei mesi con 6 morti, assalti alla questura e alla prefettura, carri armati sul lungo mare.
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