Alberto Masala, un poeta nell’Iraq non pacificato
Questa mia intervista è uscita sul quotidiano «Liberazione» il 3 aprile 2010.
Un invito dall’Iraq non pacificato per un festival di poesia. A riceverlo è un poeta antimilitarista come Alberto Masala. «Uno scherzo o hanno sbagliato persona» il primo pensiero. Ma alla fine parte e torna «testimone di coraggio, bellezza di spirito, umanità di un popolo che non si arrende«».
Sei andato in Iraq (prima volta) con un misto di curiosità, paura e solidarietà con un popolo martoriato; come sei tornato?
«Aggiungerei al cocktail il ghiaccio, cioè la quasi incosciente convinzione che niente mi sarebbe potuto capitare, dimenticando strumentalmente che provengo dal Paese interventista che insieme alla Gran Bretagna ha più acriticamente appoggiato fin dall’inizio la menzogna scatenante della guerra e giustificato l’occupazione. La curiosità è rimasta quasi intatta: non è stato possibile camminare liberamente per le strade, parlare con gente comune, entrare nei negozi… non posso dire di aver visto l’Iraq. Ho approfittato di tutte le relazioni occasionali, dai camerieri d’albergo ai poliziotti che ci scortavano (con una dedizione che direi affettuosa). La nostra sicurezza era la maggiore preoccupazione degli organizzatori e diventava una domanda ricorrente: “Vi sentite sicuri?”. Finché ero a Basrah trovavo l’apprensione quasi eccessiva, ma appena messo piede a Baghdad ho amato l’ansia protettiva dei miei custodi. Una visione meno superficiale del contesto mi è stata data dai tanti poeti e artisti che ho incontrato.
Il cocktail ora si compone così: il piacere dell’esperienza, che è un motore inarrestabile, e della compagnia (la grande qualità umana e artistica di molti ospiti stranieri); il dolore per un popolo meraviglioso in condizioni di vita insostenibili; il rispetto per la grandissima dignità dei suoi poeti, artisti, intellettuali. Il bicchiere per versare il cocktail l’avevo già io e l’ho riportato intatto: la conferma che nel praticare pacifismo e antimilitarismo niente era stato sprecato. La solidarietà attiva serve soprattutto se si ha l’occasione di trasformarla in presenza. Pur senza arrogarmi la presunzione di rappresentare altri, oltre me stesso, sentivo alle mie spalle l’enorme spinta emotiva di migliaia di persone che negli anni hanno testimoniato opposizione alla guerra. Essere lì ha significato per me tradurre un gesto d’amore collettivo, offrire a tutti il sorso fraterno di cui hanno estremo bisogno per continuare a nutrire il loro grande coraggio»
Un passo indietro: chi ti ha invitato? Dov’eri , con chi, a fare che?
«Avevo un invito ufficiale del ministero della Cultura per il 7° festival Al Marbid (o Marbad, Marbadi, Marbeda… nelle sue declinazioni). Non ero l’unico italiano. Nella delegazione c’era Anna Lombardo, poetessa di Venezia. Fra i poeti invitati – da Muniam al Fakir (poeta iraqeno che vive a Copenhagen) e da Aqeel Mindlawi (che si occupa del festival) – c’erano Jack Hirschman (Ua) e Agneta Falk (Svezia/Stati Uniti), vecchi compagni di tante vicende. Poi Eric Sarner (poeta e filmaker francese che sta a Montevideo), gli spagnoli Maurilio de Miguel (poeta e giornalista del Mundo) e Angel Petisme (noto cantautore oltre che poeta), i danesi Kristen Bjornkeer e Sejer Andersen, Bayan Al Safadi (Siria), Kamal Akhlaki (Marocco) e una folta delegazione di poeti turchi: Ali Akbaş (presidente dell’Unione scrittori), Osman Çeviksoy, Nekdet Karasevda, Fatih Şahir, Imdat Avşar, Ayten Mutlu. Molti altri stranieri erano invitati ma non sono venuti. Il Festival è a Basrah (Bassora), all’estremo sud dello Shatt-el-Arab, il Fiume-degli-Arabi che si forma dalla confluenza di Tigri ed Eufrate, molto vicino all’unico e piccolo sbocco dell’Iraq al mare. La coda a Baghdad era un’aggiunta.
Per la prima volta Al Marbed si apriva agli stranieri nel nome della libertà di espressione e della multi-culturalità, ma soprattutto era il primo evento culturale dopo tanta guerra (che non può considerarsi finita….). Oltre a noi, un centinaio di poeti da tutto l’Iraq. Tre concerti – sinfonico, folklorico, di oud – e mostre. di pittura.
Per me non era importante il Festival ma essere lì a sostenere il tentativo di comunicare al mondo pensiero, arte, cultura, vita. Sono testimone di coraggio, bellezza di spirito, umanità di un popolo innocente e sfortunato che non si arrende».
Sei un poeta contro la guerra e persona che non si auto-censura; cosa hai detto e in zona di “finta pace”?
«Non mi auto-censuro ma ho sviluppato un rispetto umano che mi distanzia da atteggiamenti invasivi e colonizzatori. Non ho la presunzione di insegnare niente. Il primo elemento che spinge la mia poesia è la sua “funzionalità”. Sono sardo, vengo da un popolo che mi ha educato al concetto di una poesia che appartiene alla gente, ne esprime le parole impedite, ne trasporta lo spirito assumendo il carico, revocabile in ogni momento, della rappresentatività. Non sono andato per mostrare la mia capacità poetica né per gratificare l’ego: non ho carriere da difendere, lascio questa triste preoccupazione ad altri. Lì ho letto l’introduzione a Nella casa del boia, uscito solo in Usa (a cura di Jack Hirschman): una lettera-poema indirizzata a Bush mentre dichiarava guerra agli iracheni. È stato in vetrina nella City Lights di Ferlinghetti durante il 50° della libreria di San Francisco fino a esaurimento. Un testo scritto per loro e mi sono commosso quando si sono alzati in piedi per applaudire. Poi ho letto un testo ritmato sul coraggio e la resistenza della poesia. Credo avessero bisogno di questo e me l’hanno dimostrato con calore. Devo moltissimo alla lettura in arabo di Kamal Akhlaki, il poeta marocchino con cui comunicavo in francese. Ho trovato un nuovo amico».
Pochi giorni in un Paese martoriato: che aria hai respirato? Hai cambiato idea su qualcosa?
«Potrei impiegare ore per rispondere… Tristezza immensa. Un senso di profonda dolcezza dovuto alla loro grande sensibilità nell’accoglierci. Angoscia per le continue perquisizioni nei check-points (e la maggior parte li evitavamo in quanto ospiti). Dolore nel vedere ovunque torrette di tanks o postazioni di mitragliatrici. Dolore quando la notte a Baghdad ho visto le fiammate dei colpi nel bellissimo panorama del Tigri, culla della prima grande civiltà. Quello che non ci avevano raccontato l’avevamo intuito: la crudele stupidità di una guerra, l’innocenza di ogni popolo che la subisce, la criminale determinazione di essere sterminati per un business, l’arrogante presunzione che qualcuno possa esportare o insegnare la democrazia ad altri, il fallimento di questa terribile menzogna. Ho provato vergogna per quello che siamo diventati ».
BOX: UN POETA DI STRADA E NON DA BIBLIOTECA
«La poesia è il condominio di un palazzo altissimo». Ci sono Lucrezio,Ginsberg, Hikmet e Césaire… Nel sottoscala abita Alberto Masala». Così si presentava Masala nell’articolo su «Liberazione» uscito l’anno scorso quando viene pubblicato «Alfabeto di strade (e altre vite)».
E’ poeta di strada non da biblioteca, ama sperimentare in concerto e dal vivo . Nella scrittura utilizza diverse lingue ed è importante la componente dell’oralità. E’ fondatore di minores, movimento poetico per la dignità delle culture. Fra le pubblicazioni, «Per Joseph Beuys», «Proveniamo da estremi, TALIBAN», «In the Executioner’s house» (solo negli Usa), «Geometrie di libertà». Appare in raccolte e testi critici anche in molti Paesi europei e arabi. Su www.albertomasala.com potete saperne di più; su questo blog in data 30 agosto 2009 trovate la mia recensione ad «Alfabeto di strada (e altre vite)».
Grazie, compagno Alberto.
Ormai ho imparato ad usare il termine “compagno” con molta prudenza e mi rende felice poterlo usare ancora, delle volte.
La “funzionalità”, che bella parola! Il pensiero non può che correre a Gramsci.
Abdullah Ocalan, il leader martoriato del popolo kurdo, dal carcere, attraverso i suoi avvocati, ha detto dell’influenza che hanno avuto su di lui i vari Marx, Lenin ma … sopratutto un tale Antonio Gramsci.
Penso al suo porsi organicamente e umanamente, dalla parte degli oppressi (e dei repressi) provando a rappresentarne sempre tutte le ragioni.
Assumendo un carico di rappresentanza, di regola, e ancor più se espressa in terra e fra gente “straniera”, sempre “revocabile” come dice e fa Alberto Masala, il quale chiude con una perla che si può leggere anche così: se hai da dare, non puoi che rifuggire da “atteggiamenti invasivi e colonizzatori” ma valorizza la ricchezza della diversità.
Così, insieme, potremo partecipare al corteo dell’umanità in movimento verso la convivenza pacifica, solidale, CIVILE!
Mi torna quindi, rinnovato, il desiderio di un altro viaggio, da fare con te ed il caro compagno Daniele, in quelle terre, anche più in alto, più vicino al cielo.
Grazie Daniele, grazie di tutto
e grazie anche a te, Antonello… compagno…
Siamo qui. In piedi. Che altro dire?
Un abbraccio
Gran bel post…