A Gaza continuano a uccidere i palestinesi, col sostegno dell’Uccidente

articoli, video, immagini di Gideon Levy, Alberto Negri, Alessandro Orsini, Hamas, Manlio Dinucci, Jonathan Ofir, Osservatorio Euro-Mediterraneo, Elena Basile, Matteo Saudino, Alastair Crooke, Ephrem Kossaify, Paolo D’Arpini, Pepe Escobar, Emmanuel Todd, Antonio Cipriani, Disarmisti esigenti, Antonio Gibelli, Chappatte, Beppe Corlito, Latuff, Triestino Mariniello, Naomi Klein

Gideon Levy sulla bizzarra difesa alla CIG sul genocidio

Addolorato il j’accuse di Gideon Levy riguardo la difesa israeliana sulle accuse di genocidio portate dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia (Cig). Ne scrive su Haaretz, ne riportiamo ampi brani.

Gaza, è genocidio?

“Come definire, in altro modo, i bambini moribondi sui pavimenti degli ospedali, alcuni dei quali non hanno più nessuno al mondo, e gli anziani civili affamati che fuggono per salvarsi la vita dall’incessante minaccia delle bombe che cadono ovunque?”

“La definizione giuridica cambierà il loro destino? Israele tirerà un sospiro di sollievo se la Corte respingerà le accuse? Per quanto riguarda il nostro Paese, se questa situazione non sarà giudicata come genocidio, la nostra coscienza sarà di nuovo pulita. Se L’Aia proclamerà che ‘non c’è un genocidio in atto’, saremo di nuovo gli uomini  più morali del mondo”.

Quindi, Levy ironizza sulla difesa esposta dai legali israeliani presso la Corte, ricordando anche l’accusa lanciata al Sudafrica di essere il “braccio legale di Hamas”, che riportiamo perché significativa della poca lucidità che stanno dimostrando nell’occasione gli esperti di pubbliche relazioni di Tel Aviv, che sperano di coprire quanto si sta consumando nella Striscia brandendo l’accusa di connivenza con Hamas contro chiunque devii dalla narrativa della Hasbara.

Israele e la Corte di giustizia internazionale

Levy segnala, in particolare, due passaggi della difesa, riguardo ai quali, annota, “era difficile decidere se ridere o se piangere. Come quando si è sostenuto che solo  Hamas è responsabile della situazione di Gaza. Israele non vi ha alcun ruolo né partecipazione. Dirlo a una prestigiosa istituzione internazionale significa mettere in dubbio e insultare l’intelligenza dei suoi giudici”.

“E che dire delle osservazioni del capo della squadra della difesa israeliana, professor Malcolm Shaw, il quale ha affermato: ‘Le azioni di Israele sono proporzionate e prendono di mira solo le forze armate?’ Che dire, appunto di quanto avviene realmente? Proporzionate con tutta la distruzione in atto? Se questo significa proporzionato, cos’è sproporzionato? Hiroshima?” [la cui devastazione, peraltro, è stata evocata da alti funzionari israeliani per quanto riguarda Gaza (New York Times), sulla quale si è abbattuta una potenza esplosiva doppia di quella di Hiroshima (al Jazeera)].

Inoltre, continua Levy, che dire delle altre affermazioni di Shaw, secondo il quale la nostra azione è rivolta “‘solo contro le forze armate’, quando si registra una moltitudine di bambini morti? Di cosa stava parlando? E poi quel ‘telefoniamo per evacuare le persone non coinvolte’; quante persone hanno ancora un telefono funzionante a Gaza e dove, esattamente, dovrebbero evacuare in quell’inferno, nel quale non rimane un solo angolo di territorio sicuro? E poi la conclusione definitiva: ‘Anche se i soldati violassero le leggi di guerra, il sistema legale israeliano si farà carico di questo”.

“Sembra che Shaw non abbia mai sentito parlare del sistema legale israeliano e ancor meno di quello che viene definito sistema legale militare. Non ha sentito che dopo l’operazione Piombo Fuso, il conflitto con Gaza del 2008-2009, solo quattro soldati sono stati incriminati per reati penali e solo uno di loro è finito in prigione per il furto di una carta di credito (!). Tutti gli altri, che hanno imperversato con bombe e proiettili contro degli innocenti, non sono stati incriminati, né mai lo saranno”.

“E che dire delle osservazioni della dottoressa Galit Rejwan, la scoperta del fine settimana – la quale senza dubbio sarà scelta per accendere la fiaccola di quest’anno alla cerimonia del Giorno dell’Indipendenza sul monte Herzl – che ha affermato: ‘L’IDF sta trasferendo gli ospedali in un luogo più sicuro’. Al Shifa verrà trasferita a Saba? Rantisi a Soroka? Di quali luoghi sicuri a Gaza sta parlando e quali ospedali sposterà l’IDF?”

“Niente di tutto ciò, ovviamente, prova che Israele ha commesso un genocidio. Lo deciderà il tribunale. Ma come sentirsi a proprio agio con tali argomenti a favore della difesa? Come sentirsi bene dopo L’Aia? Come sentirsi bene dopo Gaza?”
L’ombra di Mandela sulla causa del Sudafrica

Un’ultima annotazione la riprendiamo dall’Associated Press, che racconta l’incontro tra Nelson Mandela con Yasser Arafat, quando i due leader politici ebbero ad associare le rispettive cause, la fine dell’Apartheid e la lotta di liberazione del popolo palestinese.

Tanto che, quando tutto il mondo si felicitò con Mandela per la vittoria della sua causa, dopo aver ringraziato per le felicitazioni, aggiunse: “Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.

Così suona convincente il titolo che l’Ap ha inteso dare alla sua nota: “L’impegno di Mandela per la causa palestinese continua oggi con la causa intentata del Sudafrica a Israele per genocidio”.
Per questo è così importante che a intentare la causa per genocidio sia stato il Sudafrica, che ha conosciuto gli orrori dell’apartheid, condizione alla quale erano sottoposti i palestinesi ben prima del 7 ottobre e della guerra di Gaza, come denunciato da Amnesty international e come hanno affermato più volte tanti intellettuali israeliani, compresi tanti recalcitranti ad accettare tale accusa, e addirittura l’ex capo del Mossad Tamir Pardo, che sapeva perfettamente di cosa stesse parlando.

da qui

 

 

 

L’essere vittime non dovrebbe essere una condizione per la solidarietà con la Palestina

Alcuni alleati della Palestina sembrano più a loro agio con i palestinesi come vittime del dominio coloniale israeliano che come agenti della loro stessa liberazione. I palestinesi hanno bisogno di sostegno quando combattono, non solo quando muoiono.

(Da un collaboratore anonimo)

Nota dell’editore: il seguente articolo è di un giornalista palestinese residente in Palestina che ha richiesto l’anonimato per paura della repressione israeliana.

La mortale operazione militare lanciata dai combattenti di Hamas da Gaza il 7 ottobre ha scioccato la società dei coloni israeliani. Ma non sono solo gli israeliani a essere sconcertati: anche molti sostenitori della liberazione palestinese in tutto il mondo si sono trovati in difficoltà nel dare un senso a questi eventi e incerti sulla posizione da assumere. Solo quando Israele ha iniziato il suo intenso attacco contro Gaza, uccidendo decine di migliaia di palestinesi, la linea morale è diventata nuovamente chiara per molti, e l’ondata di solidarietà è ritornata.

Sebbene questo sostegno sia vitale in un momento in cui Gaza sta affrontando un genocidio, è istruttivo analizzare il contesto in cui il sostegno globale si è radunato a supporto dei palestinesi. Sembrerebbe che molti sostenitori della Palestina si sentano più a loro agio quando i palestinesi sono percepiti come semplici vittime passive del dominio coloniale israeliano. Questa non è stata la situazione del 7 ottobre, quando, per la prima volta dopo anni, i rifugiati emarginati della Striscia di Gaza hanno reagito su così vasta scala all’interno delle loro terre occupate da Israele nel 1948. Anche tra coloro che sono solidali con i palestinesi, questa azione ha causato molta confusione intellettuale, , che necessita ancora di essere chiarita.

Mentre i dettagli di ciò che è accaduto il 7 ottobre stanno ancora venendo alla luce, ciò che è noto è che centinaia di combattenti palestinesi sono fuggiti da Gaza sotto la copertura del lancio di razzi e hanno aperto il fuoco sui coloni: civili, soldati e polizia. I successivi resoconti dei media continuano a rivelare che alcune di queste vittime sono state il risultato di attacchi aerei e terrestri israeliani, ma il bilancio complessivo delle vittime israeliane quel giorno ha superato le 1.100.

L’abbondanza di immagini raccapriccianti di violenza, combinata con il numero senza precedenti di vittime israeliane, ha sollevato interrogativi in alcuni sull’uso della violenza da parte dei colonizzati nella lotta per la liberazione. Alcuni si sono chiesti perché i civili sembrassero essere presi di mira e/o perché i quartieri residenziali fossero stati invasi. Altri si sono chiesti perché l’operazione abbia avuto luogo all’interno di “Israele vero e proprio” anziché limitarsi al “territorio occupato”, utilizzando questa falsa dicotomia per mettere in discussione la resistenza al colonialismo.

Questo articolo non intende necessariamente difendere le azioni intraprese durante il recente attacco palestinese, ma piuttosto collocarle in una prospettiva anticoloniale contestualizzata. Ciò è particolarmente importante per coloro che, nel movimento di solidarietà con la Palestina, non possono permettersi di rifuggire dalle complessità del colonialismo dei coloni e dalle violente lotte per la liberazione da esso.

Rompere una falsa dicotomia

Troppo spesso Gaza è vista solo nel contesto della più grande prigione a cielo aperto del mondo – un’enclave assediata dove sono rinchiusi circa 2 milioni di palestinesi. La Striscia, insieme alla Cisgiordania, è anche considerata parte del “Territorio palestinese occupato” conquistato da Israele nel 1967. Questa  definizione spesso separa queste parti della Palestina da ciò che è spesso considerato l’“Israele vero e proprio” o dalle aree occupate durante la Nakba. . Questa definizione normalizza e maschera la natura coloniale e le origini di Israele che risalgono almeno al 1948.

Sulla base di questo ragionamento, a differenza dei “coloni” presenti nei territori del 1967, gli israeliani che vivono nelle terre occupate nel 1948 – come quelli che risiedono intorno a Gaza – sono visti come non coinvolti ed esterni al conflitto. Allo stesso modo, anche i palestinesi di Gaza o della Cisgiordania, o i rifugiati della diaspora, sono spesso percepiti come estranei alle parti della loro patria rubate nel 1948.

Questa prospettiva ignora il lungo passato di pulizia etnica culminata nella Nakba del 1948 e nell’espropriazione dei palestinesi dalla stragrande maggioranza della Palestina mandataria, compreso il distretto di Gaza, in cui decine di villaggi furono cancellati dalla faccia della terra.

I leader israeliani lo hanno capito fin dalla Nakba.

Nel 1956, l’allora capo di stato maggiore dell’IDF Moshe Dayan – che in seguito sarebbe stato ministro della difesa israeliano – lesse un elogio funebre sulla tomba di un israeliano ucciso dai palestinesi che attraversavano il confine da Gaza. “Non dobbiamo attribuire la colpa agli assassini”, ha detto. “Come possiamo biasimarli per il loro terribile odio nei nostri confronti? Per otto anni sono rimasti nei campi profughi di Gaza, e proprio davanti ai loro occhi abbiamo trasformato le terre e i villaggi in cui loro e i loro antenati hanno vissuto in nostre proprietà”.

Oggi, la Striscia di Gaza ospita rifugiati provenienti da questi villaggi e città, e da altre aree della Palestina, compreso dove oggi si trova l’insediamento di Tel Aviv, le cui case e proprietà sono state derubate da Israele. I rifugiati costituiscono circa l’80% della popolazione di Gaza, provenienti da oltre 190 località spopolate in tutta la Palestina mandataria, tutte assediate entro 140 miglia quadrate. Dal 1948, Israele ha negato il ritorno dei profughi palestinesi alle loro case e alle loro terre, consentendo invece liberamente agli ebrei di tutto il mondo di ottenere la cittadinanza israeliana e di prendere il loro posto. La terra dei rifugiati palestinesi è stata occupata dai coloni israeliani, che a volte vivono addirittura nelle stesse case che appartenevano ai palestinesi.

E infatti, i palestinesi di Gaza non vedono la recinzione che li imprigiona come un “confine con Israele”, ma come una barriera che li separa dalle loro terre colonizzate e dai villaggi rubati, ingabbiandoli nei campi profughi. Inoltre, i rifugiati di Gaza non considerano gli israeliani che vivono negli insediamenti costruiti sulle rovine dei loro villaggi come semplici civili non coinvolti. Piuttosto, li vedono come coloni, un pilastro principale di un classico caso di colonialismo come quello in Algeria e Sud Africa.

Nel 2018 e nel 2019, i cecchini israeliani hanno ucciso a colpi di arma da fuoco centinaia di abitanti di Gaza che protestavano davanti alla recinzione durante la Grande Marcia del Ritorno settimanale. L’uso stesso della parola “ritorno” come slogan riflette il desiderio dei palestinesi non solo di togliere l’assedio, ma di tornare e rivendicare la loro patria perduta e smantellare il campo di concentramento per rifugiati che è stato costruito nella Striscia di Gaza.

Una nuova caduta per la “sinistra” israeliana

Dopo il 7 ottobre, ampi settori della cosiddetta sinistra israeliana, compresi coloro che si identificano come “antisionisti” o “anticolonialisti”, sono caduti ancora una volta nella trappola di confrontare le azioni dei palestinesi con quelle dei loro colonizzatori israeliani. Alcuni hanno denunciato la violenza palestinese allo stesso modo della violenza sistemica statale e sponsorizzata dallo stato perpetrata contro i palestinesi, mettendo da parte la disparità di potere tra colonizzatore e colonizzato. Questo discorso ritrae una visione del mondo separata dalla storia, in cui Israele non è una società di coloni, e le città e i paesi costruiti su terreni rubati nel 1948 sono intesi al di fuori del contesto del colonialismo dei coloni.

Questo discorso ignora che i palestinesi nel ghetto di Gaza, in Cisgiordania e nei territori del 1948 vivono ai margini del destino di cui sono stati derubati, con le loro vecchie case a portata di mano. Inoltre, all’interno di questo discorso, gli israeliani non vengono mai percepiti come una scelta attiva di partecipare al progetto dei coloni: semplicemente vivono. L’impatto immediato e le ripercussioni a lungo termine di come queste vite vengono vissute a spese dei palestinesi sono semplicemente inesistenti o ritenute irrilevanti.

​Pertanto, mentre i palestinesi vedono come liberatorio l’atto di sfidare la falsa dicotomia del 1948/1967, questa logica non trova posto nella mente israeliana, nemmeno in gran parte della sinistra.

Affrontare veramente questa realtà significa non solo comprendere teoricamente l’ingiustizia e lo squilibrio di potere, ma anche portare il peso della decolonizzazione e comprendere il proprio ruolo come parte della società dei coloni. Parlare da soli, senza il sacrificio richiesto per sostenerlo, è economico. Il processo di decolonizzazione non è privo di costi e i membri della società dei coloni che lo sostengono devono essere disposti a rinunciare veramente ai privilegi sociali, politici e materiali concessi loro per decenni e comprendere che alcuni danni sono inevitabili nel processo di liberazione.

La decolonizzazione può essere brutta, ma il futuro non necessariamente lo è

Il colonialismo non cede, non da solo e non perché lo chiedi gentilmente. La decolonizzazione è una causa nobile, ma il percorso per realizzarla è spesso inquinato dalla violenza. Ciò può essere osservato in casi come Sud Africa, Algeria e Irlanda, tra gli altri, dove non si è verificata una “decolonizzazione pulita”. In assenza di un percorso alternativo realistico verso la liberazione, le persone sono costrette a compiere atti brutti ma necessari – una conseguenza fondamentale della disparità di potere. Esigere che gli oppressi agiscano sempre nel modo più puro significa esigere che rimangano per sempre in schiavitù.

I concetti di crimini di guerra o di diritto internazionale non sono rilevanti per le persone sottomesse che lottano per smantellare il dominio coloniale mentre sono sotto il controllo di un potere repressivo. Si tratta di strumenti postcoloniali di risoluzione dei conflitti che non sono progettati per annullare il colonialismo del tipo che vediamo in Palestina.

È anche importante notare che, sebbene la decolonizzazione sia spesso sanguinosa, l’obiettivo dei palestinesi non è semplicemente quello di uccidere o rimuovere i coloni israeliani dalla Palestina. La carta di Hamas afferma che il movimento si batte per la creazione di uno stato islamico in cui agli ebrei sarà permesso di vivere, e la sinistra palestinese ha chiesto per decenni di creare un unico stato democratico basato sulla giustizia e sull’uguaglianza dei diritti individuali per tutti. Indipendentemente dalla visione politica, qualsiasi futuro realizzabile di vera giustizia per tutti tra il fiume e il mare deve essere costruito sulla lotta per smantellare il colonialismo e le dinamiche sottostanti che lo sostengono. Per questo, quando si sostiene la lotta palestinese, è importante non limitare il proprio sostegno alle sole vittime palestinesi.

E infine, anche se un certo grado di violenza politica può sempre essere necessario nelle lotte di liberazione, dobbiamo, soprattutto, rimanere umani affinché possa emergere una società di giustizia. Quando i confini vengono oltrepassati, come nel caso dell’uccisione di minori, ciò dovrebbe essere ammesso, ma la lotta nel suo complesso, compreso l’uso della violenza politica contro la società dei coloni, non deve essere sottovalutata o condannata. A tal fine, i palestinesi sono stati rincuorati nel vedere anche alcuni compagni coloni israeliani che si oppongono al colonialismo e si rifiutano di denunciare Hamas, ma interpretano il 7 ottobre come una giornata di resistenza. E al movimento di solidarietà mondiale, i palestinesi esortano gli alleati a sostenere i palestinesi quando combattono, non solo quando muoiono.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono oralmente uguali” -Invictapalestina.org

da qui

 

 

Aspettando le decisioni dell’Aia – Antonio Gibelli

La questione giuridica sollevata dalla denuncia del Sudafrica contro
Israele andrà risolta nella sede della Corte internazionale di giustizia
cui è stata posta. La procedura prevede che prima dell’emissione della
sentenza, la quale potrà richiedere un tempo lungo, si possa imporre
l’interruzione dell’azione israeliana, il che appare importante perchè
–  a differenza della feroce azione terroristica di Hamas, consumata in
un giorno – quella di Israele, comunque la si qualifichi, è in corso
tutt’ora e si annuncia come durevole.
La denuncia del Sudafrica ha sollevato polemiche, distinguo, prese di
distanza, inclusi argomenti palesemente capziosi (come l’equiparazione
di Gaza a Dresda, ossia di due milioni di civili palestinesi contrapposti agli
ottanta milioni di tedeschi della superpotenza mondiale nazista) di cui
non val la pena di occuparsi. Inoltre si parla molto delle malefatte del
Sudafrica e poco o niente del merito. Soprattutto si solleva scandalo
contro chi osa  accomunare sotto la categoria di genocidio il
comportamento attuale di Israele e la Shoah.
La Shoah ha un valore giustamente paradigmatico perchè combina tutti i
possibili ingredienti del genocidio nella forma più sistematica, ma non
esaurisce tutte le varianti possibili. Non tutti i genocidi sono uguali,
ciò che non vieta in sede storica di chiamarli con questo nome:
genocidio è stata la Shoah, ma anche quello del popolo armeno, quello
del Ruanda (scatenato da una stratificazione sociale e di potere che
aveva preso una configurazione etnico-tribale), alcuni parlano di
genocidi  anche nel caso delle popolazioni precolombiane sterminate dai
conquistatori, decimate indirettamente dalle epidemie e
programmaticamente sottoposte a sradicamento delle loro culture per
imporre loro quella cattolica. Dunque, la categoria non può essere
ridotta a un modello unico ma può essere discussa in sede storica e
applicata a eventi diversi.

Modalità dell’azione israeliana: uccisioni dirette
L’esercito di Israele, il quarto meglio equipaggiato del mondo, dotato
dei mezzi più sofisticati di scelta, controllo e raggiungimento degli
obiettivi, colpisce il territorio di Gaza con bombardamenti che uccidono
sistematicamente in maggioranza uomini non armati, donne e bambini,
personale medico, giornalisti, e così via.  Secondo i dati forniti
dall’ONU, la media giornaliera fino all’11 gennaio era di 247 morti, di
cui 48 madri, 117 bambini, 3 medici, 2 insegnanti, 1 impiegato ONU, 1
giornalista. Essendo esclusa l’incapacità, non resta che l’intenzione: o
esplicita, come finalità perseguita  o come conseguenza accettata
dell’azione (effetto collaterale programmato). Un evento del genere una
tantum potrebbe essere considerato preterintenzionale (è il caso
dell’uccisione dei propri soldati seminudi, disarmati e con vessillo di
resa, che si è effettivamente verificata almeno una volta). Ma non è
questo il caso in questione.

Modalità dell’azione israeliana : morti, malattie e sofferenze provocate
Alle morti direttamente provocate dai bombardamenti, si aggiungono le
morti, le malattie e le menomazioni permanenti, per ora incalcolabili,
dovuti alla limitazione dei mezzi di sussistenza (energia, acqua, cibo),
quindi alla denutrizione,  e alla sistematica distruzione delle
strutture abitative e sanitarie, le case e gli ospedali, in particolare
le sale operatorie e di rianimazione, le incubatrici per neonati ecc..
Tutto questo è reso possibile dallo statuto imposto da Israele a Gaza,
divenuta una specie di enorme  campo di concentramento: un territorio
occupato, incaccessibile nè da terra nè dal mare se non sotto il
controllo di Israele stesso, a parte il varco egiziano ora ugualmente
controllato anche da Israele. Una popolazione così confinata può essere,
ed è stata, ridotta alla fame, alla sete, all’impossibilità di
comunicare anche con la sospensione temporanea di internet.

Continuità dell’azione
L’azione omicida  di Israele è cominciata all’indomani della strage
perpetrata da Hamas ed è proseguita senza interruzione tranne una breve
sospensione per lo scambio di prigionieri. Il governo Israeliano ha
annunciato che la “guerra” durerà ancora a lungo, precisando poi “almeno
un anno”. La prosecuzione viene motivata con il mancato raggiungimento
dello scopo proclamato (la distruzio
one di Hamas), che viene dunque procrastinato di giorno in giorno e di
mese in mese. Un’attività che provoca prevalentemente se non
esclusivamente vittime civili senza raggiungere lo scopo dichiarato, e
che viene iterata di giorno in giorno, costituisce un crimine continuato
dagli effetti tendenzialmente illimitati. Col ritmo attuale, tra un anno
sarebbe eliminato il 10% della popolazione di Gaza. Se non persegue
apertamente, certo Israele non esclude l’eliminazione fisica pressochè
totale della popolazione di Gaza.

Complementarietà tra omicidi di civili e pulizia etnica (spostamento
coatto ed espulsione di popolazione).

Accanto all’uccisione e all’invalidazione  metodica cotinuata di
civili, diretta e indiretta, Israele ha enunciato, progettato, messo in
atto programmi di spostamento coatto, deportazione, espulsione simili a
quelli che hanno preceduto e/o accompagnato genocidi riconosciuti come
tali: ad esempio quelli del popolo armeno da parte dello stato turco
durante la prima guerra mondiale e dello stato nazista con la
collaborazine dei fascisti francesi, italiani ecc. durante la seconda.
Lo stato turco, alleato della Germania (che per questo chiuse un
occhio), diede corso al genocidio attraverso un’operazione di
spostamento coatto che aveva lo scopo dichiarato di allontanare gli
Armeni dal confine con l’Impero zarista che li proteggeva: dunque, uno
scopo di sicurezza interna dovuto alla guerra in corso e non una
intenzione genocida dichiarata. Di fatto si risolse in un genocidio,
perchè le fatiche, le percosse, le eliminazioni dirette produssero
l’estinzione e/o la completa diaspora degli Armeni. Le autorità turche
attuali negano la natura genocida di quell’azione, ma in Occidente si
insiste giustamente per l’uso di quel concetto.
Quanto ai nazisti, si sa che il progetto di espulsione degli ebrei
(additati come responsabili del collasso tedesco nella Grande Guerra
appena conclusa e quindi della pace punitiva imposta alla Germania, tale
da mettere in discussione  l’identità e la integrità tedesca) fu
enunciato precocemente nel Mein Kampf: ma espulsione poteva significare
spostamente coatto fuori del territorio tedesco (si pensò tra l’altro al
Madagascar), solo più tardi divenne identificazione, segregazione,
discriminazione, privazione di diritti, più tardi ancora deportazione
nei campi ed eliminazione fisica sitematica con gas.
Ora Israele 1) ha obbligato la popolazione a spostarsi all’interno di
Gaza trattandola come gregge che si movimenta forzosamente e
scompostamente  dentro un mattatoio. Poco importa che lo spostamento
coatto venga motivato con la necessità di scansare le bombe che Israele
stesso sgancia, per di più contraddetto dal bombardamento di luoghi già
indicati come sicuri, dai tempi insufficienti ad effettuarlo, dal viavai
imposto tra Nord e Sud; 2) ha spinto la popolazione di Gaza verso il
confine con l’Egitto, cercando di buttarla fuori dal territorio da
sempre abitato e dentro uno stato contrario a questa accoglienza;  in
pratica, una trappola; 3) ha enunciato il progetto di trasferire una
quota di polazione palestinese in Congo, come se si trattasse di una
merce, di prigionieri, di schiavi (purtroppo al presente anche di
migranti “illegali”).

Conclusioni. Anche a non considerare le dichiarazioni esplicite di
ministri israeliani sulla disumanità dei palestinesi e le intenzioni
manifestate dai coloni di Cisgiordania, ma tenendo conto dell’intenzione
dichiarata da parte del governo israeliano di prolungare ad libitum
l’azione in corso, far rientrare tutto questo nella categoria storica
del genocidio appare del tutto legittimo e appropriato. Israele mostra
chiaramente l’intenzione di sbarazzarsi definitivamente dei Palestinesi,
in un modo o nell’altro. Chi si fa scudo di falsi argomenti per negarlo,
chi invita Israele a moderare la sua azione omicida anzichè a
interromperla, chi dichiara che le vittime civili palestinesi sono
“troppe” come se ne esistesse una quota legittima e accettabile, di
fatto è complice di questo misfatto che si sta consumando sotto i nostri
occhi.

da qui

 

 

Alessandro Orsini – Genocidio e scudi disumani

Siccome il delirio è ormai totale, fatemi chiarire che cosa sia uno scudo umano spiegando che cosa non sia con un linguaggio sgrammaticato che arrivi a tutti.

Uno scudo umano non è Israele che sgancia una bomba su una moschea perché: “Ahó, sotto c’è un tunnel di Hamas”.

No, santa pace, questo non è un caso di vittime collaterali dovuto all’uso di scudi umani da parte di Hamas. Uno scudo umano non è Israele che sgancia una bomba su una scuola piena di bambini perché sotto c’è un tunnel di Hamas.

No, santa pace, nemmeno questo è un caso di vittime collaterali dovuto all’uso di scudi umani da parte di Hamas. Se un tunnel passa sotto una scuola piena di bambini, e Israele la bombarda per distruggere il tunnel sottostante, questo non è un caso di “scudo umano”. Gli scudi umani sono un’altra cosa. Uno scudo umano è quando i militanti di Hamas fanno irruzione in una scuola elementare, sequestrano maestre e bambini, e sparano contro i soldati israeliani dalle finestre facendosi scudo con quei poveri innocenti. Non è questa la dinamica che ha causato 23000 morti a Gaza. I morti a Gaza sono stati 23000 perché Israele sta compiendo un genocidio. Siccome l’informazione in Italia è totalmente corrotta, anziché dire che Israele sta compiendo un genocidio, dice che Hamas usa gli scudi umani.

*Post Facebook del 15 gennaio 2023

da qui

 

 

 

 

 

 

Hamas si rivolge al mondo. “Perché l’operazione Tempesta di Al-Aqsa?”

Il Movimento di resistenza islamica palestinese (HAMAS), nel suo messaggio di 18 pagine intitolato “Questa è la nostra narrazione… Perché l’operazione Tempesta di Al-Aqsa?”, racconta la genesi delle operazioni di resistenza contro Israele.

“La battaglia della nostra nazione contro il regime occupante e coloniale non è iniziata il 7 ottobre, ma è iniziata 105 anni fa e come conseguenza dell’occupazione. Il nostro popolo ha vissuto sotto il dominio coloniale britannico per 30 anni e sotto l’occupazione del regime sionista per 75 anni”, ha precisato HAMAS.

Inoltre, ha ricordato che la nazione palestinese ha subito ogni tipo di oppressione, ingiustizia, confisca dei diritti fondamentali e politiche di apartheid per decenni, ed ha sottolineato che la Striscia di Gaza soffre di un assedio soffocante da più di 17 anni, che la rende la più grande prigione a cielo aperto del mondo.

“La Striscia di Gaza ha subito cinque guerre devastanti, e in ognuna di esse Israele è stato il promotore. Dal 2000 al settembre 2023, il regime sionista ha ucciso 11.299 palestinesi e ne ha feriti altri 156.768, la maggior parte dei quali erano civili”, si legge nel documento del movimento palestinese.

Nel suo messaggio, HAMAS evidenzia la violazione del diritto internazionale da parte del regime sionista tra l’indifferenza della comunità internazionale e ha portato come esempio il momento in cui l’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite ha strappato il rapporto del Consiglio per i Diritti Umani di fronte ai rappresentanti dei Paesi del mondo.

Con questo e con altro, HAMAS ha stabilito che Israele ha virtualmente eliminato la possibilità di uno Stato palestinese attraverso una vigorosa campagna di raddoppio degli insediamenti e dell’ebraicizzazione della Cisgiordania.

Quindi, si chiede il gruppo di resistenza palestinese, la nostra nazione dovrebbe continuare ad aspettare e ad affidarsi alle Nazioni Unite e alle sue deboli istituzioni in questa situazione?

“L’operazione Tempesta di Al-Aqsa è stata un passo necessario e una risposta naturale per affrontare i piani progettati per distruggere la questione palestinese. Questa operazione aveva anche lo scopo di contrastare i piani di Israele di dominare la terra palestinese, giudaizzarla e prendere il controllo della Moschea di Al-Aqsa”, ha osservato HAMAS in un punto del suo documento.

HAMAS ha smentito anche le affermazioni di Israele secondo cui la Resistenza starebbe prendendo di mira i civili, precisando che il 7 ottobre, l’Operazione Tempesta Al-Aqsa ha preso di mira i siti militari israeliani e ha cercato di catturare i soldati nemici per liberare i prigionieri palestinesi, interagendo positivamente con i civili che sono stati catturati, cercando di rilasciarli il prima possibile.

Inoltre, HAMAS spera che Paesi come Stati Uniti, Germania, Canada e Regno Unito cambino il loro approccio ai crimini in Palestina e che i rappresentanti della Corte internazionale di giustizia entrino immediatamente in Palestina per indagare su tutti i crimini e le violazioni dell’entità sionista.

“Gli eventi del 7 ottobre dovrebbero essere collocati in un contesto più ampio e dovrebbero essere ricordati gli esempi di lotte di liberazione nella storia mondiale contemporanea. I Paesi citati non vogliono accettare che la radice del problema e la radice della crisi è l’esistenza degli occupanti e la confisca del diritto del nostro popolo a vivere liberamente. La resistenza all’occupazione con qualsiasi mezzo, compresa la resistenza armata, è un diritto legittimo garantito dalle leggi e dalle religioni e approvato dal diritto internazionale”, si legge nella dichiarazione di HAMAS.

Il Movimento di resistenza islamica palestinese ha chiesto la fine immediata dell’aggressione di Israele, la fine dei crimini e del genocidio degli occupanti e la fine del blocco di Gaza. Inoltre, ha chiesto che Israele sia punito legalmente per la sua occupazione e per tutte le sofferenze, le vittime e i danni causati ai palestinesi.

Infine, è stato espresso il rifiuto categorico a qualsiasi progetto internazionale o israeliano volto a decidere il futuro della Striscia di Gaza: “Il popolo palestinese ha la capacità e la competenza di decidere del proprio futuro e di organizzare la propria casa senza che nessuno agisca come suo tutore.”

da qui

 

 

Netanyahu sfida la Corte internazionale di giustizia – “Nessuno ci fermerà” – Jonathan Ofir

Nonostante i procedimenti presso la Corte internazionale di giustizia, Benjamin Netanyahu ha chiarito che Israele non ha intenzione di cedere al suo attacco genocida contro Gaza: “Nessuno ci fermerà – né L’Aia, né l’asse del male e nessun altro”.

Giovedì scorso il team legale sudafricano ha discusso il caso contro il genocidio di Israele a Gaza presso la Corte internazionale di giustizia (ICJ) dell’Aia. È stata una sessione mozzafiato di oltre tre ore, con diversi discorsi ben fatti  e moralmente efficaci, come quello dell’avvocato irlandese Blinne Ní Ghrálaigh – sono rimasto sbalordito dai dettagli e dalla panoramica. Questi discorsi devono essere preservati per i posteri come tra i più importanti della storia. La loro conclusione è risuonata come una campana destinata a scuotere il mondo intero, come quando Ní Ghrálaigh ha detto: “Il mondo dovrebbe essere assolutamente indignato… Non esiste uno spazio sicuro a Gaza e il mondo dovrebbe vergognarsi”.

Ma il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, non si vergogna. Se c’è qualcosa che lo indigna è “l’ipocrita attacco dell’Aia contro lo Stato degli ebrei”.

Sabato, in un discorso in diretta di nove minuti (in ebraico) sul canale israeliano 14, Netanyahu ha evocato ancora una volta la “guerra dei figli della luce contro i figli delle tenebre”, la stessa immagine che aveva usato in ottobre. Ha anche sfidato direttamente la Corte Internazionale di Giustizia: “Nessuno ci fermerà – né L’Aia, né l’asse del male e nessun altro”.

È davvero sfacciato riferirsi in questo modo alla Corte internazionale di giustizia, la massima autorità giuridica delle Nazioni Unite, che rappresenta il massimo consenso internazionale sul diritto internazionale. Suggerire che le sue decisioni non avranno alcuna conseguenza è palesemente offensivo. Inoltre, Netanyahu ha anche mentito nel suo discorso, sostenendo che il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha definito Hamas i “nuovi nazisti”, mentre in realtà è stato lo stesso Netanyahu a dirlo.

Ma a Netanyahu non importa, né della verità né di infangare la Corte Internazionale di Giustizia. Stava parlando in ebraico alla sua folla. E se il suo scandaloso licenziamento della Corte Internazionale di Giustizia ha fatto notizia, in realtà il discorso di Netanyahu includeva altri agghiaccianti avvertimenti sul fatto che Israele non ha intenzione di cessare il suo attacco genocida.

In effetti, la conclusione del suo discorso, non è stata completa come avrebbe dovuto esserlo, in quanto includeva un altro riferimento biblico che allude sottilmente alla vendetta divina sui nemici di Israele, simile al suo famigerato riferimento ad Amalek (dove quell’antica nazione doveva essere sradicata finanche dai bambini e dagli animali).

“Come è detto nell’episodio biblico della settimana”, ha detto Netanyahu, “allora vivranno nella loro terra, che ho dato al mio servitore Giacobbe. Là abiteranno sicuri, costruiranno case e pianteranno vigne».

La citazione è tratta da Ezechiele 28:25, 26. A prima vista sembra benigna, ma la citazione continua. Netanyahu ha omesso l’intera citazione nel suo discorso, ma coloro che conoscono la Bibbia, come la base religioso-nazionalista su cui Netanyahu fa fortemente affidamento, avranno capito il messaggio. La citazione continua:

“Vivranno al sicuro quando infliggerò la punizione a tutti i loro vicini che li hanno diffamati. Allora sapranno che io sono il Signore loro Dio».

Dopo la citazione biblica, Netanyahu ha concluso il discorso dicendo: “Insieme combatteremo e insieme, con l’aiuto di Dio, vinceremo”.

​Dovremmo prendere molto sul serio queste parole. Questo è il primo ministro israeliano. Eppure, alcuni stanno ancora cercando di spiegare questi ripetuti appelli al genocidio come eccezioni. Incredibilmente, anche organi di stampa liberali come Haaretz sostengono che la migliore difesa di Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia sarebbe che Netanyahu licenziasse i ministri estremisti che dicono queste cose – quando le dice continuamente!

E poi c’è Fania Oz-Salzberger, la figlia di Amos Oz, che ha suggerito che questi appelli al genocidio sono tutti solo esempi di “selvaggia libertà di parola” e di “chiacchieroni che gridano al genocidio e ad Amalek” che “non sono consapevoli della profonda dissonanza, del danno enorme,dell’indignazione giustificata”. In linea con Haaretz e il New York Times, lei suggerisce che si tratti solo di mele marce: “Solo una piccola minoranza vuole un vero genocidio a Gaza ed è moralmente abbastanza paralizzata da portarlo a termine: l’estrema destra nazional-religiosa”. E “No, Israele non sta conducendo un genocidio… Il suo continuo sfogo sull’”appiattimento di Gaza” non è più che un bizzarro effetto collaterale della nostra eredità argomentativa”.

Questo è assurdo: Oz-Salzberger sta cercando di superare suo padre quando si tratta di vendere hasbara.

La stragrande maggioranza della popolazione israeliana sostiene il genocidio, lo chiamano semplicemente in un altro modo, come legittima difesa. La maggior parte di loro pensa che venga utilizzata troppo poca potenza di fuoco e la maggior parte di loro sostiene il piano di “emigrazione volontaria” (pulizia etnica se si hanno dubbi).

Tutte queste parole, sia quelle di Netanyahu che quelle dei propagandisti liberali, fanno parte della stessa realtà genocida. Israele sta commettendo un genocidio e il mondo ha la responsabilità di proteggere i palestinesi. Netanyahu ha annunciato che non si fermerà davanti a nulla, anche se la più alta corte del mondo dice che deve farlo. Dobbiamo quindi stare dalla parte dei palestinesi, contro l’asse israeliano del male.

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org

da qui

 

 

Abbiamo uno strumento per fermare i crimini di guerra di Israele: il BDSNaomi Klein

Nel 2005 i palestinesi hanno chiesto al mondo di boicottare Israele finché non rispetterà il diritto internazionale. Cosa sarebbe successo se li avessimo ascoltati?

Questa settimana, esattamente 15 anni fa, pubblicai un articolo su The Guardian. Iniziava così: “È ora. Da molto tempo. La miglior strategia per porre fine alla sempre più sanguinosa occupazione è che Israele diventi il bersaglio del tipo di movimento globale che ha posto termine all’apartheid in Sudafrica. Nel luglio 2005 una grande coalizione di organizzazioni palestinesi ha presentato un piano per fare proprio questo. Hanno chiesto alle persone di coscienza in tutto il mondo di imporre un boicottaggio generale e mettere in atto iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica dell’era dell’apartheid. Era nata la campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.”

Nel gennaio 2009 Israele scatenò una nuova fase sconvolgente di omicidi di massa nella Striscia di Gaza, denominando la sua feroce campagna di bombardamenti operazione “Piombo fuso”. Uccise 1.400 palestinesi in 22 giorni; il numero di vittime israeliane fu di 13. Questa per me fu la goccia che fece traboccare il vaso, e dopo anni di reticenza mi espressi pubblicamente a favore dell’appello guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele, noto come BDS, finché non rispetterà le leggi internazionali e i principi universali dei diritti umani.

Nonostante il BDS avesse l’appoggio di più di 170 organizzazioni della società civile palestinese, a livello internazionale il movimento era ancora piccolo. Durante l’operazione Piombo fuso iniziò a cambiare, e vi aderì un crescente numero di associazioni studentesche e sindacati fuori dalla Palestina aderirono.

Però molti non lo fecero. Capivo perché questa tattica veniva percepita come problematica. C’è una lunga e penosa storia di attività economiche e istituzioni ebraiche prese di mira da antisemiti. Gli esperti in comunicazione che fanno pressione a favore di Israele sanno utilizzare questo trauma come arma, quindi etichettano invariabilmente campagne intese a combattere le politiche discriminatorie e violente di Israele come attacchi di odio verso gli ebrei in quanto gruppo identitario.

Per vent’anni il timore diffuso che deriva da questa falsa equazione ha protetto Israele dal dover affrontare tutto il potenziale di un movimento BDS, e ora, mentre la Corte Internazionale di Giustizia può ascoltare la devastante raccolta di prove del Sudafrica sul fatto che Israele sta commettendo il crimine di genocidio a Gaza, è più che sufficiente.

Dal boicottaggio degli autobus al disinvestimento sui combustibili fossili, le tattiche BDS hanno una storia ben documentata come l’arma più efficace dell’arsenale non-violento. Accoglierle e utilizzarle in questo momento di svolta per l’umanità è un obbligo morale.

La responsabilità è particolarmente grave per quanti di noi i cui governi continuano ad aiutare attivamente Israele con armi letali, lucrosi accordi commerciali e veti alle Nazioni Unite. Come ci ricorda il BDS, non dobbiamo consentire che questi accordi fallimentari parlino per noi senza contrastarli.

Gruppi di consumatori organizzati hanno il potere di boicottare imprese che investono nelle colonie illegali o riforniscono Israele di armi. I sindacati possono spingere i loro fondi pensione a disinvestire da queste imprese. Governi locali possono selezionare i fornitori in base a criteri etici che vietano questi rapporti. Come ci ricorda Omar Barghouti, uno dei fondatori e dirigenti del movimento BDS, “il più profondo obbligo etico in questi tempi è agire per porre fine alla complicità. Solo così possiamo realmente sperare di porre fine all’oppressione e alla violenza.”

In questo modo il BDS merita di essere visto come la politica estera del popolo, o la diplomazia dal basso, e se questa è sufficientemente forte obbligherà finalmente i governi ad imporre sanzioni dall’alto, come il Sudafrica sta cercando di fare. Che è chiaramente l’unica forza che può far cambiare rotta a Israele.

Barghouti sottolinea che, proprio come alcuni sudafricani bianchi hanno appoggiato le campagne contro l’apartheid durante quella lunga lotta, gli ebrei israeliani che si oppongono alle sistematiche violazioni del diritto internazionale da parte del loro Paese sono benvenuti nel BDS. Durante Piombo fuso un gruppo di circa 500 israeliani, molti dei quali importanti artisti e studiosi, fecero proprio questo, chiamando in seguito il loro gruppo Boicottaggio dall’interno.

Nel mio articolo del 2009 citavo la loro prima lettera per fare pressione, che chiedeva “l’adozione di immediate misure restrittive e sanzioni” contro il loro stesso Paese e faceva un parallelo diretto con la lotta sudafricana contro l’apartheid. “Il boicottaggio contro il Sudafrica è stato efficace,” sottolineavano, affermando che aveva contribuito a porre fine alla legalizzazione della discriminazione e ghettizzazione in quel Paese e aggiungendo: “Ma Israele è trattato con i guanti… Questo sostegno internazionale deve finire.”

Ciò era vero 15 anni fa; lo è in modo devastante oggi.

Il prezzo dell’impunità

Leggendo i documenti del BDS dalla metà alla fine degli anni 2000, sono rimasta molto colpita da quanto il contesto politico e umano si sia deteriorato. Negli anni successivi Israele ha costruito più muri, ha eretto più checkpoint, ha scatenato più coloni illegali e lanciato guerre molto più letali. Tutto è peggiorato: il veleno il livore, la rabbia, la convinzione di essere nel giusto, di aver ragione.

Chiaramente l’impunità, il senso di impenetrabilità e intangibilità che è alla base del modo in cui Israele tratta i palestinesi, non è una forza statica. Si comporta piuttosto come una fuoriuscita di petrolio: una volta rilasciata, filtra all’esterno, avvelenando tutto e tutti sul suo cammino. Si allarga e scende in profondità.

Da quando, nel luglio 2005, è stato scritto il primo appello per il BDS il numero di coloni che vivono illegalmente in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, è esploso, raggiungendo il numero stimato di 700.000, vicino a quello dei palestinesi espulsi nella Nakba del 1948. Come gli avamposti coloniali si sono estesi, così ha fatto la violenza degli attacchi dei coloni contro i palestinesi, tutto ciò mentre l’ideologia della supremazia ebraica e persino il fascismo esplicito si sono posti al centro della cultura politica israeliana.

Quando ho scritto il mio primo articolo sul BDS l’opinione assolutamente predominante era che l’analogia con il Sudafrica fosse scorretta e che la parola “apartheid”, che veniva usata da giuristi, attivisti e organizzazioni per i diritti umani palestinesi, fosse inutilmente provocatoria. Ora chiunque, da Humar Rights Watch ad Amnesty International, fino alla principale associazione israeliana per i diritti umani, B’Tselem, hanno fatto le loro attente analisi e sono arrivati alla inevitabile conclusione che apartheid è effettivamente il termine giuridico corretto per descrivere le condizioni sotto le quali israeliani e palestinesi conducono vite nettamente diseguali e segregate. Persino Tamir Pardo, ex-capo dell’agenzia di intelligence, il Mossad, ha ammesso il problema: “Qui c’è uno stato di apartheid,” ha affermato a settembre. “In un territorio in cui due popoli sono giudicati con due sistemi legali diversi, c’è uno stato di apartheid.”

Oltretutto molti adesso comprendono che l’apartheid esiste non solo nei territori occupati, ma all’interno dei confini di Israele del 1948, una questione esposta in un importante rapporto del 2022 dalla coalizione di associazioni palestinesi per i diritti umani riunita da Al-Haq [ong palestinese, ndt.]. È difficile sostenere il contrario quando l’attuale governo israeliano di estrema destra è arrivato al potere con un accordo di coalizione che afferma: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le zone della Terra di Israele…la Galilea, il Negev, il Golan, Giudea e Samaria.” Quando regna l’impunità, tutto cambia e si muove, comprese le frontiere coloniali. Niente rimane statico.

Poi c’è Gaza. All’epoca il numero dei palestinesi uccisi nell’operazione Piombo fuso sembrava inimmaginabile. Abbiamo rapidamente imparato che non si trattava di un caso isolato. Diede invece inizio a una nuova politica omicida a cui i comandanti militari israeliani si riferiscono con noncuranza come “tagliare l’erba”: ogni due anni c’è stata una nuova campagna di bombardamenti, con l’uccisione di centinaia di palestinesi o, nel caso dell’operazione Margine protettivo del 2014, più di 2.000, tra cui 526 minori.

Questi dati scioccarono di nuovo e scatenarono un’altra ondata di proteste. Non fu ancora sufficiente a porre fine all’impunità di Israele, che ha continuato ad essere protetto dal solido veto degli USA all’ONU, oltre che dal costante afflusso di armi. Ancor più distruttivi della mancanza di sanzioni internazionali sono state le ricompense: negli ultimi anni, insieme a tutta questa impunità, Washinton ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele e poi vi ha spostato l’ambasciata. Ha anche mediato i cosiddetti accordi di Abramo, che hanno avviato intese di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco.

È stato Donald Trump che ha iniziato a ricoprire Israele di questi ultimi regali a lungo cercati, ma il processo è continuato allo stesso modo con Joe Biden. Così, alla vigilia del 7 ottobre, Israele e Arabia Saudita stavano per firmare quello che è stato frivolmente acclamato come “l’accordo del secolo”.

Dov’erano i diritti e le aspirazioni dei palestinesi in tutti questi accordi? Assolutamente da nessuna parte. Perché l’altra cosa che è cambiata in questi anni di impunità è stata ogni scusa che Israele intendeva per tornare al tavolo dei negoziati. L’evidente obiettivo è stato reprimere con la forza, insieme all’isolamento fisico e politico e alla frammentazione, il movimento dei palestinesi per l’autodeterminazione.

Sappiamo come sono andati a finire i successivi capitoli di questa storia. L’orripilante attacco di Hamas il 7 ottobre. La furibonda determinazione israeliana di sfruttare quei crimini per fare quello che alcuni importanti dirigenti del governo volevano fare comunque da molto tempo: spopolare Gaza dei palestinesi, che attualmente sembrano cercare di fare attraverso la combinazione di uccisioni dirette, demolizione massiccia di case (“domicidio”), la diffusione di fame, sete e malattie infettive e infine espulsioni di massa.

Sia chiaro: questo è il risultato di consentire a uno Stato di fare tutto quello che vuole, lasciare che l’impunità regni senza controllo per decenni, utilizzando i veri traumi collettivi patiti dal popolo ebraico come scusa senza fine e storia di copertura. Un’impunità come questa non inghiottirà solo un Paese, ma ogni Paese con cui è alleato, l’intera architettura del diritto umanitario forgiato tra le fiammo dell’Olocausto nazista. Se lo consentiamo.

Un decennio di attacchi giudiziari contro il BDS

Il che pone un’altra questione che non è rimasta costante nel corso degli ultimi 20 anni: la crescente ossessione israeliana per reprimere il BDS, anche a costo di diritti politici faticosamente conquistati. Nel 2009 c’erano molti argomenti di chi criticava il BDS sul perché fosse una cattiva idea. Alcuni temevano che il boicottaggio culturale e accademico avrebbe bloccato il necessario dialogo con i progressisti israeliani e che si sarebbe trasformato in censura. Altri sostenevano che misure punitive avrebbero creato una reazione e spostato Israele ancora più a destra.

Quindi, ripensandoci adesso, è sorprendente che queste discussioni iniziali siano sostanzialmente sparite dalla sfera pubblica, e non perché una parte abbia vinto il dibattito. Sono scomparse perché la stessa idea di discuterne è stata sostituita da una strategia totalizzante: utilizzare l’intimidazione giudiziaria e istituzionale per rendere impraticabili le tattiche del BDS e bloccare il movimento.

Secondo Palestine Legal [gruppo di difesa giudiziaria con sede a Chicago, ndt.], che ha monitorato da vicino questa impennata, ad oggi negli Stati Uniti sono state istituite in totale 293 leggi anti-BDS in tutto il Paese, e sono state approvate in 38 Stati. Spiega che alcune leggi prendono di mira i finanziamenti alle università, altre prevedono che chiunque vinca un appalto con uno Stato o lavori per esso firmi un contratto in cui si impegna a non boicottare Israele, e altre ancora “chiedono allo Stato di compilare liste nere pubbliche di organizzazioni che fanno boicottaggio a favore dei diritti dei palestinesi o appoggiano il BDS.” Nel contempo in Germania il sostegno ad ogni forma di BDS è sufficiente perché vengano revocati premi, tolti finanziamenti, spettacoli e conferenze vengano annullati (una cosa che ho potuto sperimentare di persona).

Non sorprende che questa strategia sia ancora più aggressiva all’interno di Israele. Nel 2011 il Paese ha emanato la legge per la Prevenzione dei Danni per lo Stato di Israele attraverso il Boicottaggio, stroncando efficacemente fin dai suoi inizi il nascente movimento “Boicottaggio dall’interno”. Il centro legale Adalah, un’organizzazione che lavora per i diritti della minoranza araba in Israele, spiega che la legge “vieta la promozione pubblica del boicottaggio accademico, economico o culturale da parte di cittadini e organizzazioni israeliani contro istituzioni israeliane o contro le illegali colonie israeliane in Cisgiordania. Consente di presentare denunce giudiziarie contro chiunque chieda il boicottaggio.” Come le leggi a livello statale negli USA, “proibisce anche a una persona che sostenga il boicottaggio di partecipare a gare di appalto pubbliche.” Nel 2017 Israele ha iniziato a impedire l’ingresso in Israele ad attivisti del BDS; 20 associazioni internazionali, compresa la coraggiosa [organizzazione] contro la guerra Jewish Voice for Peace, sono state messe sulla cosiddetta lista nera BDS.

Nel contempo negli USA lobbisti a favore delle imprese energetiche e dei fabbricanti di armi stanno prendendo spunto dall’offensiva giudiziaria contro il BDS e propugnano leggi fotocopia per limitare campagne di disinvestimento rivolte ai loro clienti. “Ciò spiega perché sia così pericoloso consentire questo tipo di eccezione palestinese alla [libertà di] parola,” ha detto alla rivista Jewish Currents Meera Shah, importante avvocatessa che fa parte di Palestine Legal. “Perché non danneggia solo il movimento per i diritti dei palestinesi, di fatto colpisce anche altri movimenti sociali.” Ancora una volta niente rimane fermo, l’impunità si estende e quando i diritti al boicottaggio e al disinvestimento vengono tolti alla solidarietà per la Palestina, si cancella anche il diritto di utilizzare questi stessi strumenti per sostenere l’attivismo contro i cambiamenti climatici, per il controllo delle armi e per i diritti LGBTQ+.

In un certo senso questo è un vantaggio, perché rappresenta un’opportunità di rafforzare alleanze tra movimenti. Ogni importante organizzazione e sindacato progressista ha interesse a proteggere il diritto al boicottaggio e al disinvestimento come principio fondamentale della libertà di espressione e strumento critico di trasformazione sociale. La piccola squadra di Palestine Legal ha guidato in modo straordinario l’opposizione negli USA avviando procedimenti giudiziari contro le leggi anti-BDS in quanto anticostituzionali e appoggiando le cause di altri. Meritano un sostegno molto maggiore.

È finalmente il momento del BDS?

C’è un altro motivo per essere fiduciosi: la ragione per cui Israele perseguita il BDS con tanta ferocia è la stessa per cui così tanti attivisti hanno continuato a credere in esso nonostante questi attacchi su più fronti. Perché può funzionare.

Lo abbiamo visto quando imprese multinazionali si ritirarono dal Sudafrica negli anni ‘80. Non fu perché vennero improvvisamente colpite da una rivelazione morale antirazzista. Piuttosto, dato che il movimento era diventato internazionale e le campagne di boicottaggio e disinvestimento iniziavano a influenzare la vendita di auto e i clienti delle banche fuori dal Paese, queste imprese ritennero che a loro sarebbe costato di più rimanere in Sudafrica che andarsene. I governi occidentali iniziarono tardivamente a imporre sanzioni per le stesse ragioni.

Ciò danneggiò il settore commerciale sudafricano, parte del quale mise sotto pressione il governo dell’apartheid perché facesse concessioni ai movimenti per la liberazione dei neri che si erano ribellati per decenni contro l’apartheid con rivolte, scioperi di massa e la resistenza armata. I costi di mantenere il crudele e violento status quo stavano crescendo sempre di più anche per l’élite sudafricana.

Alla fine degli anni ‘80 la tenaglia della pressione dall’esterno e dall’interno crebbe tanto che il presidente F. W. de Klerk fu obbligato a liberare Nelson Mandela dal carcere dopo 27 anni e poi a tenere elezioni democratiche, che portarono Mandela alla presidenza.

Le organizzazioni palestinesi che hanno tenuto viva la fiamma del BDS attraverso alcuni anni molto cupi sperano ancora nel modello sudafricano di pressioni dall’esterno. Infatti, mentre Israele perfeziona l’architettura e la progettazione della ghettizzazione e dell’espulsione, esso potrebbe essere l’unica speranza.

Ciò a causa del fatto che Israele è decisamente meno sensibile alla pressione interna da parte dei palestinesi di quanto lo fossero i sudafricani bianchi sotto l’apartheid, che dipendevano dalla manodopera dei neri per tutto, dal lavoro domestico alle miniere di diamanti. Quando i sudafricani neri si rifiutarono di lavorare o si impegnarono in altre forme di danneggiamento dell’economia, ciò non poté essere ignorato.

Israele ha imparato dalla vulnerabilità del Sudafrica; dagli anni ‘90 si è progressivamente ridotta la sua dipendenza dal lavoro dei palestinesi, soprattutto grazie ai cosiddetti lavoratori ospiti e all’ingresso di circa un milione di ebrei dall’ex Unione Sovietica. Ciò ha contribuito a rendere possibile per Israele passare dal modello di oppressione dell’occupazione all’attuale modello di ghettizzazione, che cerca di far sparire i palestinesi dietro a imponenti muri con sensori ad alta tecnologia e il molto decantato sistema di difesa aerea israeliana Iron Dome.

Ma questo modello, chiamiamola bolla fortificata, porta con sé vulnerabilità, e non solo per gli attacchi di Hamas. La vulnerabilità più strutturale deriva dall’estrema dipendenza di Israele dal commercio con l’Europa e il Nord America per tutto, dal suo settore turistico a quello tecnologico per la sorveglianza basato sull’intelligenza artificiale. Il marchio che Israele ha forgiato per se stesso è quello di un aggressivo, moderno avamposto occidentale nel deserto, una piccola bolla di San Francisco o Berlino che casualmente si è ritrovato nel mondo arabo.

Ciò lo rende straordinariamente suscettibile solamente alle azioni del BDS, compreso il boicottaggio culturale e accademico. Perché quando popstar che vogliono evitare polemiche cancellano le loro date a Tel Aviv, prestigiose università USA interrompono la loro collaborazione con quelle israeliane dopo aver assistito alla distruzione di varie scuole e università palestinesi e il bel mondo non sceglie più Eilat per le proprie vacanze perché i follower su Instagram non ne rimangono impressionati, ciò danneggia tutto il modello economico israeliano e la sua autorappresentazione.

Ciò metterà pressione dove i dirigenti israeliani oggi sono poco sensibili. Se le imprese internazionali di alta tecnologia e di progettazione smetteranno di vendere prodotti e servizi all’esercito israeliano, ciò aumenterà ancor di più la pressione, forse abbastanza da cambiare le dinamiche della politica. Gli israeliani vogliono disperatamente far parte della comunità mondiale, e se si troveranno improvvisamente isolati molti più elettori potranno iniziare a chiedere alcune delle azioni che gli attuali dirigenti israeliani scartano immediatamente, come negoziare con i palestinesi per una pace duratura radicata nella giustizia e nell’uguaglianza, come definita dalle leggi internazionali, piuttosto che cercare di proteggere la bolla fortificata con fosforo bianco e pulizia etnica.

Ovviamente il nodo è che, perché le tattiche non violente del BDS funzionino, le vittorie non possono essere sporadiche o marginali. Devono essere sostanziali e diffuse, almeno quanto la campagna sudafricana, che vide importanti imprese come la General Motors e la banca Barclays ritirare i loro investimenti, mentre artisti molto popolari come Bruce Springsteen e Ringo Starr riunirono il supergruppo per antonomasia degli anni ‘80 per cantare a squarciagola “Non suonerò a Sun City”, un riferimento alla lussuosa e iconica località sudafricana.

Il movimento BDS che prende di mira l’ingiustizia israeliana è sicuramente cresciuto negli ultimi 15 anni. Barghouti stima che “i sindacati dei lavoratori e dei contadini, così come movimenti per la giustizia razziale, di genere e per il clima” che lo appoggiano “insieme rappresentino decine di milioni in tutto il mondo”. Ma il movimento deve ancora raggiungere un punto di svolta di livello sudafricano.

Tutto questo ha avuto un costo. Non c’è bisogno di essere uno storico delle lotte di liberazione per sapere che, quando tattiche con una base etica sono ignorate, emarginate, calunniate e bandite, altre tattiche, slegate da queste preoccupazioni etiche, diventano molto più interessanti per persone alla disperata ricerca di una qualunque speranza di cambiamento.

Non sapremo mai quanto avrebbe potuto essere diverso il presente se molte più persone, organizzazioni e governi avessero dato ascolto all’appello BDS fatto dalla società civile palestinese quando venne lanciato nel 2005. Qualche giorno fa, quando ho contattato Barghouti, non stava guardando indietro a 20, ma a 75 anni di impunità. Israele, ha detto, “non sarebbe stato in grado di perpetrare il suo continuo genocidio a Gaza mostrato in televisione senza la complicità con il suo sistema di oppressione di Stati, imprese e istituzioni.” La complicità, ha sottolineato, è qualcosa che abbiamo sempre il potere di rifiutare.

Una cosa è certa: le attuali atrocità a Gaza rafforzano drammaticamente la causa del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni. Le tattiche nonviolente, che molti hanno cancellato in quanto estremiste o nel timore di essere etichettati come antisemiti, appaiono in modo molto diverso attraverso la fosca luce di vent’anni di massacri, con nuove rovine sulle vecchie, nuovi dolori e traumi scolpiti nella psiche delle nuove generazioni e nuovi abissi di depravazione raggiunti sia a parole che nei fatti.

Domenica scorsa nel suo spettacolo finale su MSNBC [canale televisivo statunitense via cavo di notizie, ndt.] Mehdi Hasan ha intervistato il fotogiornalista palestinese di Gaza Motaz Azaiza, che rischia la vita ogni giorno per inviare al mondo le immagini delle uccisioni di massa da parte di Israele. Il suo messaggio agli spettatori statunitensi è stato netto: “Non definitevi persone libere se non potete fare cambiamenti, se non potete fermare un genocidio che è ancora in corso.”

In un momento come questo siamo quello che facciamo. Molta gente ha fatto più di quanto abbia mai fatto in pricedenza: bloccato l’invio di armi, occupato sedi del governo chiedendo un cessate il fuoco, partecipato a proteste di massa, detto la verità, per quanto difficile. La combinazione di queste azioni potrebbe aver contribuito allo sviluppo più significativo nella storia del BDS: il ricorso del Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dell’Aia in cui accusa Israele di commettere un genocidio e chiede misure temporanee per fermare il suo attacco contro Gaza.

Una recente analisi del giornale israeliano Haaretz nota che, se la CIG sentenziasse a favore del Sudafrica, anche se gli USA ponessero il veto alle Nazioni Unite su un intervento militare, “un decreto ingiuntivo potrebbe dare come risultato che Israele e imprese israeliane vengano boicottate e sottoposte a sanzioni imposte da singoli Paesi o da gruppi di Nazioni.”

Nel contempo boicottaggi dal basso stanno già iniziando a farsi sentire. A dicembre Puma, uno dei principali bersagli del BDS, ha fatto sapere che porrà fine alla sua controversa sponsorizzazione della squadra nazionale di calcio israeliana. Prima di questo in Italia c’è stato un esodo di artisti da un importante festival del fumetto dopo che si è scoperto che l’ambasciata israeliana era tra gli sponsor.

E questo mese Chris Kempczinski, amministratore delegato di McDonald, ha scritto che quella che ha chiamato “disinformazione” stava avendo “un importante impatto economico” su alcune delle sue vendite in “vari mercati mediorientali e altri fuori dalla regione”. Si è trattato di un riferimento a un’ondata di indignazione scatenata dalla notizia secondo cui McDonald Israel aveva donato migliaia di pasti ai soldati israeliani. Kempczinski ha cercato di distanziare la marca internazionale da “gestori locali,” ma poche persone del movimento BDS sono state convinte da questa distinzione.

Mentre la spinta a favore del BDS continua ad aumentare, sarà fondamentale essere ben consapevoli che siamo nel bel mezzo di un’allarmante e concreta impennata di crimini d’odio, molti dei quali contro palestinesi e musulmani, ma anche contro attività economiche e istituzioni ebraiche solo per il fatto che sono tali. Questo è antisemitismo, non attivismo politico.

Il BDS è un movimento serio e non violento, con un modello organizzativo consolidato. Pur lasciando autonomia ai militanti locali per definire quali campagne funzioneranno nei loro territori, il Comitato Nazionale del BDS (BNC) stabilisce i principi guida del movimento e seleziona con cura come obiettivo un piccolo gruppo di imprese scelte “in base alla complicità da loro dimostrata con le violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte di Israele.”

Il BNC ha anche ben chiaro che non chiede il boicottaggio dei singoli israeliani in quanto tali, affermando di “rifiutare per principio il boicottaggio di singole persone in base alle loro opinioni o identità (come la cittadinanza, la razza, il genere o la religione)”. In altre parole i bersagli sono le istituzioni complici dei sistemi di oppressione, non le persone.

Nessun movimento è perfetto. Ogni movimento farà passi falsi. Ora tuttavia la questione più pressante ha poco a che vedere con la perfezione. È semplicemente questa: cosa ha maggiori possibilità di cambiare uno status quo moralmente intollerabile, fermando nel contempo ulteriore spargimento di sangue?  Gideon Levy, indomito giornalista di Haaretz, non si fa illusioni su quello che ci vorrà. Recentemente ha detto ad Owen Jones [editorialista inglese di sinistra, ndt.]: “La chiave è la comunità internazionale, intendo dire che Israele non cambierà da solo… La formula è molto semplice: finché gli israeliani non pagheranno e non verranno puniti per l’occupazione, non saranno chiamati a rendere conto di essa e non lo sentiranno nel quotidiano, non cambierà niente.”

È tardi

Nel luglio 2009, pochi mesi dopo che il mio primo articolo sul BDS era stato pubblicato, viaggiai a Gaza e in Cisgiordania. A Ramallah tenni una conferenza sulla mia decisione di appoggiare il BDS. Includeva scuse per non aver aggiunto prima la mia voce, cosa che confessai derivare dalla paura che la tattica fosse troppo estremista in quanto diretta contro uno Stato fondato sul trauma ebraico; paura che sarei stata accusata di tradire il mio popolo. Timori che ho ancora. “Meglio tardi che mai,” mi disse un membro del gentile pubblico dopo il discorso.

Allora era tardi; lo è ancora adesso. Ma non troppo tardi. Non troppo tardi perché tutti noi creiamo la nostra politica estera dal basso, che intervenga nella cultura e nell’economia in modo intelligente e strategico, che offra una speranza tangibile che finalmente siano finiti i decenni di impunità senza controllo di Israele.

Come ha chiesto la scorsa settimana il comitato nazionale del BDS: “Se non ora, quando? Il movimento sudafricano contro l’apartheid si organizzò per decenni per conquistare un vasto appoggio internazionale che portò alla caduta dell’apartheid, e l’apartheid crollò. La libertà è inevitabile. Ora è tempo di attivarsi per unirsi al movimento per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza in Palestina.”

Basta. È il momento di un boicottaggio.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

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Israele non solo impedisce l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza, ma uccide anche coloro che cercano di riceverli

L’Osservatorio Euro-Mediterraneo ha raccolto testimonianze scioccanti sull’uccisione e il ferimento di decine di palestinesi, che stavano cercando di ricevere aiuti umanitari, da parte dell’esercito israeliano giovedì 11 gennaio 2024 in Al-Rashid Street, nella parte occidentale della città di Gaza.

L’esercito israeliano non solo sta affamando i palestinesi nella Valle di Gaza settentrionale, ma ha anche ucciso decine di persone che cercavano di ricevere gli esigui aiuti arrivati ​​lì, perpetuando il Genocidio che Israele ha commesso contro il popolo della Striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023.

L’Osservatorio Euro-Mediterraneo ha raccolto testimonianze scioccanti sull’uccisione e il ferimento di decine di palestinesi da parte dell’esercito israeliano giovedì 11 gennaio 2024 in Al-Rashid Street, nella parte occidentale della città di Gaza, che stavano cercando di ricevere aiuti umanitari. Ha inoltre chiesto che le agenzie delle Nazioni Unite coinvolte siano ritenute responsabili per la loro incapacità di garantire canali adeguati per fornire aiuti umanitari alla popolazione.

Secondo le testimonianze, i droni quadricotteri israeliani hanno aperto il fuoco sui palestinesi che si erano radunati per ricevere le derrate portate dai camion delle Nazioni Unite. Cinquanta palestinesi sono stati uccisi e altre decine sono rimasti feriti durante l’attacco. Le testimonianze raccolte indicano che decine di residenti si sono radunati in Al-Rashid Street, devastata dalle ruspe israeliane nelle ultime settimane, in attesa dell’arrivo dei camion che trasportavano derrate alimentari. I droni quadricotteri sono arrivati ​​all’improvviso e hanno iniziato a sparare sulla folla.

I sopravvissuti fuggirono dall’area e riuscirono a trasferire i feriti, mentre i morti rimasero a terra. Più tardi quel giorno, arrivarono i camion sono arrivati ​​e centinaia di persone si sono riunite di nuovo nella speranza di ricevere una quota di alimenti, poiché centinaia di migliaia di palestinesi nella valle settentrionale di Gaza stanno attualmente morendo di fame per il quarto mese consecutivo.

Secondo le testimonianze raccolte, i residenti sono stati costretti a percorrere fino a 10 chilometri per raggiungere la zona, mentre non vi era alcun ordine di distribuzione degli aiuti nel timore di vittime a causa del grave affollamento verificatosi nella zona dopo l’arrivo dei camion.

I residenti hanno trasportato le persone morte su carri trainati da animali, poche ore dopo la loro uccisione.

Il ventisettenne A.F., che ha chiesto che il suo nome completo fosse omesso per motivi di sicurezza, ha parlato con il personale dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo dell’incidente dell’11 gennaio. “Mio fratello ed io ci siamo recati con alcuni vicini ad Al-Rashid Street”, ha detto A.F. “Dopo aver camminato per cinque chilometri, abbiamo trovato gente che si radunava e si dirigeva a Sud, così ci siamo incamminati con loro verso la strada dove dovevano arrivare i camion che trasportavano le derrate”.

“All’improvviso sono apparsi dei quadricotteri che hanno iniziato a spararci a caso. Ho visto molte persone cadere a terra. Non appena ho sentito i proiettili sfrecciarmi vicino, sono scappato dalla zona. Più tardi ho scoperto che due dei miei vicini erano rimasti feriti”.

A.F. continua: “Stiamo davvero morendo di fame. Non sono presenti né farina né altri alimenti. Un sacco di farina che prima veniva venduto per circa 40 shekel (9,70 euro) ora viene venduto per più di 600 shekel (145,67 euro) se disponibile, il che spesso non è”.

Il ventisettenne medico (che ha chiesto anche lui che il suo nome completo fosse omesso, per motivi di sicurezza), ha detto di essersi avviato verso Al-Rashid Street alle nove del mattino con i suoi due cugini dopo aver sentito che sarebbero arrivati ​​i camion degli aiuti. “Ci è voluta un’ora per arrivarci”, ha spiegato M.D., “poiché le strade erano completamente distrutte. Dopo aver camminato per cinque chilometri, abbiamo visto centinaia di persone in attesa e che si affollavano lungo Al-Rashid Street. Siamo arrivati ​​ad un punto dopo la rotonda di Nabulsi, vicino alla punta costiera”.

“Dal nulla, da dietro un cumulo di sabbia, è uscito un carro armato dell’esercito israeliano e ha aperto il fuoco a caso”, ha detto M.D. “Siamo stati attaccati da due quadricotteri contemporaneamente; Ne ho contati due. Tutti quelli davanti sono rimasti feriti o uccisi. In pochi secondi almeno 50 persone furono uccise e numerose altre ferite. Abbiamo iniziato a correre, attraverso i negozi distrutti, lungo le stradine tra le case di Al-Rashid Street e in qualsiasi altro posto che pensavamo saremmo stati al riparo dal fuoco dei droni.

“Intorno alle 11:30 del mattino”, ha dichiarato M.D., “Sono tornato con alcuni altri. Quando abbiamo avvistato i camion, gli siamo corsi incontro. C’erano quattro camion pieni di medicinali, prodotti in scatola e farina. Le persone salivano sui camion mentre erano ancora in movimento e alcune di loro sono cadute.

“Ho visto due persone cadere sotto le ruote di un camion e venire investite, se ci fosse stato un ordine per la distribuzione della farina sarebbe stato meglio, visto il caos e la morte in cui viviamo. Non sono pronto a tornare a prendere la farina poiché mi sono visto la morte in faccia”.

Secondo quanto riferito, i residenti si sono radunati nel corso dei giorni successivi mentre si diffondeva la voce dell’arrivo di altri camion di aiuti umanitari. Centinaia si erano affollati ad Al-Rashid dalle 7 del mattino del 14 gennaio e presto furono attaccati dai droni israeliani.

Il trentottenne M.D, (che casualmente condivide le stesse iniziali dell’M.D. precedente), ha informato il personale dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo che i quadricotteri sono arrivati ​​quel giorno alle 11:00 e hanno sparato sulla folla “per un’ora e mezza, provocando numerosi morti e feriti”. A quel punto non era arrivato nessun camion di aiuti, ha rivelato M.D. Ha detto che anche suo figlio di 18 anni si era presentato e aveva aspettato ore prima che arrivasse un solo camion, e poi aveva tentato di raggiungerlo insieme a centinaia di altri residenti ma era stato calpestato ed era svenuto. “Non ha potuto ricevere alcunché”, ha confermato M.D., “a causa dell’ordine di distribuzione disorganizzato”.

Sulla base delle dichiarazioni e delle testimonianze ufficiali israeliane, oltre ai dati raccolti sul campo dal personale dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo nella Striscia di Gaza, Israele sta usando la fame come tattica di pressione politica e come arma nella sua guerra contro i civili palestinesi. Ciò costituisce un crimine di Genocidio, e richiede un’azione immediata per garantire che i palestinesi nella Striscia possano accedere a cibo, acqua e beni di prima necessità senza ostacoli, intimidazioni o attacchi.

Le Nazioni Unite e le sue agenzie umanitarie sono responsabili della loro incapacità di fornire aiuti umanitari adeguati e dignitosi alle centinaia di migliaia di residenti che soffrono la fame per il quarto mese consecutivo, nonché del loro silenzio sull’uccisione da parte dell’esercito israeliano di civili palestinesi che tentavano di ricevere gli aiuti.

Il Portavoce delle Nazioni Unite Stephane Dujarric ha affermato che solo tre delle 21 consegne di aiuti pianificate di cibo, medicine, acqua e altri beni salvavita nel Nord di Wadi Gaza sono potute essere effettuate tra il 1° e il 10 gennaio. Queste includevano molteplici missioni per fornire forniture mediche a Gaza City e carburante per le strutture idriche e igienico-sanitarie a Gaza City e nel Nord, ha detto Dujarric, aggiungendo che le consegne previste sono state negate dalle autorità israeliane.

Dujarric ha sottolineato che la capacità delle Nazioni Unite di rispondere ai vasti bisogni della popolazione civile nella parte settentrionale di Gaza è ridotta dai ricorrenti rifiuti di accesso agli aiuti e dalla mancanza di un accesso coordinato e sicuro da parte delle autorità israeliane. Ha avvertito che questi dinieghi e i gravi vincoli di accesso stanno paralizzando la capacità dei collaboratori umanitari di rispondere in modo significativo, coerente e ampio.

La dichiarazione di Dujarric non esonera l’ONU dalla responsabilità per ciò che sta accadendo, poiché si sta chiaramente sottomettendo ai piani e alle condizioni dell’esercito israeliano e ha citato la propaganda della squadra legale israeliana durante il suo appello davanti alla Corte Internazionale di Giustizia la settimana scorsa. Israele ha falsamente affermato di aver facilitato il passaggio degli aiuti umanitari e l’arrivo di una delegazione delle Nazioni Unite a Nord di Wadi Gaza.

Va sottolineato inoltre che il Diritto Umanitario Internazionale proibisce severamente l’uso della fame come arma di guerra. In quanto potenza occupante, Israele è obbligato, ai sensi del Diritto Umanitario Internazionale, a fornire bisogni primari e protezione alla popolazione di Gaza.

Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale prevede che affamare intenzionalmente i civili “privandoli di beni indispensabili alla loro sopravvivenza, compreso l’impedimento volontario delle forniture di soccorso” è un Crimine di Guerra.

Secondo l’Osservatorio Euro-Mediterraneo , Israele ha commesso atti di Genocidio contro la popolazione civile della Striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023 secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, la Convenzione sulla Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio, e pertinenti sentenze giudiziarie internazionali. Queste azioni includono la privazione della popolazione civile di acqua potabile e cibo a sufficienza, cosa ha gravemente danneggiati la popolazione e costretta in condizioni di vita volte al suo effettivo annientamento.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Elena Basile – Chi è interessato all’allargamento del conflitto in Medio Oriente

(dal Fatto Quotidiano 16 gennaio 2023)

Il conflitto in Medioriente si è allargato. I cantori della crociata occidentale descrivono la violazione della sovranità statale dello Yemen, in spregio alle normative onusiane, con bombardamenti su molteplici siti militari che sembra abbiano causato solo pochi decessi, come un’azione dovuta per ristabilire l’ordine. I nostri analisti che fino a qualche settimana addietro ammettevano la riluttanza di Libano e Iran a farsi trascinare in un conflitto regionale, con la coerenza e la logica che li contraddistinguono, puntano il dito contro gli Houthi e gli Hezbollah, manovrati dall’iran, protagonisti dell’escalation. Come è facile trasformare la realtà di fronte a un’opinione pubblica assuefatta alla buona novella dell’occidente costretto a trucidare donne e bambini a Gaza e a punire i ribelli Houthi per il bene comune. La Farnesina esprime sostegno ai bombardamenti anglo-americani. Tajani accenna all’italia che lavora misteriosamente per la pace.

Cerchiamo di guardare ai fatti per comprendere chi è interessato all’escalation che, qualora provocasse reazioni a catena di Iran, Russia e Cina, concretizzerebbe il rischio di un conflitto nucleare.

Per fortuna le criminali autocrazie hanno i nervi saldi. Mosca e Pechino si limitano a stigmatizzare le violazioni anglo-americane della sovranità yemenita, chiedono una riunione del Consiglio di sicurezza Onu, ma si guardano bene dall’accennare a una risposta. Teheran inveisce e accusa, ma non va oltre il radicalismo verbale. Le provocazioni sono purtroppo occidentali.

La spropositata rappresaglia di Israele, i crimini di guerra, l’intento genocida di Tel Aviv a Gaza sono sostenuti dagli Stati Uniti e dalle democrazie occidentali. Il governo di Netanyahu, che sta perdendo la guerra a Gaza in quanto non riesce a smantellare le strutture di Hamas e massacra soltanto i poveri civili, 2% della popolazione di Gaza, per la sua sopravvivenza politica attacca Libano e Siria. L’attentato rivendicato dall’isis, effettuato secondo gli esperti su input dei servizi Usa in grado da anni di pilotare l’organizzazione, colpisce la popolazione civile in Iran, 84 morti e più di 200 feriti. Le dichiarazioni degli Hezbollah e di Teheran continuano a essere contrarie alla guerra. Le condanne dei soprusi americani non portano a vere e proprie risposte militari se non di carattere simbolico. L’unica reazione è quella degli Houthi che, colpendo le navi israeliane e chiedendo il cessate il fuoco a Gaza, mettono a rischio la circolazione navale e commerciale nel Mar Rosso.

La risposta dello sceriffo, che ormai è divenuto soltanto un bullo, avendo perso l’autorevolezza egemonica basata su potere economico-sociale e su strategie geopolitiche razionali, è immediata: nuove violazioni del diritto internazionale, bombardamenti incuranti delle possibili conseguenze. Il cittadino pensante si domanda perché non sia possibile dare spazio alla diplomazia, ristabilendo il diritto internazionale e onusiano. Gli Stati Uniti, se fossero l’egemone benevolo descritto dai nostri editorialisti, costringerebbero Israele al cessate il fuoco a Gaza. Basterebbe ritirare le portaerei e minacciare la fine delle forniture militari. Il governo criminale di Netanyahu cadrebbe permettendo una nuova leadership a Tel Aviv con la quale negoziare il ritiro da Gaza, la governance ad interim

Unite nella regione. La diplomazia potrebbe tornare all’opera, coinvolgendo i protagonisti, paesi arabi alleati, Iran e Russia nella ricerca di una pace in Mo.

L’avvocato sudafricano nella sua arringa di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia ha affermato che nessun atto, per quanto barbarico come quello di Hamas del 7 ottobre, giustifica la carneficina di un gruppo etnico condannato alla fame e alle malattie. E del resto l’atto terrorista di Hamas è preceduto da spedizioni punitive ricorrenti a Gaza e da crimini di guerra israeliani. Gli analisti, persone perbene, educate e colte, trasformano la realtà, il comune sentire. Le azioni di forza, contro il diritto internazionale, sono legittime e benedette. Man mano ci convinciamo che è tutta colpa dell’iran, belzebù sceso sulla terra, manovrato da Mosca. Avrà inizio una nuova guerra che arricchirà le multinazionali, le oligarchie che sono dietro al potere di Biden e di Trump. Inflazione e calo dei tassi di interesse aiuteranno il rifinanziamento del debito. Ne pagheranno il prezzo le vittime delle guerre, i poveri del mondo, le classi meno abbienti in Europa.

L’UE si prepara a un’azione nel Mar Rosso. Impugniamo le armi, facciamo la nostra parte! Il cittadino pensante si domanda dove sia finita la Costituzione. Vorrebbe un’europa pacifica, mediatrice, autorevole che riconosca lo Stato di Palestina e condanni le violazioni del diritto internazionale. Un’europa che ritorni all’onu e alle speranze del dopoguerra seppellite dall’atlantismo guerrafondaio.

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Dire la verità sul genocidio di Gaza – Beppe Corlito

Edward Said, palestinese, professore di letteratura comparata alla Columbia University, vissuto in esilio gran parte della sua vita e fondatore con Barenboim della West Eastern Divan Orchestra, in cui suonano insieme israeliani e palestinesi, ha lasciato scritto nel suo saggio Dire la verità. Gli intellettuali e il potere (1994) che gli intellettuali possono vivere solo come esiliati dal loro contesto sociale e che il loro compito è “dire la verità” nei confronti del potere. Said è stato per un lungo periodo consigliere di Arafat, con cui poi ruppe dopo gli accordi di Oslo (1993) perché considerava l’indicazione “due popoli, due stati” rinunciataria rispetto alla possibile convivenza dei due popoli in un’unica democrazia. L’esilio per Said ha costituito una condizione esistenziale e materiale, ma anche una condizione “metaforica”. Oggi a mio avviso la terza rivoluzione industriale, quella delle macchine elettroniche, fa di tutti gli umani degli esiliati, perché ne determina la perdita progressiva di ogni contatto con la realtà sensibile (cfr. F. Fortini, Insistenze, 1985). Inoltre “tutti gli uomini sono intellettuali” (anche se nella società non tutti ne hanno la funzione) come sostiene Said, citando un passo di Gramsci da Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1955). Estremizzo l’assunto di Said perché nell’epoca della globalizzazione elettronica, della realtà virtuale e della “seconda verità” inventata da Goebbels, oggi diffusa a livello di massa con le fake news, nessun umano si può sottrarre al compito di dire la verità contro il potere. L’alternativa è condannarsi a vivere una vita disumana, una “vita offesa” per dirla con Adorno. Ovviamente coloro che sono intellettuali “per professione”, per collocazione sociale, hanno una responsabilità aggiuntiva nel dire la verità.

Allora occorre dire chiaro e tondo che quanto è in corso nella Striscia di Gaza con oltre 23.000 morti civili in tre mesi, circa un terzo dei quali bambini, è un genocidio perpetrato dallo stato di Israele e dal suo governo di estrema destra contro 2.200.000 palestinesi, bombardati, massacrati, tenuti in condizioni disumane senza case, senza cibo, senza energia, senza protezione sanitaria, senza comunicazioni, prigionieri inaccessibili a osservatori internazionali (sono stati uccisi 109 reporter), spinti “come animali” a sud verso l’Egitto. Chi osa dire questa verità è accusato di essere antisemita. Personalmente non ho nulla contro gli ebrei, di cui rispetto il grande contributo che hanno dato alla cultura mondiale. Marx, Freud, Einstein stanno nel mio pantheon dei maestri. Da quando ho l’età della ragione per educazione, formazione, convinzione storica e politica ho condannato radicalmente l’Olocausto degli ebrei e insieme di tutti gli altri oppositori del fascismo e del nazismo come l’abisso senza ritorno della storia umana e segnatamente di quella moderna. È cosa diversa essere antisemiti dall’indicare con chiarezza la politica espansionista e genocida di Israele contro i palestinesi, che è oggettiva.

Domenico Gallo, magistrato del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, primo tra gli altri, ha sostenuto in punta di diritto che quanto si sta perpetrando contro i palestinesi della Striscia di Gaza è un genocidio (DomenicoGallo.it, 30 Ottobre 2023). La condotta di Israele rientra nel concetto di “genocidio” come definito dalla Convenzione ONU del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e repressione di tale delitto, ratificata da Israele nel 1950. Infatti l’art. 2 della Convenzione recita: “Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale ….”. Tutte e tre le condizioni ricorrono nelle azioni di guerra che l’esercito israeliano sta conducendo contro i palestinesi.

Negli ultimi giorni il Sud Africa ha denunciato Israele di genocidio di fronte alla Corte Internazionale di giustizia de L’Aia, cosa che ha suscitato una reazione violenta di “disgusto” del governo Netanyahu. Sottolineo quanto abbia il sapore di razzismo, di naso arricciato e dunque di superiorità, una parola inconsueta nelle relazioni internazionali come “disgusto”. Il Sud Africa ha rotto le relazioni diplomatiche con Israele nell’ottobre scorso. Secondo alcuni osservatori sarà difficile dimostrare le accuse data l’impossibilità per una commissione internazionale di entrare nella Striscia, così come ha portato a un nulla di fatto l’accusa di genocidio rivolta alla Russia di Putin all’epoca dell’aggressione all’Ucraina. È vero comunque che la lezione di Nelson Mandela continua ad esercitare la sua egemonia culturale ed etica presso un paese e un popolo, che ha conosciuto sulla propria pelle l’apartheid fino al 1991.

In tale posizione non vi è alcuna concessione ad Hamas e alla sua dirigenza, che tiene in ostaggio i palestinesi di Gaza, ai quali è stato permesso di votare solo nelle ultime elezioni legislative del 2006. Vinte quelle elezioni Hamas non ha più messo in discussione democraticamente il proprio potere, utilizzando le contraddizioni interne dell’Autorità Nazionale Palestinese e la debolezza della presidenza di Abu Mazen. Non vi è dubbio che l’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre, con le esecuzioni indiscriminate, gli stupri e la cattura di circa 200 ostaggi, sia stato di natura terroristica. Non vi è dubbio, altresì, che quell’attacco, recato per dimostrare al mondo la vulnerabilità di uno degli eserciti più potenti del pianeta, ha messo strategicamente il destino dei palestinesi di Gaza nelle mani dei loro nemici. Per quanto un’inchiesta dell’informato New York Times attesti l’impreparazione dell’esercito israeliano, permane il dubbio, sollevato da più parti, che aver permesso l’attacco di Hamas abbia fornito il pretesto al governo Netanyahu per scatenare l’”operazione Spade di Ferro” (una designazione vecchia quanto la legge del taglione), che a occhio nudo va oltre il dichiarato obbiettivo della liberazione degli ostaggi e della stessa “vendetta” rivendicata dal governo israeliano. Comunque al di là delle ambigue dichiarazioni le azioni sul campo dell’esercito israeliano tradiscono l’obbiettivo vero dell’intera operazione: non solo e non tanto “sradicare” Hamas da Gaza City, come dichiarato all’inizio dell’invasione di terra, quanto cacciare i palestinesi dall’intera Striscia di Gaza, spingendoli in Egitto o deportandoli in qualche altro paese come il Congo. Il governo egiziano del generale Al Sisi negli ultimi due mesi ha ricevuto 26 miliardi di dollari dagli USA e 9 miliardi euro dall’Unione Europea per prendersi i palestinesi (Il Manifesto, 23.12.2023). Ciò dimostra non solo che le potenze occidentali stanno tenendo verso il genocidio di Gaza un atteggiamento di complice connivenza, ma anche subiscono o condividono l’obbiettivo strategico di Israele. Negli ultimi giorni tale obbiettivo è stato apertamente dichiarato da fonti governative secondo The Times of Israel (riportato da Il Fatto quotidiano del 3.1.2024).

Ancora più nette sono le dichiarazioni di marca razzista della dirigenza politica di Tel Aviv. Come viene riportato sul canale Telegram da Atalya Ben Abba, una giovane donna obbiettrice di coscienza dell’esercito israeliano, che ha scontato quattro mesi di carcere perché si è rifiutata di far parte delle truppe di occupazione dei territori palestinesi, siamo di fronte a un “linguaggio genocida”. Moshe Feiuglin, ex vicepresidente del parlamento israeliano, ha detto: “Annientate Gaza subito! Gaza deve diventare Dresda”. Yoav Gallant, attuale ministro della difesa, per spiegare le misure draconiane contro gli abitanti di Gaza, ha affermato “stiamo combattendo contro animali umani”. Amihai Eliyahu, ministro al patrimonio, alla domanda “dovremmo gettare una bomba nucleare lì e ucciderli tutti?” ha risposto in modo irresponsabile: “Questa è una possibilità”. Analogamente Tally Gotliv , deputata del Likud, il partito di Netanyahu, ha confermato: “è necessaria un arma apocalittica”. Galit Distel Arbaryan, altra deputata del Likud, ha scritto sui social: “Gaza deve essere cancellata, i mostri palestinesi fuggiranno verso la recinzione sud e entreranno in Egitto oppure moriranno”. Netanyahu paragona i palestinesi ad Amalek, l’unica nazione di cui la Bibbia dice che deve essere sterminata: “non risparmiateli, mettete a morte uomini, donne, bambini e neonati”.

Queste dichiarazioni disumane corrispondono parola per parola con quanto sta accadendo sul campo a Gaza. Gli Stati Uniti, il principale alleato di Israele, e le altre potenze occidentali hanno più volte dichiarato che non è lecito opporsi alla necessità di Israele di difendersi e oggi si trovano imbarazzate a fronteggiare i propositi del governo Netanyahu di occupare la Striscia di Gaza, espellendo i palestinesi dalle proprie case e dalla propria terra. È una linea antica, sulla quale si fonda lo stato di Israele dall’epoca in cui il suo fondatore Ben Gurion si fece largo tra i palestinesi a suon di bombe. Non trovo alcun precedente storico nel secondo dopoguerra di questo tipo, in cui uno stato distrugge sistematicamente un gruppo etnico con la sostanziale complicità della comunità internazionale dei paesi democratici. Dobbiamo risalire al genocidio degli armeni (1915-1919) per mano dell’impero ottomano, rimasto quasi occulto per alcuni decenni e ancora oggi misconosciuto dalla Turchia. La stessa Germania nazista perpetrò lo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei, ma dopo alcune iniziali titubanze fu condannata da tutto il mondo civile. Siamo quindi di fronte ad una condizione eccezionale.

In Germania tale condizione è stata definita come “eccezionalismo tedesco” a proposito della contraddizione apertasi tra la direzione di Fridays for Future con le dichiarazioni di Greta Thumberg a favore della Palestina e di Gaza (“Stand with Gaza”) e la sua sezione tedesca, che ha assunto in tutta fretta una posizione intermedia ed equidistante, cautelandosi dalla accusa di antisemitismo rivolta all’attivista svedese. Il blog Kater, “che parla di Germania o almeno ci prova”, definisce l’eccezionalismo come un “particolare sostrato di significati e automatismi che viene innescato ogni volta che in Germania si parla di Israele” (30.10.2023). È la ragione per cui Angela Merkel nel suo famoso discorso alla Knesset israeliana nel 2008 definì l’esistenza e la sicurezza di Israele come “ragione di stato” della Germania, sottolineando il surplus di responsabilità di cui i tedeschi devono farsi carico a causa del loro passato. È questo l’automatismo che mette a tacere ogni ragionevole discorso sulle attuali responsabilità di Israele. Questa è la critica rivolta su “Il Manifesto” (23.12.2023) da Asef Bayat, studioso iraniano-americano del Medio Oriente, a un intellettuale del calibro di Jürgen Habermas, che ha ammonito di evitare critiche ai bombardamenti su Gaza perché il diritto all’esistenza di Israele merita una protezione speciale alla luce dei crimini di massa dell’era nazista. Se fosse sufficiente, mettendo da parte le ragioni politiche, potremmo dire che tale eccezionalismo si fonda su un senso di colpa colossale dei tedeschi (e anche dell’opinione pubblica occidentale?) verso gli ebrei e Israele. Ma un grande pensatore ebreo di lingua tedesca come Freud ci ha insegnato come la colpa sia un pessimo consigliere.

Infine devo sottolineare la totale impotenza dell’ONU. Gli appelli del segretario generale Antònio Guterrez sono caduti nel vuoto e la risoluzione per un “cessate il fuoco umanitario immediato a Gaza”, approvata dall’Assemblea Generale il 12.12.2023, è stata bocciata per il veto posto dagli USA. Ciò dimostra ancora una volta come le istituzioni internazionali, uscite dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno strumenti spuntati per il governo del multilateralismo concorrenziale, che con il declino della superpotenza unica statunitense si contende oggi il pianeta con rischi crescenti di una conflagrazione mondiale (basti considerare il progressivo allargamento del conflitto alla Cisgiordania, al Libano e all’interessamento di tutto il Medio Oriente) e del conseguente pericolo atomico.

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Alessandro Orsini – Le navi militari italiane nel Mar Rosso e l'”ottimismo” di Tajani
Tajani: “Sono ottimista sulla missione Ue nel Mar Rosso, proposta con Francia e Germania”.

Caro Ministro Tajani, la politica internazionale in Medio Oriente non funziona come lei crede. Se l’Unione europea aggiunge nuove bombe contro lo Yemen, ciò che lei avrà, caro ministro, è un inferno ancora più grande di quello che abbiamo sotto gli occhi con la crescita esponenziale del rischio che l’Italia subisca uno o più attentati terroristici di matrice jihadista. Sono trent’anni che l’Occidente a guida americana fallisce tutte le sfide importanti in politica estera perdendo tutte le guerre che avvia. La politica estera dell’Occidente, negli ultimi trent’anni, è stata soltanto bombe, minacce, ricatti, intimidazioni, guerre illegali, invasioni, occupazioni, sanzioni, omicidi e violazione costante del diritto internazionale. I problemi non si risolvono cancellando i palestinesi o gli houthi. E’ follia crederlo. I problemi si risolvono all’italiana, mediando e ragionando. Tenga l’Italia fuori da questo precipizio e i nostri figli si ricorderanno di lei come di un uomo saggio e giusto. Ma se lei precipiterà l’Italia in queste guerre create, ideate, causate e organizzate dall’Occidente in Medio Oriente, i nostri figli si ricorderanno di lei come del ministro della minestra.

Una minestra di sangue.
Tajani dice: “Le navi nel Mar Rosso non hanno regole d’ingaggio per attaccare ma hanno il diritto a difendere e proteggere, anche con l’uso delle armi, le navi mercantili ove mai fossero attaccate”.
Caro ministro, mi aiuti a capire, lei manda le navi militari dell’Italia nel Mar Rosso e si aspetta che non vengano attaccate mentre il mondo da quelle parti scoppia?
Ma non vede che stanno partendo missili da tutte le parti?
Che cosa si aspetta di veder volare nel Mar Rosso, i fiorellini?

Caro ministro, io le voglio bene, penso che lei sia una bravissima persona che merita il massimo rispetto, ma lei non ha la più pallida idea dell’inferno in cui sta mettendo le mani con le spalle scoperte in Ucraina.

*Post Facebook del 18 gennaio 2023

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BLUFF E CONTRO BLUFF MENTRE LA GUERRA SI ALLARGA – Alastair Crooke

Quando il Segretario alla Difesa Austin ha visitato “Israele” per l’ultima volta, ha chiaramente “dato il via libera” all’azione militare israeliana volta ad allontanare Hizbullah dal Libano meridionale.

Il 7 gennaio 2024, il Washington Post riferiva che Biden aveva incaricato il suo staff di prevenire l’allargamento della guerra regionale. Il pezzo era stato fatto trapelare di proposito (come aveva ammesso anche lo stesso Washington Post) – ed era un bluff.

Quando il Segretario alla Difesa Austin aveva visitato “Israele” per l’ultima volta, aveva chiaramente “dato il via libera” all’azione militare israeliana per allontanare Hizbullah dal Libano meridionale e farlo arretrare a nord del fiume Litani – circa 29 km a nord del confine meridionale della Linea Blu.

L’unica avvertenza di Austin, tuttavia, era che questa azione militare avrebbe dovuto attendere l’esito del tentativo dell’inviato di Biden, Hochstein, di persuadere il governo provvisorio del Libano a “garantire” il disarmo e lo spostamento di Hizbullah a nord del fiume Litani.

Secondo le ultime notizie, circa 250.000 israeliani risiedono in hotel (a spese del governo israeliano), in attesa del momento in cui potranno tornare nel “nord di Israele”, alle loro case da cui erano stati evacuati dalle autorità. Il Ministro della Difesa Gallant ha promesso loro che torneranno a casa entro la fine di gennaio (cioè presto, verso la fine di questo mese). I residenti, tuttavia, hanno rifiutato la proposta di Gallant, temendo che Hizbullah sarà ancora troppo vicino alle loro case (con la possibilità, a loro avviso, che un nuovo evento come quello del 7 ottobre arrivi da nord).

Chiedere a Hezbollah di disarmare e ritirarsi a 40 km dal confine è semplicemente una “pia illusione”. Nel sud del Libano, Hezbollah è una parte centrale del tessuto sociale in quasi tutti i villaggi e lo è da circa 500 anni; non verrà trasferito e non si disarmerà.

Pertanto, l’inviato statunitense Hochstein ora ammette che lo spostamento di Hezbollah non è più il suo obiettivo. Gli Stati Uniti, dice, vogliono “la calma” sul confine meridionale, cioè l’obiettivo ora è solo quello di separare il fronte libanese da quello di Gaza (in modo che la guerra sia contenuta a Gaza). Questo, ovviamente, darebbe a “Israele” la possibilità di continuare le sue operazioni contro Hamas a Gaza, senza temere che il fronte settentrionale si infiammi.

Ecco quindi il primo importante bluff: l’amministrazione Biden non ha mai cercato seriamente di impedire l’allargamento della guerra, l’azione militare contro Hizbullah era già stata “autorizzata”. Questo fine settimana il ministro Ben Gvir ha insistito affinché “Israele” colpisca preventivamente Hizbullah in Libano. E Netanyahu ha ribadito che: “nessuno ci fermerà”.

Quindi, allargare la guerra è “ok”. L’obiettivo di Biden è infatti quello di dare a Israele il massimo margine di manovra per raggiungere i suoi obiettivi massimalisti, mitigato solo dal fatto che non vuole che una guerra allargata coinvolga l’Iran o la Russia. (La Russia per quanto riguarda il teatro siriano).

Sabato scorso, il ministro della Difesa britannico Grant Shapps ha avvertito l’Iran che il mondo sta “esaurendo la pazienza”, affermando che “il regime iraniano” deve dire ai suoi “teppisti Houthi” di interrompere i loro attacchi nel Mar Rosso e agli altri “proxy” iraniani di “cessare e desistere” dalle loro azioni, avvertendo che “il limite è stato veramente superato”. Shapps ha minacciato:

“Vi vediamo; vediamo quello che state facendo. Vediamo come lo state facendo, in particolare i ribelli Houthi, e non può venirne nulla di buono”.

Naturalmente, anche questa è pura assurdità. È un bluff. Gli Houthi saranno anche sciiti – come gli iraniani – ma sono zaiditi e non sono sciiti come gli iraniani – gli iraniani sono sciiti “duodecimani”, mentre gli Houthi sono “zaiditi”. Gli Houthi (Ansarallah), ferocemente indipendenti, potranno anche essere d’accordo con l’Iran su molte cose, ma nessuno, proprio nessuno, può dire loro cosa fare.

“Chi ha attaccato il vostro Paese?”. ha chiesto venerdì il leader di Ansarallah Mohammed Ali al-Houthi durante un comizio nella piazza Sabeen di San’a. Decine di migliaia di yemeniti che si erano riuniti per protestare contro gli attacchi degli Stati Uniti e del Regno Unito hanno risposto: “America”! “L’America è il diavolo. L’America è il vostro nemico. L’America è il terrorismo”, ha risposto il leader Houthi.

I bluff di Biden e Shapps saranno visti da Ansarallah. Non “cesseranno e desisteranno”. Il confronto con gli Stati Uniti è da tempo un’ambizione di Ansarallah. Il Wall Street Journal descrive in modo appropriato il modo in cui gli Stati Uniti e il Regno Unito si stanno cacciando in un vicolo cieco: “Questi attacchi danno agli Houthi il nemico che cercavano da tempo”.

Elisabeth Kendall osserva:

“Gli Houthi sono abituati a subire pesanti attacchi aerei e sanno che gli Stati Uniti non andranno oltre un certo limite perché non vogliono mettere gli scarponi sul terreno o infiammare ulteriormente le tensioni regionali. Questo rende ora [gli Houthi] le vittime-eroi, gli eroici martiri; non hanno una vera ragione per fermarsi e sono abituati a sostenere perdite”.

Il portavoce della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato che gli Stati Uniti non vogliono una guerra con lo Yemen, ma non esiteranno ad intraprendere ulteriori azioni. Il bluff qui, come nota Larry Johnson, è che né il Regno Unito né gli Stati Uniti hanno la capacità di mantenere una presenza navale prolungata al largo della costa yemenita, dove droni e missili a basso costo possono facilmente esaurire le scorte dei missili della difesa aerea delle navi.

Il bluff più grande, tuttavia, è quello nei confronti dell’Iran. I neoconservatori statunitensi auspicano da tempo un’azione militare contro l’Iran, ma la capacità di deterrenza dell’Iran non è più quella degli anni passati, quando i falchi statunitensi chiedevano di “bombardare, bombardare, bombardare l’Iran”.

Il nodo cruciale per gli Stati Uniti sarà la “pillola rossa” iraniana. In parole povere, “sì” gli Stati Uniti possono distruggere le infrastrutture civili iraniane, ma non più le sue infrastrutture nucleari, né la sua difesa missilistica, la sua “Pillola Rossa” è nascosta e ben dispersa.

Ricordate cosa aveva scritto l’ex premier israeliano Ehud Barak su Time Magazine nel 2022:

“La realtà è questa: sia Israele che (sicuramente) gli Stati Uniti possono operare nei cieli dell’Iran contro questo o quel sito o impianto e distruggerlo. Ma una volta che l’Iran avrà, di fatto, una latenza nucleare [come ha ora], questo tipo di attacco, semplicemente, non potrà impedire agli iraniani di arrivare all’arma atomica. Anzi, in certe circostanze potrebbe accelerare la loro corsa verso l’assemblaggio della bomba e fornire loro una misura di legittimità sulla base dell’autodifesa”.

“In altre parole, a differenza delle operazioni chirurgiche prese in considerazione 12 anni fa, o che avrebbero potuto essere prese in considerazione 4 anni fa – operazioni che avrebbero potuto ritardare in modo sostanziale il programma iraniano (pur rischiando una guerra con l’Iran) – le possibilità attuali comportano tutti i rischi di guerra (soprattutto per Israele) – con solo scarse probabilità di ritardare il programma nucleare iraniano… È ora di guardare in faccia la realtà”…”.

La pillola rossa?

La pillola rossa messa in campo dall’Iran è semplicemente questa: se l’Iran dovesse essere attaccato dagli Stati Uniti, la distruzione non sarà di aiuto a “Israele”. Perché “Israele” non esisterà più (i missili a mano morta [a lancio automatico], dispersi e dislocati nel sottosuolo, continueranno ad essere lanciati molto tempo dopo la cessazione dei raid occidentali).

Non è un bluff. L’Iran non vuole assolutamente una “grande guerra”, ma si sta preparando da vent’anni proprio per questa eventualità.

da qui

 

 

I rabbini americani interrompono la riunione delle Nazioni Unite e chiedono a Biden di smettere di bloccare la pace a Gaza – Ephrem Kossaify

La riunione dell’Assemblea Generale fa seguito al recente veto degli Stati Uniti sull’emendamento alla risoluzione per il cessate il fuoco a Gaza. L’inviato palestinese chiede al mondo di porre fine alla “schizofrenia” di opporsi alle atrocità della guerra e allo stesso tempo mettere un veto alla pace.

Decine di rabbini americani hanno interrotto una riunione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York per chiedere che Washington smetta di impedire al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di intraprendere azioni urgenti a sostegno di un cessate il fuoco immediato e permanente a Gaza.

Durante la loro protesta – guidata dall’organizzazione Rabbis 4 Ceasefire e co-organizzata da Jewish for Racial and Economic Justice, Jewish Voice for Peace e IfNotNow – i 36 rabbini, provenienti da diversi Stati, hanno cantato, pregato e recitato brani tratti dalla Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni Unite, e organizzato una cerimonia commemorativa. Portavano striscioni con la scritta “Biden: il mondo dice: Cessate il fuoco” invitando il presidente degli Stati Uniti a “smettere di porre il veto alla pace”.

Dopo essere stati scortati fuori dai locali dal personale di sicurezza, hanno indetto una conferenza stampa davanti all’ONU. La rabbina Alissa Wise, fondatrice di Rabbis 4 Ceasefire, ha riferito come avessero assistito con orrore al governo degli Stati Uniti che “da solo ha bloccato gli sforzi per fermare i bombardamenti e la morte per fame a Gaza per mano di Israele”.

Ha aggiunto: “Sappiamo che non esiste una soluzione militare a questa violenza. Siamo qui a pregare perché l’ONU è dove può avere luogo un’azione diplomatica significativa per fermare la violenza, e perché la preghiera è il modo in cui noi, come rabbini, possiamo esprimere le nostre paure, sogni, speranze e disperazione”.

La rabbina Abby Stein, appartenente a Jewish For Racial and Economic Justice, ha affermato che l’ONU è stata creata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto nazista che prese di mira il popolo ebraico con l’intento di garantire che tale atrocità non si ripetessero mai più.

Sono qui come ebrea, come rabbina ordinata, come nipote di tre sopravvissuti all’Olocausto, per sollecitare le Nazioni Unite a portare avanti questa nobile missione”, ha detto. “‘Mai più’ significa mai più per nessuno.”

Il rabbino Elliot Kukla ha dichiarato: “Gli Stati Uniti stanno difendendo l’indifendibile in un’Assemblea Generale, usando il loro potere di veto per impedire da soli alle Nazioni Unite di intraprendere azioni significative per un cessate il fuoco. Sono qui come rabbino perché la tradizione ebraica richiede che facciamo tutto ciò che è in nostro potere per salvare vite umane, il che significa fornire assistenza umanitaria ai palestinesi che sono sfollati, muoiono di fame e non hanno un posto sicuro dove rifugiarsi mentre piovono bombe. Il nostro governo si rifiuta di rappresentare questa richiesta di una vasta maggioranza popolare; siamo venuti qui per rappresentare direttamente noi stessi e i nostri valori ebraici”.

L’incontro di martedì è avvenuto dopo che gli Stati Uniti hanno posto il veto alla proposta della Russia di modificare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza per includere un appello per il cessate il fuoco a Gaza.

Il 22 dicembre il Consiglio aveva adottato una risoluzione, redatta dagli Emirati Arabi Uniti, che chiedeva maggiori aiuti alla Striscia di Gaza, comprese misure urgenti tra cui un accesso umanitario sicuro, senza ostacoli e ampio, al territorio. Gli Stati Uniti si sono astenuti dal voto dei 15 membri del Consiglio ma non hanno usato il loro potere di veto e così la risoluzione è stata adottata.

La Russia aveva proposto un emendamento alla risoluzione chiedendo “una cessazione urgente e sostenibile delle ostilità”. Gli Stati Uniti hanno posto il veto a questa proposta di cambiamento.

Una risoluzione dell’Assemblea Generale stabilisce che ogni volta che un membro del Consiglio di Sicurezza usa il suo potere di veto, si indica una riunione e un dibattito in assemblea per esaminare e discutere la scelta.

Robert Wood, il vice rappresentante permanente degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, ha affermato che, sebbene gli Stati Uniti si siano astenuti dal voto, hanno comunque lavorato “in buona fede” per contribuire a forgiare una risoluzione forte…

Riyad Mansour, osservatore permanente dello Stato di Palestina presso le Nazioni Unite, ha affermato di trovarsi davanti all’Assemblea Generale “in rappresentanza di un popolo massacrato, con famiglie integralmente uccise, uomini e donne fucilati per le strade, migliaia di persone rapite, torturate e umiliate, bambini uccisi, amputati, orfani – segnati per tutta la vita”. È incomprensibile, ha aggiunto, che al Consiglio di Sicurezza venga ancora impedito di chiedere un cessate il fuoco umanitario immediato anche se è proprio ciò che avevano chiesto 153 Stati membri dell’Assemblea Generale e il Segretario generale delle Nazioni Unite.

La “guerra delle atrocità” di Israele non ha precedenti nella storia moderna, ha detto Mansour. “Non si tratta della sicurezza israeliana, si tratta della distruzione della Palestina”, ha continuato. “Gli interessi e gli obiettivi di questo governo estremista israeliano sono chiari e incompatibili con gli interessi e gli obiettivi di qualsiasi Paese che sostenga il diritto internazionale e la pace”. E ha chiesto: “Come si può conciliare l’opposizione alle atrocità con il veto alla richiesta di porre fine alla guerra che porta alla loro esecuzione?” Ha chiesto che “questa schizofrenia” finisca e ha aggiunto: “Non invocate la pace mentre aprite il fuoco. Se volete la pace, iniziate con un cessate il fuoco. Ora.”

L’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, Gilad Erdan, ha condannato la richiesta di cessate il fuoco mentre gli ostaggi israeliani sono ancora tenuti prigionieri. “Quanto è ormai moralmente in bancarotta questa istituzione?” ha chiesto, dicendo che “Nonostante il marciume morale delle Nazioni Unite” i cittadini di Israele sono resilienti, con la fede, la speranza e l’incrollabile determinazione a difendersi. Ha accusato l’ONU di ignorare le vittime israeliane del conflitto, di preoccuparsi solo dei gazawi e di farsi “complice dei terroristi”, e ha affermato che l’organizzazione ha perso la sua ragione di esistenza. L’ONU “è ossessionata solo dal benessere della gente di Gaza” che ha messo Hamas al potere e sostenuto le atrocità del gruppo, ha detto Erdan aggiungendo: “Voi ignorate tutte le vittime israeliane”.

La vice rappresentante permanente della Russia presso le Nazioni Unite, Anna Evstigneeva, ha affermato che quando il 22 dicembre Washington ha usato il suo veto al Consiglio di Sicurezza, si è resa colpevole di giocare un “ruolo senza scrupoli” nel tentativo di proteggere Israele dalle sue azioni a Gaza. Ha detto che attraverso l’uso del ricatto e del braccio di ferro gli Stati Uniti hanno dato a Israele la licenza di continuare a uccidere i palestinesi e la benedizione alla “continuazione dello sterminio degli abitanti di Gaza”, motivo per cui Mosca ha proposto il suo emendamento.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano) da Zeitun

da qui

 

 

A proposito di sionismo e semitismo – Paolo D’Arpini

…iniziamo con il cercare di capire come e quando è nato il sionismo.

Solitamente si ritiene che esso sia originato da un filone di pensiero, sorto all’interno della comunità ebraica, verso i primi anni del secolo scorso (od alla fine del precedente) ed abbia trovato una sua prima attuazione concreta nella fondazione di Israele. Questo fatto è stato comunque accompagnato da una forte crescita dell’influenza di un certo “ceto” ebraico nel campo economico e della finanza mondiale. Il nido in cui tale influenza ha potuto svilupparsi si trova negli USA, il cuore dell’America, ed in parte anche in Inghilterra. Fu proprio in seguito a questa forte influenza che l’Inghilterra acconsentì alla cessione della Palestina, al termine del secondo conflitto mondiale, affinché gli ebrei (vittime di persecuzioni e sterminio) potessero fondare (o rifondare) una loro patria. La famosa “terra promessa”… Ed il ritorno in quella casa ideale avvenne con una celere penetrazione e occupazione del territorio palestinese, considerato “proprio”.

La nascita d’Israele, il necessario caposaldo per creare un precedente e stabilire un percorso futuro, sancì di fatto l’attuazione del sionismo. Una terra è come un tempio, se si possiede un tempio la religione viene santificata altrimenti è solo un’ipotesi. E l’identità sionista aveva ed ha bisogno proprio di questo: un tempio simbolo dell’avverarsi delle promesse del dio Yhwh. Un ritorno alla casa madre dopo la diaspora provocata dalla distruzione del tempio ad opera di Tito.

Ma attenzione la diaspora ebraica in realtà non fu causata specificatamente dalla distruzione di Gerusalemme. Questo fatto militare contribuì soltanto ad incrementare un processo che era già avvenuto ed era in corso da secoli. La diaspora, od il nomadismo, degli ebrei era una componente della loro cultura, L’origine semitica pastorale di questa tribù patriarcale e la tendenza a vagare cercando nuovi pascoli era ben radicata nel dna ebraico. Il popolo ebraico, suddiviso in varie famiglie, era già sparso in tutto il mondo conosciuto allorché alcune sue bande presero ad insediarsi in Palestina, contrastando e sottomettendo gli agricoltori autoctoni, quelli che avevano costruito le prime città dell’antichità (ricordate la storia di Gerico?).

Questa spinta espansionistica e la considerazione di avere un diritto, garantito dal loro dio, di appropriarsi dei beni altrui, ed inoltre la “distinzione” religiosa settaria che rendeva gli ebrei diversi da ogni altro popolo fece sì che nella loro cultura si affermasse la convinzione, un credo, che poneva il popolo eletto ad di sopra di ogni altro essere umano. Non me lo sto inventando, basterà leggere la bibbia e la torah per rendersene conto. Ma questo ora non c’entra con il mio discorso.. ritorniamo al tema principale. Comunque un’ultima considerazione mi sia consentita. Per gli ebrei il fatto di considerarsi appartenenti ad una “unica” cultura, condivisa per trasmissione genetica, fece sì che il legante religioso fosse abbastanza forte da mantenere il senso della nazione e della comunità, pur non vivendo nella stessa terra. E questo è un punto saliente. Ma questo attaccamento ancestrale alle proprie radici etniche non è ancora la causa originaria del sionismo… Tutt’altro! Infatti per i veri ebrei, quelli nati e vissuti secondo la tradizione, il sionismo viene visto come una sorta di devianza, una eresia. Come lo fu l’eresia cristiana e maomettana. Infatti sappiamo bene che queste due religioni sorsero come varianti dell’ebraismo.

Ma cosa e chi intendo per ebrei “veri”? Non intendo riferirmi semplicisticamente a quegli ortodossi, con barboni e palandrane nere, che folkloristicamente si lamentano al muro del pianto, mi riferisco  ovviamente a quelli che la Palestina mai abbandonarono e più  in generale a tutta la “gens” di origine ebraica, sia quella antecedente che quella successiva alla “diaspora” (del ‘70 d.C.).  Sono i discendenti degli ebrei sparpagliati in tutto il mondo conosciuto dell’antichità, dalla Persia alla Grecia, dall’Egitto all’Italia, etc. ma tutti questi ebrei sono oggi una minoranza ristretta della comunità internazionale giudea.

In verità questi ebrei “originali” sono oggi fra i più accaniti oppositori del sionismo. Ed il motivo è semplice: il sionismo nasce da elementi non ebraici. Il sionismo sorge in un contesto razziale diverso da quello ebraico, è il risultato di una rivalsa storica da parte di “conversi” di origine caucasica turcomanna, che abbracciarono nel 740 della nostra era (sotto il Khagan Bulan) la “fede” del popolo eletto (per un malaugurato errore di alcuni rabbini), semplicemente per convenienza politica, per questioni di potere, per mantenere una differenziazione fra i due blocchi “religiosi” che allora si contendevano il dominio della terra: i musulmani ed i cristiani.

Questi “conversi”, un intero popolo, i khazari (o cazari), formarono la componente ebraica dell’Europa orientale. Il sionismo comincia da loro, anche se non era ancora chiaro come modello. Infatti si sa che gli ultimi saranno i primi e che i nuovi aderenti ad un credo divengono spesso i più fanatici, anche perché sanno di non averne realmente diritto e quindi se lo conquistano con un reiterato zelotismo ed odio sia nei confronti degli opponenti originari, i cristiani ed i musulmani, sia contro i loro “fratelli maggiori” gli ebrei originari. Sono i successori di questi sedicenti “ebrei” (cosa contraria alla legge giudaica, poiché si può essere ebrei solo per appartenenza genetica, ovvero nascendo da madre ebrea), che oggi compongono la schiera dei banchieri e finanzieri che dirigono la politica e l’economia e che hanno creato il fulcro sionista in Israele e che sono diventati la maggioranza del popolo “eletto”.

Tanto per fare chiarezza…

da qui

 

Pepe Escobar – Come è stato sconfitto l’Occidente

Emmanuel Todd, storico, demografo, antropologo, sociologo e analista politico, fa parte di una razza in via di estinzione: uno dei pochissimi esponenti rimasti dell’intellighenzia francese della vecchia scuola – un erede di quelli come Braudel, Sartre, Deleuze e Foucault che hanno affascinato le successive giovani generazioni della Guerra Fredda, dall’Occidente all’Oriente.

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

La prima chicca che riguarda il suo ultimo libro, La Défaite de l’occident (“La sconfitta dell’Occidente”) è il piccolo miracolo di essere stato pubblicato la settimana scorsa in Francia, proprio nell’ambito della NATO: una bomba a mano di un libro, di un pensatore indipendente, basato su fatti e dati verificati, che fa saltare tutto l’edificio della russofobia eretto intorno all'”aggressione” dello “zar” Putin.

Almeno alcuni settori dei media aziendali francesi, rigorosamente controllati dagli oligarchi, non potevano ignorare Todd questa volta per diversi motivi. Soprattutto perché è stato il primo intellettuale occidentale, già nel 1976, a prevedere la caduta dell’URSS nel suo libro La chute finale (“Il crollo finale”), con una ricerca basata sui tassi di mortalità infantile sovietici.

Un altro motivo fondamentale è stato il suo libro del 2002 Apres l’empire (“Dopo l’ompero”), una sorta di anteprima del declino e della caduta dell’Impero, pubblicato pochi mesi prima di Shock & Awe in Iraq.

Ora Todd, in quello che ha definito il suo ultimo libro (“ho chiuso il cerchio”), si permette di a rischiare il tutto per tutto e di descrivere meticolosamente la sconfitta non solo degli Stati Uniti, ma dell’Occidente nel suo complesso – concentrando le sue ricerche sulla guerra in Ucraina.

Considerando l’ambiente tossico della NATOstan, dove la russofobia e la cancel culture (la cultura della cancellazione) regnano sovrane e ogni deviazione è punibile, Todd è stato molto attento a non inquadrare l’attuale processo come una vittoria russa in Ucraina (anche se ciò è implicito in tutto ciò che descrive, da diversi indicatori di pace sociale alla stabilità complessiva del “sistema Putin”, che è “un prodotto della storia della Russia, e non l’opera di un solo uomo”).

Piuttosto, si concentra sulle ragioni principali che hanno portato alla caduta dell’Occidente. Tra queste: la fine dello Stato-nazione; la deindustrializzazione (che spiega il deficit della NATO nella produzione di armi per l’Ucraina); il “grado zero” della matrice religiosa dell’Occidente, il protestantesimo; il forte aumento del tasso di mortalità negli Stati Uniti (molto più alto che in Russia), insieme a suicidi e omicidi; e la supremazia di un nichilismo imperiale espresso dall’ossessione delle Guerre Eterne.

Il crollo del protestantesimo

Todd analizza metodicamente, in sequenza, Russia, Ucraina, Europa dell’Est, Germania, Gran Bretagna, Scandinavia e infine l’Impero. Concentriamoci su quelli che sarebbero i 12 Greatest Hits del suo notevole esercizio.

  1. All’inizio dell’Operazione Militare Speciale (OMS) nel febbraio 2022, il PIL combinato di Russia e Bielorussia era solo il 3,3% dell’Occidente combinato (in questo caso la sfera NATO più Giappone e Corea del Sud). Todd si stupisce di come questo 3,3% in grado di produrre più armi dell’intero colosso occidentale non solo stia vincendo la guerra, ma stia riducendo in frantumi le nozioni dominanti di “economia politica neoliberale” (tassi di PIL).
  1. La “solitudine ideologica” e il “narcisismo ideologico” dell’Occidente – incapace di comprendere, ad esempio, come “l’intero mondo musulmano sembra considerare la Russia un partner piuttosto che un avversario”.
  1. Todd rifugge dalla nozione di “Stati weberiani” – evocando una squisita compatibilità di vedute tra Putin e l’esperto di realpolitik statunitense John Mearsheimer. Costretti a sopravvivere in un ambiente in cui contano solo le relazioni di potere, gli Stati agiscono ora come “agenti hobbesiani”. E questo ci porta alla nozione russa di Stato-nazione, incentrata sulla “sovranità”: la capacità di uno Stato di definire autonomamente le proprie politiche interne ed esterne, senza alcuna interferenza straniera.
  1. L’implosione, passo dopo passo, della cultura WASP, che ha portato, “a partire dagli anni ’60”, a “un impero privo di un centro e di un progetto, un organismo essenzialmente militare gestito da un gruppo senza cultura (in senso antropologico)”. Questo è Todd che definisce i neocons statunitensi.
  1. Gli Stati Uniti come entità “post-imperiale”: solo un guscio di macchina militare privato di una cultura guidata dall’intelligence, che porta a “un’accentuata espansione militare in una fase di massiccia contrazione della sua base industriale”. Come sottolinea Todd, “la guerra moderna senza industria è un ossimoro”.
  1. La trappola demografica: Todd mostra come gli strateghi di Washington “hanno dimenticato che uno Stato la cui popolazione gode di un alto livello educativo e tecnologico, anche se in diminuzione, non perde la sua potenza militare”. Questo è esattamente il caso della Russia durante gli anni di Putin.
  1. Qui arriviamo al punto cruciale dell’argomentazione di Todd: la sua reinterpretazione post-Max Weber de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, pubblicato poco più di un secolo fa, nel 1904/1905: “Se il protestantesimo è stato la matrice dell’ascesa dell’Occidente, la sua morte, oggi, è la causa della disintegrazione e della sconfitta”.

Todd definisce chiaramente come la “Gloriosa Rivoluzione” inglese del 1688, la Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776 e la Rivoluzione francese del 1789 siano stati i veri pilastri dell’Occidente liberale. Di conseguenza, un “Occidente” espanso non è storicamente “liberale”, perché ha anche progettato “il fascismo italiano, il nazismo tedesco e il militarismo giapponese”.

In poche parole, Todd mostra come il protestantesimo abbia imposto l’alfabetizzazione universale alle popolazioni che controllava, “perché tutti i fedeli devono accedere direttamente alle Sacre Scritture. Una popolazione alfabetizzata è capace di sviluppo economico e tecnologico. La religione protestante ha modellato, per caso, una forza lavoro superiore ed efficiente.” Ed è in questo senso che la Germania è stata “al centro dello sviluppo occidentale”, anche se la Rivoluzione industriale ha avuto luogo in Inghilterra.

La formulazione chiave di Todd è indiscutibile: “Il fattore cruciale dell’ascesa dell’Occidente fu l’attaccamento del protestantesimo all’alfabetizzazione.”

Inoltre il protestantesimo, sottolinea Todd, è due volte al centro della storia dell’Occidente: attraverso la spinta educativa ed economica – con la paura della dannazione e il bisogno di sentirsi scelti da Dio che generano un’etica del lavoro e una forte moralità collettiva – e attraverso l’idea che gli omini sono diseguali (ricordate il Fardello dell’Uomo Bianco).

Il crollo del protestantesimo non poteva che distruggere l’etica del lavoro a vantaggio dell’avidità di massa: ecco il neoliberismo.

Il transgenderismo e il culto del falso

  1. L’acuta critica di Todd allo spirito del 1968 meriterebbe un intero libro. Egli fa riferimento a “una delle grandi illusioni degli anni Sessanta, tra la rivoluzione sessuale anglo-americana e il maggio 68 francese”: “credere che l’individuo sarebbe stato più grande se liberato dal collettivo”. Questo ha portato a un’inevitabile debacle: “Ora che siamo liberi, in massa, dalle credenze metafisiche, fondative e derivate, comuniste, socialiste o nazionaliste, viviamo l’esperienza del vuoto.” Ed è così che siamo diventati “una moltitudine di nani mimetici che non osano pensare da soli – ma si rivelano capaci di intolleranza come i credenti dei tempi antichi”.
  1. La breve analisi di Todd sul significato più profondo del transgenderismo manda completamente in frantumi la Chiesa di Woke – da New York alla sfera dell’UE, e provocherà attacchi di rabbia seriali. Egli mostra come il transgenderismo sia “una delle bandiere di questo nichilismo che ora definisce l’Occidente, questa spinta a distruggere, non solo le cose e gli esseri umani, ma la realtà”.

E c’è un ulteriore bonus analitico: “L’ideologia transgender dice che un uomo può diventare una donna e una donna può diventare un uomo. È un’affermazione falsa e, in questo senso, vicina al cuore teorico del nichilismo occidentale.” La situazione peggiora quando si parla di ramificazioni geopolitiche. Todd stabilisce una giocosa connessione mentale e sociale tra questo culto del falso e il comportamento traballante dell’Egemone nelle relazioni internazionali. Un esempio: l’accordo sul nucleare iraniano concluso sotto Obama, che diventa un regime sanzionatorio duro sotto Trump. Todd: “La politica estera americana è, a suo modo, gender fluid.”

 

  1. Il “suicidio assistito” dell’Europa. Todd ci ricorda che all’inizio l’Europa era una coppia franco-tedesca. Poi, dopo la crisi finanziaria del 2007/2008, si è trasformata in “un matrimonio patriarcale, con la Germania come coniuge dominante che non ascolta più la sua compagna”. L’UE ha abbandonato ogni pretesa di difendere gli interessi dell’Europa – tagliandosi fuori dall’energia e dal commercio con il suo partner russo e auto-sanzionandosi. Todd identifica, correttamente, l’asse Parigi-Berlino sostituito dall’asse Londra-Varsavia-Kiev: quella fu “la fine dell’Europa come attore geopolitico autonomo”. E ciò è avvenuto solo 20 anni dopo l’opposizione congiunta di Francia-Germania alla guerra neocon all’Iraq.

 

  1. Todd definisce correttamente la NATO sprofondando nel “loro inconscio”: “Notiamo che il suo meccanismo militare, ideologico e psicologico non esiste per proteggere l’Europa occidentale, ma per controllarla.”

 

  1. Insieme a diversi analisti in Russia, Cina, Iran e tra gli indipendenti in Europa, Todd è sicuro che l’ossessione degli Stati Uniti – dagli anni ’90 – di tagliare fuori la Germania dalla Russia porterà al fallimento: “Prima o poi collaboreranno, perché “le loro specializzazioni economiche li definiscono complementari.” La sconfitta in Ucraina aprirà la strada, poiché una “forza gravitazionale” seduce reciprocamente Germania e Russia.

Prima di ciò, e a differenza di quasi tutti gli “analisti” occidentali della sfera mainstream di NATOstan, Todd capisce che Mosca è destinata a vincere contro l’intera NATO, non solo contro l’Ucraina, approfittando di una finestra di opportunità individuata da Putin all’inizio del 2022. Todd scommette su una finestra di 5 anni, cioè su un finale entro il 2027. È illuminante fare un confronto con il Ministro della Difesa Shoigu, che ha dichiarato l’anno scorso: l’OMS finirà entro il 2025.

Qualunque sia la scadenza, in tutto questo è insita una vittoria totale della Russia – con il vincitore che detta tutte le condizioni. Nessun negoziato, nessun cessate il fuoco, nessun conflitto congelato – come l’Egemone sta ora disperatamente girando.

 

Davos mette in scena “Il trionfo dell’Occidente”

Il grande merito di Todd, così evidente nel libro, è quello di usare la storia e l’antropologia per portare sul divano la falsa coscienza della società occidentale. Ed è così che, concentrandosi ad esempio sullo studio di strutture familiari molto specifiche in Europa, riesce a spiegare la realtà in un modo che sfugge totalmente alle masse collettive occidentali sottoposte al lavaggio del cervello e al turbo-neoliberismo.

Va da sé che il libro di Todd, basato sulla realtà, non sarà un grande hit tra le élite di Davos. Ciò che sta accadendo questa settimana a Davos è stato immensamente illuminante. Tutto è alla luce del sole.

Da parte di tutti i soliti sospetti – la tossica Medusa dell’UE von der Leyen; il guerrafondaio Stoltenberg della NATO; BlackRock, JP Morgan e gli altri capoccia che stringono la mano al loro giocattolo in felpa sudata a Kiev – il messaggio del “Trionfo dell’Occidente” è monolitico.

 

La guerra è pace. L’Ucraina non (corsivo mio) sta perdendo e la Russia non sta vincendo. Se non siete d’accordo con noi – su qualsiasi cosa – sarete censurati per “discorso d’odio”. Vogliamo il Nuovo Ordine Mondiale – qualunque cosa voi miseri contadini pensiate – e lo vogliamo ora.

E poi se tutto fallisce, una Malattia X prefabbricato vi colpirà.

da qui

 

 

Noi da che parte stiamo? – Antonio Cipriani

Vi ricordate il Rivoltoso Sconosciuto di Pechino? Un giovane cinese, il 5 giugno del 1989, il giorno dopo il massacro di Piazza Tienanmen, si mise davanti a una fila di carri armati impedendone l’avanzata. Aveva una camicia bianca e calzoni neri, in mano due borse della spesa. La foto scattata da Jeff Widener, dell’Ap, fece la storia. Un uomo solo, disarmato, fermò i carri armati.

Mi torna in mente in queste ore tragiche questa immagine drammatica e piena di umanità. Coraggioso il Rivoltoso Sconosciuto, sicuramente. Ma altrettanto coraggioso il militare dentro il carro armato che si fermò, simbolicamente si arrese di fronte a un uomo inerme che impugnava soltanto la sua spesa. 

Il 16 marzo del 2003 accadde a Rafah, nella Striscia di Gaza, un episodio simile. Rachel Corrie, attivista americana dei diritti umani, con un giubbotto rosso fluorescente si mise davanti al bulldozer corazzato dell’esercito israeliano nel tentativo pacifico di impedirgli di distruggere alcune case dei palestinesi. Fu però schiacciata e uccisa senza pietà. Rachel aveva 24 anni, si definiva osservatrice dei diritti umani, calpestati e straziati insieme con lei. Il processo stabilì che sarebbe dovuta restare lontana dalla zona pericolosa e che la sua morte era stato il risultato di un incidente che lei stessa aveva attirato su di sé.

A mani nude contro la ferocia, tanti anni fa a Pechino, all’inizio del nuovo millennio a Rafah.

Oggi, ventuno anni dopo l’omicidio di Rachel Corrie la Striscia di Gaza è ridotta a un cumulo di macerie. Nessun palestinese osa mettersi davanti a un carro armato israeliano, è pericoloso anche attraversare una strada o uscire di casa; talvolta anche restare dentro una casa, una scuola, un ospedale, un’ambulanza…

E noi da che parte stiamo? Con gli oppressi, come il cuore comanda, o con gli oppressori come vorrebbe la convenienza? Con gli inermi che muoiono

da qui

 

 

Care a cari attiviste/i impegnate/i nel “popolo della pace”,

Vi invitiamo a partecipare, come pubblico, alla conferenza stampa che abbiamo indetto, i Disarmisti esigenti & partners (Per la scuola della Repubblica), giovedì 25 gennaio a Roma, presso il CESV di via Liberiana, 17, dalle ore 11:00 alle ore 12:30.

TEMA: Le magnifiche 7 campagne per un’Europa che promuova la pace disarmata con la Natura.

L’iniziativa giunge dopo la protesta contro l’approvazione parlamentare del “decreto ombrello” per gli aiuti militari all’Ucraina (passerà ai voti forse il giorno prima ed abbiamo organizzato per il 23 gennaio il presidio – convergente di diverse posizioni – in piazza Navona di cui all’immagine sotto riportata) con il seguente scopo: interloquire e premere sulle forze politiche che intendono presentarsi alle elezioni europee.  La speranza della pace smilitarizzata, attraverso la fuoriuscita dalle guerre in corso, nella nostra proposta, dovrebbe essere al centro del futuro del mondo; e gli europei, istituzioni, Stati e società civile, potrebbero contribuire a vivificarla e concretizzarla.

Interverranno: Alfonso Navarra – coordinatore dei Disarmisti esigenti (cell. 340-0736871) / Ennio Cabiddu – sulle obiezioni di coscienza / Cosimo Forleo – Per la Scuola della Repubblica / Luigi Mosca – sul disarmo nucleare / Daniele Barbi – sul disinquinamento militare / Antonella Nappi – per la pace femminista (In attesa di conferma). Ed eventualmente altri esponenti di gruppi pacifisti (abbiamo la conferma di Fabrizio Truini di Pax Christi e Alessandro Perri della Rete dei Comunisti); ed esponenti politici delle forze che presenteranno una lista alle elezioni europee del giugno 2024

Nella conferenza stampa verrà presentato un appello rivolto agli operatori professionali dell’informazione: analogamente a quello che fanno con il cd decreto bavaglio sulle informazioni, dovrebbero chiedere a Mattarella di non firmare la conversione del decreto ombrello sulle armi. A parere dei proponenti, non è possibile che i cittadini USA siano informati dettagliatamente in modo persino pignolo su qualità e costi degli armamenti mentre in Italia tutto è secretato scavalcando il Parlamento con il COPASIR! Verranno annunciate iniziative legali che la LOC, tra le organizzazioni della coalizione dei Disarmisti esigenti, intende intraprendere in proposito.

c/o LOC via Mario Pichi,1 – 20143 Milano (MI)

coordinamentodisarmisti@gmail.com

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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