A Gaza i cecchini sparano a chi sventola bandiera bianca

I corpi riversi a terra di Nahed Adel e Ramez Barbakh

video e articoli di Giorgio Agamben, Yanis Varoufakis, Vijay Prashad, Giuseppe Masala, Luca Cellini, Giovani Palestinesi d’Italia, Chris Hedges, Nylah Burton, Walaa Sabah, corrispondente di Middle East Eye, Gideon Levy, Jewish Voice for Peace, Piero Orteca, Giacomo Gabellini, Pepe Escobar, Giorgio Cremaschi, Alessandro Orsini, Francesco Masala

Gaza, esecuzione di due ragazzi palestinesi che sventolavano bandiera bianca – Luca Cellini

L’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor ha affermato di aver documentato l’orribile esecuzione di due fratelli palestinesi, tra cui un bambino, da parte di un cecchino israeliano davanti alla loro famiglia mentre l’esercito israeliano aveva dato ordine di evacuazione immediata dalla loro casa nel quartiere di Al-Amal, a ovest di Khan Yunis.
I testimoni hanno riferito all”Euro-Mediterranean Human Rights Monitor che Nahed Adel Barbakh, 14 anni, il 25 gennaio 2024, verso le 10:30 del mattino dopo l’ordine di sfollamento, è uscito allo scoperto con entrambe le braccia alzate, in una mano teneva inoltre una bandiera bianca, a qualche decina di metri di distanza lo seguiva la propria famiglia, che tentava di allontanarsi dalla loro casa vicino alla scuola “Hay Al Amal”, a ovest di Khan Yunis, e si stavano dirigendo verso Al-Mawasi su ordine dell’esercito di occupazione israeliano.

I testimoni hanno aggiunto che il ragazzo è stato colpito ad una gamba anche se portava in mano una bandiera bianca. Il rumore degli spari è stato sentito provenire dalla direzione di un edificio residenziale sul lato orientale, vicino alla moschea Hassan Al-Banna, a circa 100 metri dal sito.
Si è scoperto poi che i cecchini israeliani erano di stanza in cima agli edifici della zona.

I testimoni hanno spiegato che mentre il ragazzo cercava di rialzarsi, è stato nuovamente colpito da un nuovo proiettile al fianco. Quando ha provato di nuovo ad alzarsi, il cecchino israeliano gli ha sparato per la terza volta, colpendolo alla testa vedendolo poi  ricadere a terra privo di vita.

Secondo i testimoni oculari, a quel punto, il fratello di Barbakh, Ramez, 20 anni, si è precipitato nel tentativo di salvare suo fratello, ma anche lui è stato colpito da un cecchino israeliano, colpendolo alla nuca, facendolo cadere addosso a suo fratello. I due ragazzi sono stati lasciati morire dissanguati in strada davanti ai loro genitori e familiari.

L’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor ha confermato, sulla base delle sue indagini preliminari e delle testimonianze, che l’attacco ai due fratelli è stato intenzionale, deliberato e ingiustificato, definendolo una vera e propria esecuzione e un crimine di guerra che si va ad aggiungere agli innumerevoli crimini documentati in questi quasi 4 mesi di attacco sistematico e ingiustificato a danno di milioni di civili da parte di Israele.

Euro-Med Monitor ha sottolineato di aver precedentemente documentato l’uccisione diretta da parte di Israele di altre quattro persone nonostante queste sventolassero bandiere bianche, mostrassero le loro carte d’identità e alzassero le mani mentre cercavano di raggiungere la loro casa per evacuare 50 membri della famiglia a Khan Yunis, campo profughi, provocando inoltre anche l’uccisione di uno di loro, Ramzi Abu Sahloul.

L’Euro-Med ha affermato di aver documentato in precedenza decine di casi di esecuzioni arbitrarie ed extragiudiziali.

Euro-Med ha ricordato di aver precedentemente presentato ai relatori speciali delle Nazioni Unite e al Procuratore della Corte Penale Internazionale un primo fascicolo che comprende decine di casi di esecuzioni sul campo effettuate dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, chiedendo un’indagine immediata, per identificare i colpevoli responsabili e rendere giustizia alle vittime.

Euro-Med ha chiesto la formazione di un team legale internazionale e di fare pressione a livello internazionale affinché arrivi nella Striscia di Gaza per aprire un’indagine sui numerosi crimini documentati di Israele.

Il bilancio delle vittime a Gaza attuale sale a oltre 26.000 persone uccise (di cui oltre 12.000 bambini) e 64.000 feriti.

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Genocidio a Gaza, Shoah e memoria distorta dell’Occidente – Giovani Palestinesi d’Italia

Un cartello di protesta con la scritta “Dalla Palestina al Sudan, al Congo, ad Haiti, al Tigray, nessuno di noi sarà libero finché TUTTI noi non saremo LIBERI !!!

 

Per anni come palestinesi in diaspora abbiamo evitato di affrontare la questione della Shoah nel suo legame specifico con la questione palestinese. Ciò è accaduto perché nel contesto politico e culturale italiano e occidentale non sussistevano condizioni oggettive tali da favorire un’aperta, matura elaborazione di tale problematica senza incappare in inutili, se non controproducenti, contrapposizioni.

Gli avvenimenti scatenati il 7 ottobre dalla battaglia del “Diluvio di Al-Aqsa” ancora in corso, hanno determinato spazio concreto per un dibattito necessario e consapevole su Shoah e Palestina, non più rinviabile a causa dell’aggressiva decontestualizzazione della questione palestinese operata dalla narrativa mainstream che riduce il momento attuale ad un irrazionale, inspiegabile antagonismo tra palestinesi ed ebrei: un racconto, disonesto e manipolatorio, finalizzato a configurare la criminalizzazione per antisemitismo di qualsiasi tentativo di critica antisionista e anticoloniale.

Questa riflessione si fa ancora più urgente oggi, a seguito dello sconcertante intervento di organi governativi nel vietare e poi differire manifestazioni di denuncia del genocidio in corso a Gaza in numerose città italiane proprio perché ritenute inopportune svolgendosi in corrispondenza del giorno della Memoria.

Ebbene, il parallelo tra Nakba e Shoah si impone per due ragioni.

Innanzitutto, per l’esigenza di rendere comprensibile agli occhi dello spettatore occidentale il genocidio del popolo palestinese, in considerazione del fatto che la Shoah è ritenuta genocidio per definizione. La necessità di un confronto con la Shoah deriva proprio dall’eccezionalità con cui è espressa sul piano narrativo: sul significato a essa attribuito nei Paesi occidentali, escludente stermini di altri popoli, ritorniamo dopo.

La seconda ragione risiede nel fatto che il Sionismo ha utilizzato politicamente la Shoah come arma di legittimazione sia difensiva che offensiva, sfruttandone conseguenze morali e materiali per accelerare il proprio progetto coloniale che, però, precede di gran lunga Nazismo e Seconda Guerra Mondiale. Il Sionismo si proponeva di rifondare l’identità ebraica assurgere ad agente in nome e per conto del popolo ebraico. Al di là del fatto che il Sionismo e Israele in quanto realizzazione statale del suo progetto coloniale abbiano poco a che fare con l’ebraismo, e non rappresentino le vittime della Shoah, è evidente che il paragone tra Nakba e Shoah introduce un interrogativo semplicissimo agli occhi del mondo: come può chi pretende di rappresentare il popolo ebraico essendo testimone della sua tragedia esercitare, a pochi anni di distanza, un’oppressione sistematica ai danni di un altro popolo?

Tralasciando per ora entità e modalità dell’oppressione sionista sui palestinesi, preme qui soffermarci sugli elementi che emergono logicamente e storicamente da quanto sinora espresso. Nell’elaborare un’analisi comparata tra Nakba e Shoah da parte palestinese non c’è alcun intento negazionista, dal momento che negando il fatto si negherebbe il paragone. Inoltre, non v’è alcun intento a far prevalere la propria tragedia sulla Shoah, se non sul piano dell’attualità; anzi, il ricorso alla Shoah come metro di paragone ne conferma il valore…

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Potrebbe essere un Genocidio, ma non verrà fermato – Chris Hedges

La Corte Internazionale di Giustizia ha rifiutato di attuare la richiesta più importante avanzata dai giuristi sudafricani: “Lo Stato di Israele sospenderà immediatamente le sue operazioni militari dentro e contro Gaza”. Ma allo stesso tempo, ha inferto un duro colpo al mito fondativo di Israele. Israele, che si presenta come eternamente perseguitato, è stato credibilmente accusato di aver commesso un Genocidio contro i palestinesi a Gaza. I palestinesi sono le vittime, non gli autori, del “Crimine dei Crimini”. Un popolo, un tempo bisognoso di protezione dal Genocidio, ora sta potenzialmente commettendone uno. La sentenza della Corte mette in discussione la vera ragion d’essere dello “Stato Ebraico” e mette in discussione l’impunità di cui Israele ha goduto sin dalla sua fondazione 75 anni fa.

La Corte ha ordinato a Israele di adottare sei misure provvisorie per prevenire atti di Genocidio, misure che saranno molto difficili se non impossibili da attuare se Israele continuerà il bombardamento a tappeto di Gaza e la distruzione sistematica delle sue infrastrutture vitali.

La Corte ha invitato Israele “a prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico a commettere Genocidio”. Ha chiesto a Israele di “adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgentemente necessari”. Ha ordinato a Israele di proteggere i civili palestinesi, di proteggere le circa 50.000 donne che partoriscono a Gaza e adottare “misure efficaci per prevenire la distruzione e garantire la conservazione delle prove relative alle accuse di atti che rientrano nel campo di applicazione degli Articoli 2 e 3 della Convenzione sulla Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio contro membri della comunità palestinese nella Striscia di Gaza”.

La Corte ha ordinato a Israele di “prendere tutte le misure in suo potere” per prevenire i crimini che equivalgono a Genocidio come “uccidere, causare gravi danni fisici e mentali, infliggere al gruppo condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica in tutto o in parte, e imponendo misure volte a prevenire la natalità all’interno del gruppo”.

A Israele è stato ordinato di riferire entro un mese per esporre i suoi interventi per attuare le misure provvisorie.

mentre la sentenza veniva letta all’Aja, Gaza veniva colpita con bombe, missili e proiettili d’artiglieria: almeno 183 palestinesi sono stati uccisi nelle ultime 24 ore. Dal 7 ottobre sono stati uccisi più di 26.000 palestinesi. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, i feriti sono quasi 65.000. Altre migliaia sono dispersi. La carneficina continua. Questa è l’agghiacciante realtà.

Tradotto in parole semplici, la Corte sta dicendo che Israele deve nutrire e fornire assistenza medica alle vittime, cessare le dichiarazioni pubbliche che sostengono il Genocidio, preservare le prove del Genocidio e smettere di uccidere civili palestinesi. Tornare e riferire tra un mese.

È difficile immaginare come si possano applicare queste misure provvisorie se la carneficina a Gaza continua.

“Senza un cessate il fuoco, la sentenza non sortirà alcun effetto”, ha dichiarato senza mezzi termini, dopo la sentenza, Naledi Pandor, Ministro delle Relazioni Internazionali sudafricano.

Il tempo non è dalla parte dei palestinesi. Migliaia di palestinesi moriranno entro un mese. Secondo le Nazioni Unite, i palestinesi di Gaza costituiscono l’80% di tutte le persone che soffrono di fame o malnutrizione nel mondo. Si prevede che all’inizio di febbraio l’intera popolazione di Gaza mancherà di cibo a sufficienza, con mezzo milione di persone che soffriranno la fame, secondo la Food Security Phase Classification (Classificazione della Fase di Sicurezza Alimentare), basata sui dati delle agenzie delle Nazioni Unite e delle ONG. La carestia indotta da Israele è pianificata.

Nella migliore delle ipotesi, la Corte, anche se non si pronuncerà per alcuni anni sulla questione se Israele stia commettendo un Genocidio, ha concesso la legittimità di usare la parola “Genocidio” per descrivere ciò che Israele sta facendo a Gaza. Ciò è molto significativo, ma non è sufficiente, data la catastrofe umanitaria a Gaza.

Israele ha sganciato quasi 30.000 bombe e granate su Gaza, otto volte più bombe di quelle che gli Stati Uniti hanno sganciato sull’Iraq durante sei anni di guerra. Ha utilizzato centinaia di bombe da 2.000 libbre (900 kg) per radere al suolo aree densamente popolate, compresi i campi profughi. Queste bombe “Bunker Buster” (munizioni progettate per penetrare bersagli fortificati o sepolti in profondità nel sottosuolo, come i bunker militari) hanno un raggio di distruzione di 300 metri. L’assalto aereo israeliano è diverso da qualsiasi cosa vista dai tempi del Vietnam. Gaza, lunga solo 32 chilometri e larga otto, sta rapidamente diventando, per definizione, inabitabile…

Israele senza dubbio continuerà il suo attacco sostenendo che non viola le direttive della Corte. Inoltre, l’amministrazione Biden porrà senza dubbio il veto alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che chiede a Israele di attuare le misure provvisorie. L’Assemblea Generale, se il Consiglio di Sicurezza non approva le misure, può votare nuovamente chiedendo un cessate il fuoco, ma non ha il potere di imporlo.

La causa, Defense for Children International – Palestine (Difesa Internazionale per l’Infanzia – DCIP) contro Joe Biden è stata presentata a novembre dal Centro per i Diritti Costituzionali contro il Presidente Joe Biden, il Segretario di Stato Antony Blinken e il Segretario alla Difesa Lloyd Austin. La causa mette in discussione la capacità del governo degli Stati Uniti di impedire la complicità nel Genocidio del popolo palestinese in corso da parte di Israele. Chiede alla Corte di ordinare all’amministrazione Biden di cessare il sostegno diplomatico e militare e di adempiere ai suoi obblighi giuridici ai sensi del Diritto Internazionale e federale.

L’unica Resistenza attiva per fermare il Genocidio di Gaza è il blocco del Mar Rosso. Lo Yemen, sotto assedio da otto anni da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, ha registrato oltre 400.000 morti per fame, mancanza di assistenza sanitaria, malattie infettive e bombardamenti deliberati di scuole, ospedali, infrastrutture, aree residenziali, mercati, funerali e matrimoni. Almeno dal 2017 diverse agenzie delle Nazioni Unite hanno descritto lo Yemen come “la più grande crisi umanitaria del mondo”, gli yemeniti sanno fin troppo bene ciò che i palestinesi stanno sopportando.

La Resistenza dello Yemen, quando la storia di questo Genocidio sarà scritta, lo distinguerà da quasi tutte le altre nazioni. Il resto del mondo, compreso il mondo arabo, si ritira in condanne retoriche inefficaci o sostiene attivamente la cancellazione di Gaza e dei suoi 2,3 milioni di abitanti da parte di Israele.

Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha riferito che gli Stati Uniti hanno inviato in Israele 230 aerei cargo e 20 navi piene di proiettili di artiglieria, veicoli corazzati e attrezzature da combattimento dopo gli attacchi del 7 ottobre, in cui sono rimasti uccisi circa 1.200 israeliani. Secondo il sito investigativo britannico Declassified UK, armi ed equipaggiamenti militari statunitensi vengono spediti in Israele, che è a corto di munizioni, dalla base dell’Aviazione britannica Akrotiri a Cipro. Il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito che più di 40 aerei da trasporto statunitensi e 20 britannici, insieme a sette elicotteri da trasporto pesante, sono arrivati dalla base di Akrotiri, a 40 minuti di volo da Tel Aviv. Secondo quanto riferito, la Germania prevede di fornire a Israele 10.000 proiettili di precisione da 120 mm. Se la Corte si pronuncia contro Israele, questi Paesi saranno riconosciuti dal più importante tribunale internazionale del mondo come complici del Genocidio…

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La Palestina risveglia la rivoluzione – Nylah Burton

Quando Patrice Lumumba fu assassinato nel 1961, Langston Hughes scrisse: “Hanno seppellito Lumumba/In una tomba senza nome/Ma non ha bisogno di alcuna lapide… Il mio cuore è la sua tomba/e il suo nome è lì”.

Da quando Israele ha iniziato il suo massacro a Gaza il 7 ottobre, ho sentito il mio cuore diventare una tomba per oltre 25.000 persone in Palestina. Io, insieme al resto del mondo, sono stato testimone del genocidio più documentato della storia. Ho assistito, dal mio telefono, al tentativo di annientamento di un’intera nazione.

Questi 100 giorni di genocidio hanno sostituito ogni cellula del mio corpo e mi hanno reso una persona diversa. Non sono più lo stesso di prima nell’assistere a queste atrocità; la mia anima si è spostata per ruotare attorno a questa rivoluzione. Non sono solo. Il mondo è cambiato insieme a me.

Per molti, questo cambiamento è stato guidato dal lavoro dei giornalisti palestinesi che rischiano la morte per aver esposto la verità.

“I reportage eroici, spesso girati  e pubblicati da coraggiosi giovani palestinesi in tutta la Palestina, ci offrono una lente chiara attraverso la quale vedere la raccapricciante violenza e il razzismo insiti nel progetto coloniale di Israele”, dice Manal Farhan, una residente di Chicago la cui famiglia fu espulsa dalla loro casa di Al-Malha in Palestina nel 1948, durante la Prima Nakba.

Ma questa crescente consapevolezza e rabbia non sono dirette solo verso il colonialismo dei coloni israeliani, ma verso l’intero progetto occidentale nel suo insieme.

Rawan Masri, traduttrice a Ramallah e co-fondatrice di Decolonize Palestine, afferma di aver notato questo enorme cambiamento globale. “Penso che questi 100 giorni abbiano rivelato per la prima volta e più che mai la brutalità genocida di Israele a decine di persone e a coloro che erano già solidali con noi. Penso che questo sia l’inizio della fine non solo per Israele, ma per l’egemonia coloniale occidentale che molti di noi hanno accettato come un dato di fatto ma che ora vedono in modo tangibile che non può continuare a esserlo”, dice.

La libertà palestinese è la mia libertà

Iman Sultan, scrittrice e giornalista pakistano-americana coinvolta nell’attivismo pro-Palestina, afferma che oltre 100 giorni di visione di un genocidio hanno “portato a un risveglio in cui siamo più consapevoli della nostra umanità riconoscendo quella dei palestinesi”.

“Penso anche che i riti e gli spettacoli regolari della vita capitalista – che si tratti delle elezioni, del culto dei politici o delle celebrità – siano stati effettivamente resi obsoleti quando la realtà è che più di 30.000 palestinesi sono stati uccisi a Gaza dal 7 ottobre”, Continua Sultan. “E coloro che detengono il potere non hanno solo messo in atto, ma hanno giustificato i loro omicidi”.

Questo sentimento di rifiuto diffuso si è esteso a molti ambiti della nostra vita. Il BDS, il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni che mira a fare pressione economicamente e politicamente su Israele affinché ponga fine all’occupazione, ha ricevuto un sostegno come mai visto prima. Dopo che Starbucks ha citato in giudizio il sindacato dei lavoratori Starbucks per sostenere la Palestina e dopo che sono usciti video di McDonald’s in Israele che offriva pasti gratuiti ai soldati delle forze di occupazione israeliane mentre continuavano la loro campagna di massacro, la maggior parte degli americani filo-palestinesi si è rifiutata di mangiare nelle due catene di fast food, indicando che il loro boicottaggio è permanente e che non si lasceranno influenzare nemmeno da misere scuse – che peraltro non sono ancora arrivate. Può sembrare una cosa da poco, ma convincere gli americani – la cui intera cultura è basata sul consumismo – a smettere di consumare in due dei più grandi pilastri di questa cultura sarebbe stato inimmaginabile. Ma le persone non possono più andare avanti come prima.

E il BDS non si limita solo a questa lista. Le persone hanno vagliato  le aziende da cui acquistano, acquistando prodotti locali e usati, limitando gli sprechi alimentari e sostenendo intenzionalmente le imprese di proprietà palestinese e le imprese che hanno rischiato il proprio futuro per la Palestina, come HUDA Beauty. Masri dice che in Palestina ha sentito innumerevoli persone annunciare che non vogliono più guardare i film o la televisione occidentale.

“La frase comune che sento è che non riescono a sopportare l’ipocrisia”, spiega Masri. “Non riescono a sopportare di vedere ciò che la gente pensa siano problemi, rispetto all’essere bombardati e morire di fame e al vedere la vita vissuta normalmente quando questo ci viene negato”.

Mentre sempre più persone si schierano dalla parte della Palestina e si ritrovano a perdere il lavoro, minacciate di violenza, aggredite e sospese solo per aver indossato simboli della resistenza come la kefiah, per non parlare di chi è stato incarcerato per il suo attivismo, la posta in gioco di questa lotta sta diventando molto più immediata per i palestinesi. “Molti governi hanno ampiamente ignorato la recente protesta della loro popolazione che chiedeva un cessate il fuoco immediato e permanente a Gaza o hanno criminalizzato e punito l’atto stesso di parlare a sostegno dei diritti umani palestinesi, [il che] comunica chiaramente che queste nazioni che pretendono di valorizzare e proteggere la dignità umana [sono] una farsa”, continua Farhan, aggiungendo che lei stessa rischia lo sfratto da parte del suo padrone di casa, M. Fishman, semplicemente per aver appeso una bandiera palestinese fuori dalla sua finestra. “Le persone si rendono conto delle implicazioni di questo; che non sono veramente libere – libere di informarsi e parlare come desiderano, consumare come desiderano, riunirsi come desiderano, vestirsi come desiderano – finché la Palestina non sarà libera”.

Unirsi al mondo contro l’Occidente

La causa del Sud Africa contro Israele presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, considerata la più alta corte del mondo, ha sfidato direttamente questa egemonia coloniale occidentale. Come ha scritto Nesrine Malik sul Guardian, il processo non si limitava a condannare Israele per i suoi 75 anni di sanguinosa occupazione e per l’attuale genocidio, ma sfidava la perniciosa menzogna dell’Occidente secondo cui esso è la salvaguardia della moralità e della logica, quando in realtà sono responsabile di alcuni degli atti di violenza più barbari e crudeli a cui l’umanità abbia mai assistito. “Il caso della Corte Internazionale di Giustizia mostra come la logica occidentale si stia indebolendo e il suo potere persuasivo sia in declino in un mondo multipolare”, ha scritto Malik.

È stato sottolineato che la maggior parte dei Paesi che stanno dalla parte della Palestina non fanno parte del mondo occidentale. La Namibia, dove la Germania commise il primo genocidio del XX secolo nel 1904-1908, ha condannato  la Germania per il suo sostegno a Israele. Gli Ansar Allah nello Yemen, comunemente chiamati “gli Houthi”, sono stati abbastanza coraggiosi da interrompere le spedizioni verso Israele, e quando la loro capitale è stata bombardata dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, per rappresaglia, non si sono tirati indietro ma hanno esteso il blocco ai loro Paesi, ovvero anche gli aggressori. Invece di disperare per la mancanza di potenti paesi occidentali che si uniscano a questa chiamata, io e i miei compagni la vediamo come la rivoluzione del Sud del mondo. Non possono sconfiggerci. Soprattutto perché non siamo solo geograficamente nel Sud del mondo, ma siamo anche in Occidente: i figli degli schiavi e degli sfollati, degli indigeni e dei rifugiati, e il nostro rifiuto è così forte che il mondo ci ha ascoltato. Dobbiamo rendere le nostre urla insopportabili.

Il genocidio in Palestina ha portato anche ad una maggiore consapevolezza riguardo ad altri genocidi in corso. Nella Repubblica Democratica del Congo, sei milioni di persone sono state uccise a causa dell’interferenza occidentale e dell’industria mineraria del cobalto, essendo il cobalto la risorsa che alimenta la nostra tecnologia, compresi gli smartphone. E quel genocidio è stato finanziato principalmente dagli Emirati Arabi Uniti e dagli Stati Uniti. In Sudan, un genocidio finanziato dagli Emirati Arabi Uniti ha ucciso 9.000 persone in sei mesi, compreso il genocidio dei Masalit in Darfur da parte delle Forze di Supporto Rapido (RSF). /Janjaweed e uccisioni extragiudiziali di non arabi in tutto il Sudan da parte delle forze armate sudanesi (SAF).

“La posizione della causa palestinese richiede la liberazione globale. Naturalmente, la gente chiede: “chi altro?””, dice A., una donna e attivista sudanese non araba che desidera rimanere anonima per la sua sicurezza e quella della sua famiglia…

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Il fallimento dell’ONU – Chris Hedges

Craig Mokiber, direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani si è dimesso il 31 ottobre, affermando che “ancora una volta stiamo assistendo a un Genocidio che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi e l’organizzazione che serviamo sembra impotente davanti ad esso”.

Ha osservato che le Nazioni Unite non sono riuscite a prevenire precedenti genocidi contro i tutsi in Ruanda, i musulmani in Bosnia, gli yazidi nel Kurdistan iracheno e i Rohingya in Myanmar e ha scritto: “Alto Commissario, stiamo fallendo di nuovo”.

“L’attuale massacro di massa del popolo palestinese, radicato in un’ideologia colonialista etno-nazionalista, in continuazione di decenni di persecuzioni ed epurazioni sistematiche, basate interamente sul loro status di arabi non lascia spazio a dubbi”.

Mokhiber ha aggiunto: “Questo è un caso di Genocidio da manuale” e ha affermato che gli Stati Uniti, il Regno Unito e gran parte dell’Europa non solo “rifiutano di rispettare i loro obblighi” ai sensi delle Convenzioni di Ginevra, ma stanno anche armando l’assalto di Israele e fornendogli copertura politica e diplomatica.

“Dobbiamo sostenere la creazione di un unico Stato democratico laico in tutta la Palestina storica, con uguali diritti per cristiani, musulmani ed ebrei”, ha scritto, aggiungendo: “e, quindi, lo smantellamento del profondamente razzista progetto coloniale e la fine dell’Apartheid in tutto il Paese”.

Mokhiber, un avvocato specializzato in Diritto Internazionale dei Diritti Umani, lavorava per le Nazioni Unite dal 1992. Ha guidato il lavoro dell’Alto Commissariato sulla definizione di un approccio allo sviluppo basato sui diritti umani e ha agito come consulente speciale per i diritti umani in Palestina, Afghanistan e Sudan. Negli anni ’90 ha vissuto a Gaza.

L’indifferenza al Genocidio, tuttavia, è la norma non l’eccezione. La comunità internazionale ha fatto poco per fermare il Genocidio Armeno, l’Olocausto e i Genocidi in Cambogia, Ruanda e Bosnia. Sta passivamente a guardare mentre centinaia di palestinesi vengono uccisi e feriti ogni giorno, mentre Israele impedisce a cibo, medicine, carburante e altri beni di prima necessità di entrare nella Striscia di Gaza, dove l’80% dei circa 2,3 milioni di abitanti sono sfollati.

Le poche voci che denunciano il Genocidio pagano con la loro carriera. Josh Paul, che ha lavorato presso l’Ufficio per gli Affari Politico-Militari del Dipartimento di Stato per più di 11 anni, si è dimesso “a causa di un disaccordo politico riguardante la nostra continua assistenza letale a Israele”. Tariq Habash, uno dei principali consiglieri del Dipartimento dell’Istruzione, si è dimesso a gennaio dicendo che non poteva più servire un’amministrazione che aveva “messo in pericolo milioni di vite innocenti”. Ma, nonostante le lettere di protesta all’interno delle agenzie governative, tra cui il Dipartimento di Stato e AID, non c’è alcun dimmissionamento di massa.

Perché condanniamo il Genocidio come il Crimine dei Crimini, insegniamo lezioni dopo lezioni sull’Olocausto e tuttavia non facciamo nulla per fermarlo quando accade? Perché ci sono così poche persone disposte a prendere posizione e denunciare le istituzioni e i governi per il loro silenzio o complicità? Non impariamo nulla dalla storia? Dovremo discutere tutti insieme dell’indifferenza storica nei confronti del Genocidio e di ciò che sta accadendo ora a Gaza.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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GUERRA A GAZA: la realtà di partorire in una zona di guerra – Walaa Sabah

una donna tiene in braccio un neonato in una scuola UNRWA a Rafah, a sud della striscia di Gaza, 10 Novembre 2023 (AFP/Mai Yaghi)

Mentre infuria il brutale attacco israeliano sulla Striscia di Gaza, le donne palestinesi incinte sono alle prese con la sfida di partorire in una zona di guerra e di sopportare le difficoltà postnatali che ne conseguono, inclusa la mancanza di medicine, cibo e acqua.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), a Gaza ci sono circa 50.000 donne incinte e 180 nuove nascite al giorno. Si prevede che circa il 15% di queste future mamme dovranno affrontare complicazioni legate alla gravidanza o al parto e necessiteranno di cure aggiuntive. Tali cure, che normalmente dovrebbero essere di routine, sono ora un lusso per molte madri, con Israele che blocca le consegne di aiuti a Gaza e gli ospedali costantemente presi di mira.

Le madri soffrono di un acuto disagio mentale nel tentativo di mantenere in vita un bambino durante una guerra che ha ucciso decine di migliaia di persone, tra cui più di 10.000 bambini.

Fedaa Issa è una ragazza di 28 anni, madre di due figli, che viveva a Beit Lahia, nel nord di Gaza. Prima che iniziasse il conflitto, aspettava con entusiasmo l’arrivo della sua nuova bambina Aya.

“Abbiamo contato i giorni prima dell’arrivo di Aya… mia figlia Malak era così entusiasta di avere una sorella con cui giocare. Tuttavia, l’assalto israeliano ha distrutto il nostro sogno”, ha detto Issa.

Fedaa è fuggita di casa il 14 ottobre dopo che suo cognato ha ricevuto un avviso da parte dell’esercito israeliano che gli chiedeva di lasciare la casa.

Issa è andata via immediatamente con i suoi due figli Amir e Malak, temendo per la sorte del suo bambino non ancora nato.

“È stato estremamente orribile per me prendermi cura di un’anima nel mio grembo mentre gestivo i miei passi.”

Venti minuti dopo l’inizio della fuga, Fedaa ha iniziato a sanguinare per lo sforzo.

In cerca di rifugio, lei e la sua famiglia si sono diretti a casa di un amico in una zona vicina, solo per vedere i missili atterrare nelle vicinanze, costringendoli a evacuare verso sud.

Per i palestinesi, la memoria ancestrale dello sfollamento è qualcosa con cui sono cresciuti. La maggior parte dei residenti di Gaza sono quelli espulsi dalle milizie sioniste durante la Nakba del 1948 o dai loro discendenti.

“Mentre scappavo, non potevo fare a meno di ricordare le tragiche storie che la mia amata nonna raccontava sulla Nakba palestinese”, ha detto Issa.

“il trasferimento forzato, il doversi spostare da una casa all’altra, e il bombardamento incessante. Sta succedendo tutto di nuovo. Ne sono testimone, e lo sono anche i miei figli.”

Trovare rifugio

Dopo aver raggiunto il sud di Gaza, Issa e la sua famiglia pensavano di essere sfuggiti alla morte, credendo che il sud sarebbe rimasto relativamente indenne dal conflitto.  Ma una settimana dopo, si sono dovuti ricredere quando le schegge hanno iniziato a cadere nella zona.“Mi sentivo estremamente sopraffatta ed esausta, spostandomi costantemente da un posto all’altro alla    ricerca della sicurezza per i miei figli. Ci ha prosciugati emotivamente”, ha ricordato Issa.

Rendendosi conto che il sud non era migliore del nord, ha deciso di tornare al nord e ha cercato rifugio presso l’ospedale Kamal Adwan, dove stava vivendo sua madre. “Mia mamma mi ha consolato, assicurandomi che la guerra sarebbe finita. Mi ha incoraggiato a preparare i vestiti più belli per il mio bambino. Tutto è più facile con mia madre al mio fianco”, ha detto.

In ospedale, tuttavia, è stata testimone di cosa avrebbe comportato il parto a Gaza. Decine di donne incinte avevano cercato rifugio in ospedale e stavano per partorire.

“Ho visto una donna alla 30esima settimana che non aveva più contrazioni a causa della paura. È stata costretta a sottoporsi a un taglio cesareo”, ha detto Issa. “Queste donne stavano partorendo in mezzo a scene infernali, con cadaveri sparsi tutt’intorno”, ha detto.

“Ho visto corpi arrivare all’ospedale, lasciati insepolti per giorni, in attesa che le famiglie li identificassero.

“Ho camminato tra i feriti e sanguinanti; non avevano medici che li curassero.

“Le donne incinte partorivano, urlavano durante il travaglio, senza ostetriche o anestetici disponibili per i cesarei.”

Issa ha descritto una scena che illustra come appare un sistema sanitario fallito. C’erano pochi medici e infermieri disponibili per curare i feriti, curare i morti e aiutare le donne incinte.

“Sono caduta in depressione”, ha detto.

Costretta a spostarsi di nuovo

Il sistema sanitario di Gaza ha sofferto per anni di blocco israeliano sul territorio, che lo ha messo in difficoltà nel curare i suoi residenti.

La guerra iniziata il 7 ottobre, tuttavia, ha portato alla distruzione di molti dei più grandi ospedali della zona, poiché Israele li ha resi bersagli della sua guerra contro Hamas.

All’inizio della guerra, aveva giustificato i suoi attacchi all’ospedale al-Shifa di Gaza City, sostenendo che ospitava una base sotterranea di Hamas. Tali affermazioni si sono poi rivelate false, ma ciò non ha impedito a Israele di prendere di mira altri ospedali. Quando Israele ha rivolto la sua attenzione all’ospedale indonesiano, Issa ha giustamente temuto che Kamal Adwan sarebbe stato il prossimo e ha deciso di spostarsi nuovamente verso sud, per il bene del suo bambino non ancora nato.

“Mi sono asciugata le lacrime e ho deciso di essere forte per i miei figli. Ho pregato mia madre di unirsi a me. Le ho detto che volevo restare con lei, morire con lei, ma ero disperata, impotente, incinta, incapace di partorire [all’ospedale Kamal Adwan]”.

Sua madre disse a Issa che non era disposta a trasferirsi di nuovo e alla fine Issa se ne è andata con suo marito e la sua famiglia, lasciando indietro sua madre. “Ho pregato Dio per avere forza. Ho ringraziato mia madre per tutto quello che ha fatto per me e me ne sono andata con mio marito.”

Questa volta il viaggio per cercare rifugio avrebbe avuto nuove difficoltà.

Incontro con gli israeliani

Mentre si dirigeva a sud, Issa ha scoperto che le forze di occupazione israeliane avevano stabilito dei posti di blocco sulle strade che avevano designato come sicure per il viaggio.

Issa ha detto che sono stati costretti ad aspettare al checkpoint per cinque ore tra le 10 e le 15, insieme ad altri palestinesi, mentre i soldati israeliani sparavano deliberatamente sopra le loro teste per “giocare” con i loro nervi.

Durante il calvario, a Issa non è stato permesso di sedersi nonostante fosse visibilmente incinta e i soldati israeliani l’hanno perquisita, rubando denaro, oro e altri oggetti di valore. “Un soldato mi si è avvicinato e mi ha ordinato di alzarmi e sedermi per più di 30 minuti, nonostante fosse a conoscenza della mia gravidanza”, ha ricordato Issa.

“Il continuo alternarsi tra lo stare in piedi e lo stare seduti, con la pancia davanti era doloroso. Ho ricominciato a sanguinare e il sangue era su tutti i miei vestiti, ma non potevo lamentarmi.

“Le lacrime scorrevano lungo le mie guance. In quel momento, avrei desiderato non essere incinta.”

Issa ha riferito che coloro che non hanno eseguito gli ordini sono stati feriti o uccisi  in modo sommario.

Tali resoconti di esecuzioni sommarie non sono isolati e sono stati segnalati in precedenza da Middle East Eye.

In tardo pomeriggio, Issa e la sua famiglia sono riusciti a raggiungere il sud di Gaza insieme a centinaia di altre famiglie, fronteggiando i bombardamenti intorno a loro.

Parlando del simbolismo di quel momento, Issa ha detto: “Ho vissuto veramente la Nakba palestinese. Ricordavo tutti i consigli di mia nonna: tenere in braccio i miei figli, altrimenti avrei potuto perderli. Portare le mie cose di valore in modo appropriato, altrimenti sarebbero andate perdute”. Ho imparato dai suoi errori durante la Nakba del 1948”.

Ha aggiunto che chiamava regolarmente i nomi dei suoi figli ad alta voce per assicurarsi che fossero ancora accanto a lei e che non li avrebbe persi.

Partorire a Khan Younis

Con la pioggia a dirotto e il vento che gli soffiava contro, Issa e la sua famiglia sono arrivati a Khan Younis a mezzanotte.

Lì hanno montato una tenda con un’altra famiglia e hanno iniziato  ad abituarsi a un nuovo modo di vivere.

“Mi sono ritrovata con i vestiti bagnati di pioggia, sporchi di sangue e senza un posto privato dove fare la doccia o dormire”, ha detto Issa..

Per tutto Novembre, ha adottato una nuova routine nella tendopoli: svegliarsi alle 7 del mattino e stare in fila per due o tre ore per il pane o per usare i bagni comuni della zona.

Il 1° dicembre il suo nuovo stile di vita cominciava a farsi sentire e ha deciso di recarsi all’ospedale Nasser per sottoporsi a un controllo.

Anche se la data prevista per il parto era il 25 dicembre, i medici hanno deciso che il bambino era in pericolo a causa di un eccesso di liquido amniotico e hanno disposto un cesareo il giorno successivo.

 

“Tutto quello che desideravo era che mia madre mi tenesse la mano e mi assicurasse che tutto sarebbe andato bene, ma non c’era speranza”, ha ricordato.

Il giorno dell’intervento, i medici avevano solo medicine sufficienti per anestetizzare parzialmente Issa per l’operazione.

Notando la sua ansia, tuttavia, Issa è stata rassicurata da uno dei medici coinvolti.

“Il dottor Adnan aveva un sorriso rassicurante sul volto e mi ha confortato, assicurandomi che la procedura sarebbe stata facile e diretta quando ha notato la mia paura.”

Sofferenza postnatale

Aya è nata il 2 dicembre e per Issa la gioia della nascita ha presto lasciato il posto alla sofferenza postnatale.

È dovuta tornare nella sua tenda subito dopo il parto perché i letti dovevano essere liberati per i nuovi arrivati.

Nel campo non aveva strutture igienico-sanitarie che l’aiutassero nei primi giorni e settimane di vita di Aya, e non c’era un adeguato senso di privacy.

Issa ha detto che lei e altre donne non avevano accesso agli assorbenti e rischiavano invece l’infezione risciacquando pezzi di stoffa in acqua sporca.

“Il mio corpo tremava per il freddo intenso. Avevo solo una coperta per coprire me e il mio bambino. Il mio emocromo (era basso) e avrei dovuto ricevere unità di sangue di supporto, ma non ce n’erano disponibili in ospedale.”

Il medico ha consigliato a Issa di seguire una dieta sana e di consumare frutta e verdura per aiutare la ferita a guarire e per poter avere abbastanza nutrienti per allattare il suo bambino.

“Non avevo accesso alle sostanze nutritive per ripristinare l’emocromo. Il medico mi ha consigliato di stare lontano da pane e formaggio, ma la prima cosa che ho mangiato è stato pane e formaggio perché non avevo nient’altro.”

La mancanza di nutrienti significa che Issa non è più in grado di allattare e Aya deve fare affidamento sul latte artificiale. “Attualmente dipende dal latte artificiale, ma non possiamo permettercelo”, ha detto Issa.

Prima della guerra, una scatola di latte artificiale costava circa 18 shekel (4,75 dollari), ma da quando è iniziato il conflitto può costare fino a 50 shekel (13 dollari) a seconda della disponibilità.

Non potendo acquistare un bollitore per purificare l’acqua, Issa deve farla bollire utilizzando i fornelli che ha installato lei stessa. Tuttavia, nonostante abbia fatto bollire l’acqua, Aya continua a soffrire di problemi gastrici.

“Ho messo l’acqua nel biberon come se fosse latte per farla smettere di piangere”, ha spiegato Issa.

Ogni aspetto della nascita e della nuova vita di Aya si è rivelato difficile.

“Aya è nata senza vestiti. Mio marito ha comprato vestiti di seconda mano in un negozio vicino.

“Mi sentivo male per non poter provvedere a lei.”

 

Traduzione di Nicole Santini

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Guerra a Gaza: ecco cosa si prova a morire di fame, a non poter sfamare i propri figli – corrispondente di Middle East Eye*

Bambini palestinesi aspettano di ricevere cibo cucinato da una cucina di beneficenza in mezzo alla carenza di scorte di cibo a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza, il 16 gennaio 2024 (Reuters)

 

Israele sta usando la Fame come Arma di Guerra contro i civili palestinesi, sotto gli occhi del mondo.

Per la maggior parte delle persone è difficile anche solo cominciare a comprendere la situazione che devono affrontare i palestinesi nel Nord di Gaza. Perfino mio fratello, che è stato sfollato nel Sud, è rimasto sbalordito nell’apprendere la gravità delle nostre condizioni di vita e l’inconcepibile realtà nella quale ci risvegliamo ogni giorno.

Israele ha dichiarato guerra totale non solo ad Hamas, ma all’intera popolazione palestinese. Decenni di guerre contro di noi hanno consentito a Israele di dispiegare armi sempre più sofisticate e micidiali. Ogni giorno sento parlare di opzioni mostruose proposte dai funzionari israeliani per il nostro futuro: che dovremmo essere deportati dalla nostra Patria o cancellati con un’esplosione atomica.

Nel Nord di Gaza non c’è niente da mangiare. Da quando è iniziata la guerra, non abbiamo avuto né frutta né verdura. Non c’è farina per fare il pane, né pasta, né carne, né formaggio, né uova, niente. I prodotti secchi, come lenticchie e fagioli, non sono disponibili o vengono venduti a 25 volte il loro prezzo originale.

Osservo, con grande dolore, la sofferenza dei miei cari: i miei bambini piccoli che chiedono cibo, qualunque cibo. Mia madre diabetica muore di fame in silenzio. I miei fratelli e sorelle, e i loro figli, soffrono di forme estreme di fame e denutrizione.

Il governo israeliano sta usando la Fame come Arma di Guerra contro la popolazione di Gaza. Questo è un Crimine di Guerra e sta accadendo davanti agli occhi del mondo. Alti funzionari israeliani hanno parlato pubblicamente del loro obiettivo di privare i civili di Gaza di cibo, acqua e carburante.

Mercoledì, la Rete delle Organizzazioni Non Governative Palestinesi ha rilasciato una dichiarazione in cui rileva che i palestinesi, soprattutto nel Nord di Gaza, vivono in condizioni catastrofiche e disumane, avendo esaurito le scorte alimentari di prima necessità

“La Rete ritiene la comunità internazionale pienamente responsabile di questa crisi derivante dalla Guerra di Occupazione e dall’Assedio imposto al nostro popolo”, si legge nella dichiarazione.

Secondo le Nazioni Unite, più di mezzo milione di persone a Gaza oggi sono classificate come in condizioni di grave insicurezza alimentare, a livelli di carestia o denutrizione.

Dolore e senso di vuoto

Israele sta facendo morire di fame i palestinesi di Gaza. Sta deliberatamente impedendo ai camion di cibo di raggiungere le persone, mentre le riserve di cibo immagazzinate si sono esaurite già da tempo. L’affamare bambini, donne, uomini e anziani da parte di Israele è inconcepibile; è aggressivo e mortale come le bombe, solo che questa è una morte lenta e straziante.

La scena sembra tratta da un film dell’orrore. Sembriamo scheletri che camminano: magri e pallidi a causa della costante mancanza di cibo, della privazione del sonno e della continua sofferenza di perdita, morte e distruzione.

Abbiamo un po’ di riso, perché è stato conservato per il mese sacro del Ramadan, ma anche quello sta finendo. Mangiamo solo una piccola porzione di riso al giorno, perché dobbiamo razionare ciò che abbiamo. Il mio corpo è pallido e senza energie. Mi sto spegnendo.

Quando abbiamo fame, invece di mangiare, ci addormentiamo. Non sappiamo più cosa è reale e cosa non lo è, tranne la nostra sofferenza.

I bambini ci implorano piangendo per del pollo, dei dolci o una mela. Ci guardiamo l’un l’altro, affranti e senza speranza.

La maggior parte dei giorni non vediamo il sole perché non è sicuro uscire. Il costante bombardamento da parte di Israele dei quartieri palestinesi, insieme ai cecchini che prendono di mira i civili in cerca di cibo, rendono uscire di casa potenzialmente mortale.

Non mangio niente di verde da tre mesi. Il mio corpo sta cadendo a pezzi a causa della mancanza di proteine. Mi sento debole e stordito. Sento dolore. Mi sento vuoto.

Nessun camion di aiuti arriva nel Nord di Gaza, anche se il Sud ne riceve ancora alcuni. Trascorro giornate intere a cercare cibo e a chiederlo in giro; quando finalmente trovo qualcosa, è un sacco di farina, che dovrebbe bastare a sfamare le 27 persone che vivono in casa nostra per una settimana. Di solito il sacco costerebbe 30 shekel (7,5 euro), ma ora viene venduta per 700-900 shekel (175-225 euro) e non possiamo permettercelo.

Questi ricarichi si applicano a tutti i tipi di alimenti; se disponibili, sono inaccessibili. Quando incontri qualcuno per strada che è riuscito a trovare del cibo, cerca di nasconderlo.

Il cibo deve essere cotto, ma non c’è gas, e la maggior parte delle persone ora cucina sul fuoco. Raccogliamo la legna dalle nostre case demolite: i nostri armadi, i mobili e i giocattoli in legno dei bambini.

Nuovi incubi

La fame non distrugge solo il corpo fisicamente. Porta anche a cambiamenti psicologici ed emotivi, come depressione e ansia. Questo è ciò che ci sta accadendo oggi a Gaza.

La scelta deliberata di Israele di affamare la Striscia di Gaza è stata attuata sotto gli occhi del mondo. Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco immediato, ma, cosa ancora più urgente, abbiamo bisogno di porre fine alla Guerra della Fame di Israele.

Ogni giorno sono costretto a rivedere questo film dell’orrore, nel quale non avrei mai voluto avere un ruolo. Non so se sopravviverò a questa guerra; se la Palestina sopravvivrà a questo Genocidio. Che tipo di vita ti costringe a scegliere tra morire di fame, di malattia, ucciso a colpi di mitragliatrice o sotto le bombe?

Di notte inizia a piovere. Non riesco a dormire, pensando alle tende allagate degli sfollati. Ma alla fine crollo, lasciando entrare gli incubi, solo per risvegliarmi poche ore dopo in uno peggiore.

*La firma di corrispondente di Middle East Eye, precedentemente detto collaboratore, è una firma solitamente utilizzata dai giornalisti che lavorano in parti pericolose del mondo dove rivelare la propria identità potrebbe mettere a repentaglio la loro sicurezza

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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La corrente principale di Israele ci ha portato all’Aja, non le sue frange estremiste – Gideon Levy

Isaac Herzog, Yoav Gallant, Israel Katz: Presidente, Ministro della Difesa e Ministro degli Esteri di Israele. Il Presidente della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, Joan Donoghue, ha scelto di citarli tutti e tre come prova del sospetto incitamento al Genocidio in Israele.

Il giudice non ha citato le frange di estrema destra, né Itamar Ben-Gvir né Eyal Golan; né i generali in pensione Giora Eiland (lasciamo che le epidemie si diffondano a Gaza) né Yair Golan, l’uomo di pace e diagnostico dei processi (lasciamo morire di fame Gaza).

Il terzo dei provvedimenti provvisori emessi dal tribunale venerdì, firmato dall’ex presidente della Corte Suprema israeliana Aharon Barak, giudice incaricato di Israele nel caso, ordina a Israele di adottare tutte le misure in suo potere per prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico al Genocidio dei palestinesi nella Striscia di Gaza.

Sembrerebbe che Israele debba ora indagare, ed eventualmente punire, il suo Presidente e i due più importanti ministri del governo che avrebbero dovuto essere convocati dalla polizia già domenica mattina. Naturalmente Israele non lo farà, ma è impossibile ignorare i sospetti sollevati dalla Corte riguardo al cuore stesso di Israele.

La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia è un capolavoro di cautela e moderazione. Solo in Israele, che si illude e nega fino all’accidia, si può “tirare un sospiro di sollievo” e perfino “festeggiare” dopo una sentenza simile. Uno Stato che è sotto processo per Genocidio davanti al tribunale delle Nazioni Unite dovrebbe vergognarsi di se stesso e non celebrare nulla.

Uno Stato il cui Presidente e alti ministri sono sospettati di incitamento al Genocidio dovrebbe fare ammenda e non meravigliarsi dei propri grandi risultati immaginari. Ogni israeliano avrebbe dovuto sobbalzare venerdì per il semplice fatto del processo, e provare un profondo senso di vergogna e umiliazione nel sentire le motivazioni della sentenza.

Potrebbero esserci degli israeliani che hanno sentito per la prima volta ciò che il loro Paese ha fatto e continua a fare a Gaza in questa guerra. Questa volta, nemmeno i suoi media propagandisti, che fino ad ora li avevano protetti con infinita dedizione, senza mostrare loro nulla, sono potuti accorrere in loro aiuto.

È un po’ più difficile accusare questa Corte di antisemitismo adesso, dopo che non ha ordinato a Israele di fermare la guerra. Ciò non ha disturbato la corrispondente politica del notiziario di Canale 13 Moriah Asraf Wolberg.

Wolberg, che indossa una collana con un pendente a forma di Israele comprendente la Cisgiordania, non ha ceduto agli antisemiti dell’Aja; ha continuato a recitare il mantra secondo cui la Corte è ipocrita, il mondo è ipocrita e Israele sta conducendo la guerra più giusta e morale del mondo. Chiunque voglia crederci anche dopo l’ordinanza del tribunale dell’Aja è il benvenuto; si può credere a qualsiasi finzione.

Soprattutto, però, dobbiamo prestare attenzione alla saggezza della Corte, che si è concentrata sulla corrente principale di Israele, non sulle sue frange. Herzog, ex presidente del Partito Laburista e la persona più unificante e istituzionale in Israele; Gallant, il cui licenziamento è stato fisicamente impedito dalla protesta del centrosinistra; e Katz, che nonostante abbia chiesto sabato di perseguire penalmente il capo dell’Agenzia per i Rifugiati dell’UNRWA, è considerato relativamente moderato.

Sono loro i principali sospettati di incitamento al Genocidio. L’incitamento al Genocidio del popolo palestinese potrebbe essere stato inventato da Meir Kahane, ma è già quasi intrinseco nella società israeliana.

Nell’Israele post-7 ottobre, la reazione corretta alla punizione di Gaza è: “C’è un’intera nazione là fuori ad essere responsabile”, nelle parole del Presidente che firma le bombe; “Ho allentato tutte le restrizioni. Stiamo combattendo contro degli animali”, come ha detto il Ministro della Difesa, quando era a capo del Comando Meridionale delle Forze Armate, che amava chiedere di tagliare “la testa del serpente”, oppure: “Loro non riceverà una goccia d’acqua né una sola batteria”, come ha minacciato il 13 ottobre il Ministro degli Esteri israeliano Katz, quando era Ministro dell’Energia.

I giudici dell’Aja hanno diagnosticato perfettamente ciò che qui ci rifiutiamo di ammettere: il problema di Israele è la sua corrente principale, non le sue frange estremiste. È la corrente principale che ci ha portato all’Aja, è la corrente principale che ha incitato al Genocidio, dopo che Israele si è convinto con incredibile facilità che dopo il 7 ottobre tutto sarà permesso. Fortunatamente all’Aja sembra che la pensino diversamente, molto diversamente.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo ultimo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Nel Giorno della Memoria dell’Olocausto, i discendenti dei sopravvissuti della JVP chiedono la fine del genocidio dei palestinesi da parte del governo israeliano – Jewish Voice for Peace

Noi, discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto, chiediamo al mondo in questo Giorno della Memoria dell’Olocausto di unirsi a noi nel lavorare per porre fine al genocidio del governo israeliano contro il popolo palestinese, consentito e sostenuto dal governo degli Stati Uniti. Il governo israeliano ha reso molto chiaro il suo intento di distruggere la vita palestinese a Gaza.

Per giustificare questa orribile violenza, il governo israeliano ha spudoratamente manipolato il trauma dell’Olocausto. Come discendenti, siamo indignati dal fatto che la memoria dei nostri antenati venga utilizzata per giustificare lo stesso tipo di orrore inflitto ad altri. Gridiamo contro questo assalto genocida: non in nostro nome!

Come discendenti, riconosciamo che il genocidio non rende nessuno più sicuro. Non siamo soli nel nostro trauma e abbiamo il dovere collettivo di impedire che altri subiscano un danno simile. Invece di ignorare la lezione chiave dell’Olocausto – che Mai più significa mai più per nessuno – e di manipolare il nostro trauma per sostenere una guerra genocida, scegliamo di investire in valori ebraici come tzedek tzedek tirdof (giustizia, giustizia perseguirai), e tikkun olam (riparare il mondo) proprio qui e ora, dove siamo.

Collettivamente, determiniamo quale sarà l’eredità della memoria dell’Olocausto. Possiamo trasformare il nostro dolore in un’arma e iscrivere i nomi dei nostri antenati sui finanziamenti e sulle bombe che sono gli strumenti del genocidio. Oppure possiamo portare con noi i ricordi dei nostri antenati in azioni che uniscono e proteggono tutti noi. Scegliamo la seconda:

Palestina libera! – Membri di Jewish Voice for Peace discendenti dei sopravvissuti all’Olocausto

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Rivelazioni-denuncia del New York Times sui prigionieri d’Israele a Gaza – Piero Orteca

«Spogliati, picchiati, scomparsi»

Umiliazioni e percosse, forse torture. Un trattamento indegno per uno Stato  moderno, democratico e civile,  come dovrebbe essere quello israeliano, il primo commento del giornale americano. Uno Stato che, benché mortalmente ferito dall’aggressione terroristica di Hamas, non dovrebbe mai abdicare ai principi basilari che ha scelto come fondanti per la sua stessa costituzione.

Istigazione a delinquere

«A Gaza andiamo a combattere contro animali-umani». Le parole pronunciate dal Ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, e riprese nell’arringa accusatoria della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, sembrano quasi una terribile esortazione.

Dall’accusa di genocidio a quella di tortura?

Sempre il New York Times svela che «un ufficio delle Nazioni Unite ha affermato che la carcerazione e il trattamento dei detenuti potrebbero equivalere a tortura. Si stima che migliaia di persone siano state detenute e tenute in condizioni orribili. Alcune sono state liberate indossando solo perizomi».

Accertamenti giornalistici

I giornalisti americani hanno cercato di vederci chiaro, interpellando direttamente i funzionari dell’IDF. Le risposte sono state piuttosto evasive. L’esercito israeliano ha affermato di detenere persone «sospettate di coinvolgimento in attività terroristiche, e di aver rilasciato successivamente coloro che sono stati scagionati». L’unico problema, per usare un eufemismo, è che le procedure utilizzate per accertare il loro coinvolgimento sono quantomeno discutibili.

Sospettabili e galera facile

Se per essere ‘sospettati’ basta poco, per finire in galera ci vuole meno ancora. Regna una vera e propria legge quasi-marziale, che da Gaza alla Cisgiordania, viene applicata col pugno di ferro. Tuttavia, secondo quanto scrive il New York Times, «le autorità israeliane hanno affermato di trattare i detenuti in conformità con il diritto internazionale. Inoltre hanno difeso l’obbligo di costringere uomini e ragazzi a spogliarsi, affermando che ciò serve a garantire che non nascondano giubbotti esplosivi o altre armi».

‘Desaparecidos’ anche a Gaza

Il caso, denunciato dal portavoce della Croce Rossa, Hisham Mhanna, su ben 4000 palestinesi letteralmente scomparsi da Gaza. In base alle denunce ricevute, si ritiene che almeno 2000 di essi siano stati segretamente incarcerati dall’esercito israeliano. È stato possibile avere qualche conferma della loro esistenza in vita, solo in una manciata di casi. E così, arriviamo al punto di quella che, a prima vista, potrebbe essere la causa scatenante di una violazione sistematica dei diritti fondamentali dell’uomo.

‘Tutti terroristi’

L’ipotesi che fanno al New York Times è semplice, ma rabbrividente: «Durante il primo mese di guerra, Israele avvertì coloro che non fuggivano dalle aree sottoposte a ordine di evacuazione che potevano essere considerati partner di un’organizzazione terroristica. Il mese scorso un portavoce del governo di Tel Aviv, Eylon Levy, ha detto che le forze israeliane stavano detenendo uomini in età militare in quelle aree». Evidentemente si ritiene che ogni palestinese maggiorenne, nella Striscia di Gaza, possa essere un miliziano presente o futuro, un semplice fiancheggiatore, o persino un innocuo simpatizzante, dell’organizzazione terroristica Hamas.

‘A Gaza non ci sono innocenti’

E questo corrisponde con quell’affermazione, espressa dall’ex ministro delle difesa  Avigdor Lieberman, sostenitore dell’attuale governo, il quale ha detto che «a Gaza non ci sono innocenti». Se le motivazioni dell’attivismo repressivo israeliano, rivolto contro i civili palestinesi non combattenti di qualsiasi età, dovessero essere queste, si tratterebbe di una interpretazione pericolosa e assolutamente fuorilegge.

Ecco il parere del New York Times: «Francesca Albanese, Relatrice speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, ha affermato che designare i civili che non sono stati evacuati come complici del terrorismo non solo rappresenta una minaccia di punizione collettiva, ma potrebbe costituire pulizia etnica».

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L’“epistemicidio” di Gaza e il collaborazionismo dell’accademia israeliana – Giacomo Gabellini  

Lo scorso lunedì 22 gennaio, 21 soldati inquadrati nell’Israeli Defense Force sono caduti nell’ambito di quello che il portavoce dell’esercito Daniel Hagari ha definito “un incidente”. Secondo il suo resoconto, il manipolo aveva preso possesso di due edifici che si sviluppavano su due piani nel territorio della Striscia di Gaza distante poche centinaia di metri dal kibbutz Kissufim. Mentre era intento a piazzare esplosivi per far saltare in aria le due strutture, un gruppo di miliziani di Hamas avrebbe aperto il fuoco lanciando missili Rpg contro un carro armato israeliano schierato dinnanzi agli edifici a protezione delle truppe che si trovavano all’interno. L’esplosione e la relativa onda d’urto avrebbero provocato la detonazione anticipata degli ordigni collati nei due edifici, facendoli crollare sopra i 21 soldati che li occupavano.

Quella di demolire interi complessi architettonici di Gaza “ripuliti” dalla presenza di forze nemiche rappresenta una prassi consolidata, che le forze israeliane hanno messo abbondantemente in atto nel corso dell’Operazione Spade di Ferro. In particolare, per distruggere strutture che ospitano istituzioni educative palestinesi. Già l’11 ottobre, l’aeronautica militare israeliana pubblicò un filmato per documentare l’attacco portato contro l’Università Islamica di Gaza. Nel relativo comunicato stampa, l’Israeli Defense Force ha affermato, senza esibire alcuna prova, di aver «colpito un importante centro operativo, politico e militare di Hamas a Gaza: l’Università Islamica […]. La quale veniva utilizzata come campo di addestramento di Hamas per agenti dell’intelligence, nonché per lo sviluppo e la produzione di armi […]. Hamas ha anche sfruttato conferenze universitarie per raccogliere fondi a sostegno del terrorismo, e l’università ha mantenuto stretti legami con gli alti dirigenti del movimento terroristico».

Poche settimane dopo, è stato il turno dell’Università di al-Azhar, la seconda più grande di Gaza, e dell’Università di al-Quds, entrambe bersagliate per le stesse, identiche ragioni addotte ufficialmente dai portavoce dell’esercito israeliano a giustificazione dell’attacco contro l’Università Islamica.

La narrazione israeliana, già fortemente indebolita dall’assenza di elementi concreti in grado di corroborarla, è letteralmente crollata a fronte del modus operandi seguito sistematicamente dall’Israeli Defense Force durante l’invasione terrestre della Striscia di Gaza. Una prassi che ha visto le truppe israeliane “bonificare” le aree interessate prima di procedere con l’occupazione degli edifici universitari e scolastici palestinesi, dapprima sfruttati come postazioni militari e quindi distrutti con esplosivi nell’ambito di vere e proprie demolizioni incontrollate videoregistrate e diffuse sulla rete. Un filmato, ad esempio, mostra la distruzione della facoltà di medicina dell’Università Islamica; un altro, la demolizione dell’Università Israa di Gaza City. I cui dirigenti hanno denunciato che l’edificio conteneva circa 3.000 reperti rari risalenti alle ere preislamica, romana e islamica sottratti dai soldati israeliani prima di procedere alla distruzione.

Risulta oggettivamente difficile scorgere motivazioni valide da un punto di vista tattico dietro la decisione di far saltare in aria questo genere di edifici, nel momento in cui si trovavano sotto il totale controllo israeliano. Il discorso cambia però radicalmente se la si legge attraverso una chiave interpretativa simbolica e la si pone in una prospettiva di medio periodo.

L’istruzione rappresenta un pilastro fondamentale dell’identità palestinese, ed è, spiega Karma Nabulsi, docente di origini palestinesi presso la facoltà di scienze politica dell’Università St. Edmund Hall di Oxford, «parte integrante della vita familiare, dell’identità e della ribellione di ciascun palestinese. Tutti lo sanno, e in un campo profughi come Gaza ogni bambino è consapevole del fatto che su quegli stessi banchi di scuola si erano seduti i suoi genitori e nonni, di cui è chiamato a portare avanti la tradizione».

E ha aggiunto: «il ruolo e il potere dell’istruzione in una società occupata sono enormi. L’istruzione offre possibilità, apre orizzonti. La libertà di pensiero contrasta nettamente con il muro dell’apartheid, i posti di blocco militarizzati, le prigioni soffocanti». Si tratta insomma di «qualcosa che gli israeliani non possono sopportare e cercano di distruggere. Ne eravamo già consapevoli, e lo vediamo ora più chiaramente che mai: Israele sta cercando di annientare una Palestina istruita».

Stando ai dati raccolti da EuroMed Human Rights Monitor e dal Ministero dell’Istruzione di Gaza, a decorrere dal 7 ottobre sono stati parzialmente o completamente distrutte tutte le strutture universitarie della Striscia di Gaza, oltre a 281 scuole pubbliche e  65 istituti educativi delle Nazioni Unite. Nel computo rientrano anche 94 accademici, 231 insegnanti e funzionari e 4.327 studenti uccisi. L’Osservatorio ha parlato senza mezzi termini di «distruzione intenzionale delle proprietà culturali e storiche palestinesi», in quanto «gli accademici presi di mira hanno studiato e insegnato in una varietà di discipline, e molte delle loro idee sono servite come pietre angolari della ricerca nelle università della Striscia di Gaza».

Lo spazio all’interno della Striscia di Gaza preposto alla produzione e alla circolazione della conoscenza è stato in altri termini eliminato, ed è impossibile prevedere se e quando le lezioni riprenderanno. Le autorità di Gaza evidenziano che la mancanza di luoghi sicuri, di corrente elettrica e di connessioni internet stabili rendono inapplicabile la didattica a distanza, a cui scuole e università della Cisgiordania stanno invece passando obtorto collo a causa dell’esplosione di violenza ascrivibile ai coloni e alle forze di sicurezza israeliane, certificata dai 371 palestinesi assassinati a decorrere dal 7 ottobre.

Il tutto con il consenso e la collaborazione attiva del mondo accademico israeliano. I  provvedimenti disciplinari contro studenti e docenti sia israeliani che palestinesi critici nei confronti della linea d’azione portata avanti da governo e forze armate sono infatti all’ordine del giorno. In un sommario riepilogo formulato dal «Manifesto» si richiama l’attenzione sugli «attacchi sistematici all’interno delle istituzioni accademiche israeliane, principalmente contro gli studenti e il personale palestinese, ma anche contro i dissidenti ebrei israeliani interni, per la loro solidarietà con Gaza. La British Society for Middle Eastern Studies (Brismes) ha riferito come, dall’inizio degli attacchi in ottobre, le istituzioni accademiche israeliane abbiano represso la libertà accademica e di parola sospendendo, indagando ed espellendo studenti per aver espresso solidarietà con il popolo palestinese. Inoltre, la Hebrew University ha pubblicato una lettera di potenziale incitamento alla violenza verbale e fisica contro Nadera Shalhoub-Kovorkian, una professoressa palestinese che ha firmato una petizione a sostegno del cessate il fuoco a Gaza. Nel frattempo, il David Yellin Academic College ha sospeso Nurit Peled Elhanan, professoressa ebrea e vincitrice del Premio Sakharov, per aver criticato un paragone tra Hamas e i nazisti in una chat WhatsApp dei colleghi. Questa ondata di repressione ha portato anche al licenziamento del dottor Uri Horesh dall’Achva Academic College a causa dei suoi post su Facebook in solidarietà con Gaza».

La punizione sistematica dei docenti e studenti non allineati risulta del tutto coerente con una specifica organizzazione degli interessi interni a Israele, contrassegnata dall’interconnessione a più livelli tra il “complesso militar-industriale” e le istituzioni accademiche. Le quali cooperano attivamente nella messa a punto di sistemi d’arma e di dottrine operative per conto delle forze armate israeliane, divenute sempre più dipendenti dai dispositivi high-tech progettati dalle università israeliane. Le nuove tecnologie agevolano ed efficientano l’occupazione, fornendo allo stesso tempo nuovi prodotti di esportazione per l’industria israeliana della sicurezza.

Il Technion di Haifa ha contribuito a sviluppare il bulldozer telecomandato D-9, ampiamente utilizzato nella distruzione delle case palestinesi. Nel periodo 2008-2013 ha mantenuto una partnership di ricerca con Elbit Systems Ltd., che fornisce sia dispositivi di rilevamento elettronico installati nel muro di separazione israeliano in Cisgiordania, sia droni impiegati in nei territori palestinesi. Nonché dell’Urlo, un sistema acustico “non letale” concepito per il controllo delle folle che «emette sonorità insopportabili per l’uomo fino a 100 metri di distanza». Si tratta di un’arma utilizzata principalmente per la repressione delle manifestazioni nei territori palestinesi. La Technion University ha acquisito talmente tanta influenza da affermarsi come l’ala di ricerca e sviluppo di riferimento dell’esercito israeliano.

L’Università Bar-Ilan, invece, ha partecipato a svariate ricerche congiunte con l’esercito, a partire da quelle finalizzate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale per la guida di veicoli da combattimento senza pilota. Il grafene, in grado di rendere più durature le batterie al litio che alimentano i droni, è frutto di una collaborazione tra l’Università di Manchester e diverse università e aziende israeliane, tra cui proprio quella di Bar-Ilan.

Come rileva la sociologa palestinese Lisa Taraki, il coinvolgimento delle università israeliane nella violenza di Stato contro i palestinesi è talmente profondo che le nomine accademiche di alto livello sono andate a beneficio di «individui noti per aver supervisionato e progettato misure repressive e commesso persistentemente violazioni del diritto internazionale umanitario contro i palestinesi in qualità di funzionari dell’esercito e dell’intelligence».

Il “complesso militar-industriale” israeliano si appoggia insomma alle università del Paese per affinare le proprie capacità, e si serve dei territori palestinesi sia come “laboratorio” per testare i sistemi d’arma e le strumentazioni di sorveglianza, sia come “vetrina” per favorirne l’esportazione, e vendere all’estero un intero modello incentrato su terrore, controllo e repressione.

Il contributo dell’accademia israeliana va tuttavia perfino oltre, arrivando al confezionamento di coperture ideologiche alle politiche di occupazione e segregazione portate avanti dal governo. È il caso di Joel Roskin, che in qualità di geografo della Hebrew University e specialista in materia di geolocalizzazione con incarichi presso l’Israeli Defense Force, ha scritto un editoriale per il «Jerusalem Post» in cui si invocava la deportazione degli abitanti della Striscia di Gaza verso il Sinai egiziano, identificata come una “soluzione umanitaria”.

Così, mentre gli accademici israeliani intensificano la collaborazione con l’industria militare domestica, Tsahal procede con la demolizione degli edifici scolastici e universitari palestinesi, nell’ambito di un fenomeno che l’Associazione Internazionale per l’Educazione del Sud Africa ha definito “epistemicidio”. Vale a dire «un brutale tentativo di annientare il sistema di conoscenza» della Striscia di Gaza che, combinandosi con la demolizione di infrastrutture civili parimenti cruciali come il palazzo di giustizia, tribunali, ospedali e uffici pubblici di vario genere, punta a devastare la vita collettiva dei palestinesi. Come osservava lo scorso dicembre la testata «The New Arab», «Israele intende rendere la Striscia di Gaza inabitabile per la specie umana, nella speranza che un simile scenario di desolazione inneschi una emigrazione su larga scala».

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Pepe Escobar – Una vittoria sudafricana fermerà il genocidio di Gaza?

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

Per quanto la Corte internazionale di giustizia possa essere liquidata come una farsa dell’Occidente collettivo, il fatto è che la sentenza chiede esplicitamente a Israele di fermare le uccisioni.

Andiamo subito al sodo:

Con un verdetto di 15 a 2, la Corte internazionale di giustizia (ICJ) si è appena pronunciata a favore del Sudafrica, membro dei BRICS, e ha ordinato a Israele di prendere tutte le misure necessarie per evitare un genocidio a Gaza.

Quando si tratta del genocidio più scrutinato di sempre, seguito 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 da tutti gli smartphone del pianeta, è lecito affermare che il Sudafrica ha appena ottenuto una sorprendente vittoria contro il sionismo.

Eppure, come sostiene l’Armata Cinica Globale, in termini pratici non c’è stata alcuna richiesta di cessate il fuoco a Gaza.

Naturalmente si può anche obiettare che la richiesta di un cessate il fuoco si applica solo a una guerra – come nel caso della guerra per procura in Ucraina. Gaza è un caso di genocidio di una popolazione indigena perpetrato da una potenza occupante. Ciò richiede la cessazione immediata di tutti gli atti di genocidio. In sostanza, questo è ciò che ha ordinato la Corte internazionale di giustizia.

Il Ministero degli Esteri sudafricano ha notato che “se si legge la sentenza, è implicito” che deve essere imposto un cessate il fuoco.

L’inestimabile ex ambasciatore britannico Craig Murray ha osservato che “dopo un’esposizione dei fatti estremamente dannosa da parte del Sudafrica”, potentemente “e minuziosamente ben esposta”, le conclusioni erano inevitabili.

Ecco i punti salienti:

“L’operazione militare condotta da Israele a Gaza ha provocato un numero incalcolabile di morti e feriti, ha distrutto infrastrutture e unità abitative consistenti, ha causato una malnutrizione di massa, ha fatto collassare il sistema sanitario e ha fatto sfollare la maggior parte degli abitanti. Questa guerra ha colpito l’intera popolazione di Gaza e avrà conseguenze molto durature. La Corte ha preso atto del linguaggio di disumanizzazione degli alti funzionari del governo israeliano.”

Quindi la CIG “accetta la richiesta sudafricana di adottare misure provvisorie urgenti per la protezione dei palestinesi di Gaza contro Israele e raccomanda” (corsivo mio) quanto segue:

Con 15-2: “Lo Stato di Israele deve prendere tutte le misure per prevenire la commissione di un genocidio a Gaza.”

Con 15-2: “Lo Stato di Israele deve garantire che i militari non commettano atti di genocidio.”

Con 16-1: “Israele prenderà tutte le misure per punire tutte le sollecitazioni pubbliche al genocidio.”

Con 16-1: “Israele adotterà misure immediate ed efficaci per affrontare le condizioni avverse alla vita nella Striscia di Gaza.”

Con 15-2: “Israele adotterà misure efficaci per preservare le prove di azioni che hanno un impatto sulla Convenzione sul genocidio.”

Con 15-2: “Israele presenterà alla corte un rapporto di tutte le misure adottate per seguire gli ordini di questa corte entro un mese.”

Gli Houthi e la Convenzione sul Genocidio

La decisione della CIG è vincolante (corsivo mio). Tuttavia, anche se la CIG ha deciso che Israele deve “prendere tutte le misure per prevenire morti e feriti” e provvedere a tutti i bisogni umanitari dei palestinesi (compreso l’accesso a cibo, medicine, infrastrutture), cosa succede se Tel Aviv semplicemente ignora la decisione?

Anche considerando che Israele deve presentare un rapporto sulle azioni correttive entro un mese dalla sentenza, tutte le scommesse sono annullate sul fatto che i praticanti della psicopatia biblica si conformeranno.

La risposta non si è fatta attendere. Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Ben Gvir, candidato al ruolo di psicopatico fuori controllo in un film horror da quattro soldi, ha dichiarato che “la decisione del tribunale antisemita dell’Aia dimostra ciò che già si sapeva: questo tribunale non cerca la giustizia, ma piuttosto la persecuzione del popolo ebraico. Hanno taciuto durante l’Olocausto e oggi continuano l’ipocrisia e fanno un ulteriore passo avanti.”

Per i psicopatici la storia non fa per loro. L’ICJ nella sua attuale iterazione è stata fondata nel 1945.

Ciò che la sentenza dell’ICJ ha certamente fatto è stato legittimare de facto la forza morale degli Houthi che sostengono il “nostro popolo” a Gaza.

E questo mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito fanno girare nel Sud Globale la voce che devono colpire gli Houthi, la cui politica di difesa della Palestina si traduce nel sostenere la Convenzione sul Genocidio. Gli Stati Uniti e il Regno Unito evocano cinicamente la necessità di “proteggere il diritto internazionale”.

La stragrande maggioranza del Sud Globale lo interpreta invece come una forza di pace che difende la Convenzione sul genocidio – gli Houthi –  attaccata dai disonesti fornitori dell'”ordine internazionale basato sulle regole”.

Parallelamente, un punto cruciale è stato sottolineato dal giurista internazionale di prim’ordine Juan Branco. La Francia presiede attualmente il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Secondo l’articolo 94.2 della Carta delle Nazioni Unite: su richiesta del Sudafrica, l’ONU deve (corsivo mio) costringere Israele ad applicare la sentenza della CIG.

Nessuno dovrebbe contare sul fatto che la Francia macronista da quattro soldi faccia la cosa giusta.

Gli uccisioni non si fermeranno

Dal punto di vista del Sud Globale, è spaventoso che un’africana, la giudice ugandese Julia Sebutinde, si sia opposto a tutte le misure provvisorie richieste dal Sudafrica contro Israele.

Poiché la CIG ha stabilito che “le azioni di Israele a Gaza potrebbero (corsivo mio) costituire un genocidio con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, uno specifico gruppo etnico – i palestinesi”, ne consegue logicamente che la complicità degli Stati Uniti con Israele equivale alla complicità degli Stati Uniti nel genocidio dei palestinesi.

La sentenza della Corte internazionale di giustizia infatti mette sotto accusa Stati Uniti, Regno Unito, Germania e altri membri collettivi dell’Occidente che hanno dichiarato che il caso sudafricano è “privo di fondamento giuridico” e dovrebbe essere respinto.

Non c’è quindi da stupirsi che un gruppo di 47 avvocati sudafricani stia già preparando una causa contro Stati Uniti e Regno Unito per complicità.

Qualunque sia la prossima mossa, l’Armata Cinica Globale iperimpegnata non cederà. La sentenza della Corte internazionale di giustizia che ordina a Israele di “prendere tutte le misure per prevenire morti e feriti” può essere interpretata come una richiesta di cessate il fuoco, senza menzionare la parola magica.

Ma ciò che l’Armata Cinica Globale vede in realtà sono quattro elementi tossici interconnessi: Nessun cessate il fuoco; uccidete i palestinesi, ma con delicatezza; date loro da mangiare prima di ucciderli; e avete ancora un mese intero per impegnarvi in uccisioni diffuse.

Per quanto la Corte internazionale di giustizia possa essere liquidata come una farsa dell’Occidente collettivo, il fatto è che la sentenza chiede esplicitamente a Israele di fermare le uccisioni. Si può sostenere che la Corte internazionale di giustizia ha fatto il massimo di ciò che poteva fare in base alla sua giurisdizione e alle sue procedure.

Tuttavia, considerando che la Corte Internazionale di Giustizia ha meno di zero modi per far rispettare la sua sentenza – dipende dalle iper-corrotte Nazioni Unite – l’Armata Cinica Globale potrebbe aver colto nel segno, cupo come lo è: le uccisioni non si fermeranno.

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Unrwa, una vergogna (storica) per l’Italia – Giorgio Cremaschi

La decisione degli USA e di altro otto governi servi, tra cui purtroppo ma senza sorpresa quello italiano, di sospendere il finanziamento all’UNRWA è un crimine contro l’umanità.

Isreale ha accusato DODICI dei TREDICIMILA dipendenti dell’Agenzia a Gaza, di essere fiancheggiatori dI Hamas. Naturalmente come sempre non ha fornito prove, basta la parola. Ed infatti sulla sola parola di un governo a processo per genocidio, nove complici guidati dagli USA hanno sospeso gli aiuti.

È bene ricordare che l’UNRWA è l’agenzia dell’’ONU che assiste milioni di palestinesi vittime delle pulizie etniche israeliane e che i due milioni di abitanti di Gaza hanno gli aiuti dell’Agenzia come quasi unica risorsa vitale. Sospendere i finanziamenti a tutto il sistema degli aiuti per punire dodici persone è una rappresaglia fascista, è partecipazione al genocidio.

Biden, Scholz, Suniak non hanno detto o fatto nulla di fronte al rinvio a giudizio per genocidio di Israele da parte della Corte Internazionale di Giustizia, non hanno preso alcuna misura per far sì che Israele rispetti le prescrizioni della Corte. E non hanno detto e fatto nulla quando Israele ha assassinato più di CENTO dipendenti ONU a Gaza, il più grave attentato alle Nazioni Unite da quando esistono.

E i penosi governanti italiani, servi dei servi, Meloni e Taliani in testa, benedicente come sempre Mattarella, si sono accodati. Taiani si è persino fatto fotografare felice mentre stringeva la mani insanguinate di Netanyahu, nello stesso giorno in cui la Corte de l’Aia riconosceva la validità dell’accusa di genocidio.

E non si venga a dire che ci sono vincoli internazionali da rispettare, perché paesi NATO come la? Norvegia e la Spagna hanno subito dichiarato che continueranno a finanziare UNRWA, a maggior ragione con la crisi umanitaria in corso. No, lo schifo vile e servile è tutto nostro.

Se in Italia ci fosse ancora una stampa libera e non un regime giornalistico che fa da scorta mediatica al genocidio, si leverebbe la critica a questo governo che si proclama sovrano ed invece è un leccapantofole .

Invece coro di approvazioni, bravi avete spezzato le reni all’UNRWA.

La citazione fascista ci sta, perché l’odio contro l’ONU e le sue organizzazioni, che i criminali israeliani e i loro complici hanno scatenato, è autentico fascismo, ricorda proprio la propaganda nazifascista di novant’anni fa contro la Società delle Nazioni.

Io oggi mi vergogno dell’Italia e vorrei tanto un rinvio giudizio del nostro governo per complicità con il genocidio, per render chiara l’infamia compiuta.

Intanto, oggi più che mai bisogna far sentire ai palestinesi che questi governanti vili e servi non ci rappresentano, e che c’è un’altra Italia che si vergogna e si scusa per loro.

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Alessandro Orsini – Unrwa, Israele: “Questo è il mondo costruito e sorretto dall’occidente”

Forse un dipendente dell’Unrwa, l’agenzia Onu che assiste i profughi palestinesi, ha portato una granata. Forse un altro dipendente ha rapito una donna israeliana durante il raid di Hamas del 7 ottobre.

Quali conseguenze?

Stati Uniti, Italia, Francia e tanti altri Paesi occidentali tagliano tutti i fondi a quell’agenzia umanitaria che ha 13000 dipendenti.

Israele massacra 25000 palesitnesi innocenti, 12000 bambini espoldono con le bombe, 1000 bambini sono mutilati.

Quali conseguenze?

Stati Uniti, Italia, Francia e tanti altri Paesi occidentali non prendono nessuna misura punitiva contro il governo Netanyahu che, peraltro, ha ucciso circa 150 dipendenti dell’Unrwa.

Questo è il mondo giusto in cui viviamo.

E’ il mondo costruito e sorretto dall’Occidente.

Per chi non lo sapesse, l’ordine internazionale in cui viviamo è stato costruito ed è difeso dall’Occidente.

*Post Facebook del 29 gennaio 2024

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Stati sovrani e protettorati – Giorgio Agamben

I discorsi di coloro che parlano sui media di questioni di politica estera in Italia sono privi di ogni fondamento, perché fingono di ignorare che l’Italia non è una nazione sovrana, ma un protettorato. Secondo il diritto internazionale, una nazione che ospita sul suo territorio un numero di basi (alcune delle quali segrete e piene di bombe atomiche) pari a quello che gli Stati uniti intrattengono in Italia non ha sovranità sulla sua politica estera, ma solo sulla sua politica interna; è, cioè, tecnicamente un protettorato.

Questo spiega perché il nuovo governo, che, definendosi di destra, avrebbe dovuto innanzitutto rivendicare uno statuto di piena sovranità, si è semplicemente uniformato, rispetto alla guerra in Ucraina, alle direttive dello Stato protettore. Lasciamo immaginare a chi ne ha voglia che cosa avverrebbe, infatti, a un capo di stato che aprisse una vertenza sulla presenza delle basi degli Stati Uniti sul nostro territorio. Eppure la questione va ben al di là di un problema di sovranità, dal momento che essa implica che, nel caso di una nuova guerra mondiale, l’Italia sarebbe il primo paese a subire un bombardamento nucleare che la distruggerebbe interamente. È purtroppo inutile sperare che i giornalisti pagati dal potere per ora ancora dominante si pongano questo genere di problemi.

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L’Europa fa proprio schifo – Francesco Masala

L’Europa continua a guardare e sostenere lo sterminio dei palestinesi, nonostante la sentenza del Corte Internazionale di Giustizia sul genocidio palestinese.

Eppure basterebbe poco, un decimo del sostegno al regime ucraino, o metà dello sforzo dedicato al sostegno dei nazisti del battaglione Azov, o una parte del sostegno ai paradisi fiscali, dove i corrotti europei e i corrotti ucraini brindano all’impoverimento dei popoli.

Ma l’Europa non rinuncia alla sua anima nera, che è più viva che mai, quella del colonialismo, del nazismo, del genocidio, della violenza, della Nato, dell’amore per i cecchini che uccidono i disarmati a mani alzate che sventolano bandiera bianca.

È iniziata una rivoluzione nel mondo, e l’Europa è dalla parte sbagliata della Storia.

 

 

 

L’Europa si prepara alla rottura della Nato – Giuseppe Masala

Che la Nato sia stata per decenni la longa manus del potere imperiale di Washington in Europa è vero sin dai tempi della Guerra Fredda che ha visto contrapporsi (non solo ideologicamente ma anche militarmente) gli USA all’URSS, con i paesi europei in ruolo ancillare: ossia, in caso di bisogno dovevano essere pronti a immolarsi e dunque ad accettare che il territorio europeo diventasse teatro di un nuovo sanguinoso conflitto.

Con la fine della Guerra Fredda e la vittoria sull’URSS lo scopo di questa alleanza era di fatto raggiunto ma nessuno propose di chiudere l’esperienza e di far ritirare gli yankees dal suolo europeo. Con il tempo questa organizzazione, orfana dell’URSS e dei comunisti, si ritagliò un ruolo da gendarme del mondo. Pensiamo a tale proposito alle guerre nella ex Yugoslavia che culminarono con i bombardamenti di Belgrado al fine di istituire uno stato fantoccio nella regione ribelle del Kosovo. Il medesimo discorso si può fare per quanto riguarda il bombardamento della Libia nel 2011 al fine di abbattere il governo di Gheddafi e che comportarono la distruzione di un paese che godeva di uno standard di vita altissimo per l’Africa e la sua trasformazione in uno stato fallito preda di banditi e di signori della guerra.

Ma la Nato, nel suo ruolo di gendarme, si è spinta anche verso lidi lontanissimi rispetto all’Europa. Mi riferisco alla missione  “Resolute Support” che portò la Nato fin nei monti dell’Afganistan post regime talebano.

Si trattò di missioni spesso costosissime e che non portarono mai a significative vittorie politiche tali da giustificare le spese sostenute. Tutto questo appariva poco importante nei trionfanti anni novanta del secolo scorso quando gli USA erano di fatto i padroni del mondo, ma con l’affacciarsi di altri protagonisti nell’agone mondiale – quali la Cina – divenne sempre più insostenibile dal punto di vista economico. Infatti già dai tempi di Obama l’élite USA iniziò a riflettere   sul moral hazard europeo che sfruttava l’ombrello militare della Nato – quasi completamente a spese di Washington – approfittando per impiegare le risorse finanziarie risparmiate in ambito militare per ottenere un vantaggio competitivo contro il sistema produttivo americano, facendo così una concorrenza feroce nei mercati mondiali. Non parliamo poi del grande cruccio di Washington che non ha mai tollerato l’acquisto da parte degli europei di gas e petrolio dai russi a prezzi stracciati, questo perché così non veniva acquistata il GNL di scisto Made in USA, sia perché con quei prezzi dell’energia veniva dato ai paesi europei un ulteriore vantaggio competitivo che ormai si traduceva per gli americani in saldi di bilancia commerciale in profondo rosso e soprattutto in un continuo dissanguamento di posti di lavoro.

Se durante la presidenza Obama gli USA tentarono di risolvere la questione bonariamente con l’Europa con la maggior apertura dei mercati europei ai prodotti americani e con l’aumento delle spese militari da parte degli europei, con Trump la contesa fu asprissima e non mancarono né gli insulti né la minaccia americana rivolta alla Germania di ritirare le truppe USA dal paese, il che avrebbe significato per Berlino la necessità di dare vita ad un rapido e costosissimo riarmo.

In questo frangente, anche il Presidente francese Macron parlò di Nato “clinicamente morta”, anche se va detto che probabilmente l’Eliseo era (ed è) interessato alla fine dell’Alleanza Atlantica nell’ottica di strappare l’egemonia dell’Europa alla Germania, dato che la Francia è l’unico paese della EU ad avere un deterrente militare credibile (e comprensivo di testate nucleari) e un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

L’avvento dell’amministrazione Biden non ha coinciso con un cambio di direzione nelle richieste americane, sono solo cambiati i metodi: è scoppiata la guerra in Ucraina con un repentino aumento delle spese militari europee; mani misteriose hanno (provvidenzialmente per Washington) fatto saltare il gasdotto North Stream privando di fatto la Germania e l’EU del gas russo e dunque obbligando i paesi europei ad acquistare costosissimo GNL americano.

Nonostante tutto questo, la Bilancia commerciale e il saldo delle partite correnti americani non migliorano alla velocità necessaria nei confronti dell’Europa e conseguentemente le élites si stanno domandando se quanto finora fatto sia sufficiente. L’ex presidente e grande favorito per la vittoria delle presidenziali di novembre Donald Trump non ha mai nascosto che gli USA debbano abbandonare l’Europa al proprio destino e uscire dalla Nato (1). Questa è la grande paura non solo delle élites europee ma anche dei Democratici americani che hanno in fretta e furia fatto approvare una legge che vieta al Presidente USA di uscire dalla Nato senza l’autorizzazione preventiva del Congresso addirittura con maggioranza dei 2/3 (2).

Anche sulla sponda europea dell’Atlantico comunque si inizia a temere un ritorno di Trump con un conseguente ritiro degli USA dalla Nato, che di fatto significa ritiro americano dall’Europa. La prima a parlare è stata la Presidente della BCE Cristine Lagarde la quale ha dichiarato pubblicamente che la vittoria di Donald Trump alle presidenziali USA di novembre sarebbe da considerare come una minaccia per l’Europa (3). E’ chiaro che nelle élites europee il grande timore è sempre lo stesso: la rottura della Nato e la conseguente fine della “protezione” a stelle e strisce per i paesi europei.  Ma anche il Primo Ministro belga De Croo ha dichiarato che l’Europa “deve diventare più forte, più indipendente e più sovrana se Trump verrà rieletto presidente degli Stati Uniti”, che è un modo come un altro per indorare la pillola ai popoli che dovranno sobbarcarsi le spese di riarmo (con conseguenti rinunce sul fronte del welfare) qualora venisse a mancare l’ombrello militare americano.

 Come l’ISPI illustrò la proposta russa agli USA

 

Premesso che fino a quando Trump non ritornerà alla Casa Bianca (se mai gli permetteranno di rientrare) siamo nel regno delle ipotesi, sebbene suffragate da dichiarazioni autorevolissime al di qua e al di là dell’Atlantico, va detta una cosa: è una pia illusione credere che gli USA (trumpiani) cederebbero l’Europa in cambio di nulla. C’è qualcosa sotto.

A mio modo, se si verificasse questa ipotesi, più che ad un ritiro unilaterale saremo di fronte ad uno scambio; l’eterno cinico do ut des tipico delle diplomazie. Gli USA vanno via dall’Europa, e in cambio otterrebbero dalla Russia quello che veramente Trump brama: la neutralità di Putin nel conflitto (speriamo freddo) con la Cina . A prima vista ciò che ho illustrato potrebbe apparire una ipotesi come tante, ma anche qui abbiamo una formidabile pezza d’appoggio. E’ stata proprio la Russia poco prima che iniziasse l’invasione dell’Ucraina ad aver inviato agli USA una proposta di accordo globale nella quale vi è scritto chiaro e tondo che Washington deve ritirare le sue armi nucleari dall’Europa e tutte le truppe Nato devono andare via dall’Europa dell’Est (4). E non è forse questa una uscita degli USA dalla Nato? E non è forse l’uscita degli USA dalla Nato l’adesione a quel documento del 2021 che il Cremlino inviò a Washington? Ipotesi – suggestioni forse – ma certamente suffragate da autorevoli dichiarazioni e da un background in politica estera di Trump  – che abbiamo già visto durante la sua permanenza alla Casa Bianca – fondato sull’adesione alla dottrina Kissinger che  si caratterizza per la ricerca di un’alleanza con la Russia  al fine di circondare la Cina è metterla così sotto assedio come vorrebbe fare Washington. Ossia la strategia opposta rispetto a quella nota come dottrina Brezinski (sostenuta dai Democratici di Biden) che prevede prima lo scontro con la Russia e successivamente – solo dopo la sconfitta di Mosca – la resa dei conti con Pechino.

Non bisogna stupirsi, se dietro l’idea di Trump di abbandonare l’Europa e la Nato c’è un simile stratagemma, sarebbe semmai stupefacente se Trump cedesse l’Europa senza un piano preciso e senza chiedere nulla in cambio.

Una cosa è certa, le élites europee, legate a filo doppio con gli USA (e compromesse anche in tante cose note e non note) sono notevolmente nervose per il possibile ritorno del tycoon newyorkese alla Casa Bianca e questo lo si capisce dalla dichiarazioni che molti esponenti del patriziato europeo stanno rilasciando ai mass media. Teniamoci forte perché di qui a novembre ci sarà da ballare, e se vincerà Trump l’Europa subirà uno tzunami politico di proporzioni epocali

Fonti

(1) la Repubblica, Trump, spuntano le frasi ascoltate nel 2020: “Non aiuteremo l’Europa se verrà attaccata e lasceremo la Nato”

(2) Panorama, Una Nato senza USA sarebbe finita: approvata la legge anti-Trump

(3)  Ansa, Lagarde, rielezione Trump una minaccia per l’Europa

(4)  il Messaggero, Ucraina, Russia agli Usa: «Via armi nucleari e forze dall’est Europa»

da qui

 

 

 

Derisa e umiliata: come l’Europa si appresta a divenire mera merce di scambio – Giuseppe Masala

Ho avuto modo di leggere molte reazioni positive al mio articolo sulla fine della Nato a causa della probabile uscita degli Stati Uniti d’America dall’alleanza. Ovviamente non sono mancate le reazioni negative, peraltro ben argomentate e perciò a queste ultime vorrei rispondere.

L’idea dell’uscita degli USA dall’Alleanza Atlantica circola ormai da anni, suffragata da dichiarazioni assolutamente chiare provenienti da Trump in persona: la Nato è uno strumento inadeguato e costosissimo per gli USA e conseguentemente non più necessario. Senza contare il fatto che i paesi europei hanno approfittato dello strumento – questa è l’idea del tycoon newyorkese – per risparmiare sulle spese militari indirizzando le risorse per fare concorrenza nei mercati mondiali proprio alle aziende americane.

Una situazione che si è dimostrata insostenibile, causando a Washington un deficit di partite correnti e di bilancio mercantile enorme che sta mettendo a rischio il sistema finanziario a stelle e strisce e anche l’egemonia del dollaro nel mercato delle valute. Va altresì rilevato che per anni gli americani hanno provato a spiegare che il saldo delle partite correnti negativo americano andava riassorbito aprendo i mercati europei e consentendo alle merci made in USA di fluire verso l’Europa. Va anche detto, che il peggior politico della storia europea post seconda guerra mondiale, Angela Merkel, da quell’orecchio non ha mai sentito continuando a fare una concorrenza furibonda – basata sull’abbattimento dei costi – agli USA. Tutto questo fino a quando gli USA, esasperati, non hanno iniziato a reagire infliggendo colpi come gangsters durante una rissa da strada. Da qui le provocazioni alla Russia, lo scoppio della guerra e le successive rovinose  sanzioni imposte alla Russia stessa: s’intende rovinose per l’Europa rimasta senza energia e senza il mercato russo.

Ma tutto ciò non è bastato a risolvere il problema del debito estero americano, da qui la guerra in Medio Oriente, e ancora il rischio del ritorno al potere di Trump.

Che questa sia la situazione è pacifico anche in questa parte dell’Atlantico: non si contano ormai le dichiarazioni preoccupate di leader europei sul possibile ritorno al potere del repubblicano e sulle sue intenzioni di abbandonare l’Europa. Ha iniziato la Lagarde, ha continuato il Premier belga De Croo e ha detto la sua anche Tajani il quale spinge (sic) per un esercito europeo, nella convinzione che dobbiamo fare  – molto probabilmente – da soli, per garantire la nostra difesa.

Arrivo ai miei critici. Questi sostengono che Trump stia soltanto bluffando essendo la Nato “proprietà” degli USA. Sostengono i miei critici che non si capirebbe altrimenti per quale ragione Trump voglia distruggere l’alleanza che garantisce l’impero di Washington. Insomma, Trump sarebbe un  mercante, interessato solo a rientrare delle spese della Nato e dunque intenzionato a far pagare integralmente all’Europa i costi della Nato.

Certamente questa visione – così diversa da quella che sostengo io – appare molto razionale, ma secondo me pecca su un punto specifico. Parte dal presupposto che l’Europa sia una parte irrinunziabile dell’Impero americano. Dunque un’Europa ancora centrale negli equilibri mondiali, come nella seconda metà del secolo scorso. La realtà non è più questa, l’Europa è già un’area marginale del mondo, prima per scelta politica propria e poi per scelta di Washington. Dapprima l’Europa, grazie al furore austeritario di Angela Merkel, ha puntato completamente sull’abbattimento dei costi per sostenere la propria competitività sui mercati mondiali. Una scelta platealmente miope che ha reso il continente arretrato dal punto di vista tecnologico. Ci siamo autocastrati ponendoci in concorrenza sul lato dei costi con i paesi emergenti. Certo, una scelta apparentemente positiva nel breve termine ma che nel medio termine porta inevitabilmente all’arretratezza produttiva. Successivamente sono stati gli USA a spingerci ai margini, con le sanzioni alla Russia hanno ridotto l’Europa al rango di area economica senza più sicurezza energetica e quindi impossibilita a impostare un progetto di sviluppo credibile.

Ma non ci avete fatto caso che l’Europa ormai sta provando a sottrarre agli agricoltori terreni fertili con la scusa della sostenibilità ambientale per poi impiantarci costosissime selve di pannelli fotovoltaici? Per forza, non avendo più fonti energetiche dobbiamo arrangiarci  con la cosiddetta energia “pseudo green”. E se impiegando i terreni fertili per produrre energia anziché cibo si crea una crisi alimentare la soluzione è pronta, ovviamente all’insegna del green e della sostenibilità: le farine di insetti sono pronte ad essere commercializzate, così come a breve ci sarà il latte sintetico e la carne coltivata nei bioreattori grazie alla potente irrorazione di ormoni della crescita (se saranno cancerogeni lo scopriremo solo vivendo).

L’aspetto stupefacente è che questo devastante abbassamento della qualità della vita i crisis manager ingaggiati dalla UE e dai governi nazionali ce lo stanno vendendo come scelta dettata dall’amore per l’ambiente, mica come scelta obbligata a causa della carenza di energia. Una mossa comunicativa geniale, chapeau!

Dunque abbiamo una Europa non più centrale, surclassata ormai da molte aree del mondo: non  solo l’anglosfera, la Russia, la Cina, il Giappone e la Corea, ma anche il  Brasile, l’India e l’Indonesia. Dunque siamo ridotti a area del mondo, spendibile e vendibile in cambio di qualcosa da parte degli USA: e il qualcosa l’ho già  indicato. Gli USA cederebbero l’Europa (o più probabilmente parte di essa) all’influenza della Russia in cambio della neutralità del Cremlino nella vera contesa che interessa realmente agli USA: quella con la Cina. Del resto i russi la loro proposta agli USA di un ritiro della Nato dai paesi dell’ex Patto di Varsavia l’hanno già fatta. Proposta che straordinariamente assomiglia agli intendimenti più volte annunciati da Trump.

Non sappiamo se Trump arriverà al potere ma se questo avverrà, è ampiamente probabile che tenterà un grande accordo con Mosca usando l’Europa come merce di scambio.

da qui

 

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