«Arancia meccanica»

Franco Ricciardiello sulla nuova edizione del libro di Anthony Burgess

Reso celeberrimo in tutto il mondo dalla versione cinematografica di Stanley Kubrick (1971), il romanzo dello scrittore inglese Anthony Burgess (1917-1993) è un capolavoro fantapolitico scritto con un linguaggio per buona parte inventato, una commedia nera che possiede molti elementi distopici. Il punto di vista è Alex, quindicenne teppista di una Londra del prossimo futuro, che parla con una forte maschera linguistica in grado di condizionare tutto lo stile del romanzo: si esprime infatti rivolgendosi direttamente al lettore in un argot inventato da Burgess, il nadsat, pesantemente influenzato da termini russi.

Malgrado la giovanissima età, Alex è il capo di una banda di teppisti, i drughi, dediti a quello che chiamano superviolenza, una serie di atti casuali e gratuiti che comprendono pestaggi, incidenti stradali, furti, stupri e sanguinosi scontri con altre bande giovanili. Alex è un noto sociopatico in carico ai servizi sociali; i genitori non hanno il coraggio di imporsi su di lui, e lo trattano come un ragazzo di costituzione delicata, ignari delle sue imprese criminose.

I drughi passano il loro tempo libero al Korova Milk Bar, dove assumono bevande miste a stupefacenti, in attesa che venga la notte e l’ora delle loro scorrerie. Malgrado questi atteggiamenti, Alex tuttavia nel tempo libero è un incondizionato ammiratore della musica di Ludwig van Beethoven, che pone sopra ogni cosa come un oggetto sacro. Alex organizza un efferato raid a casa dello scrittore Alexander. L’uomo, impegnato a scrivere quello che dovrà essere il suo capolavoro, intitolato A clockwork orange, viene immobilizzato e selvaggiamente picchiato, la giovane moglie legata e stuprata. Con i suoi metodi, Alex si è tuttavia alienato i complici, che lo abbandonano alle mani della polizia che sopraggiunge.

Condannato per omicidio, accetta di sottoporsi a un procedimento sperimentale, la “Cura Ludovico”, un metodo per indurre un comportamento virtuoso in soggetti violenti tramite una forma di «terapia dell’avversione». Ogni volta che prova un desiderio di commettere atti violenti, anche di natura sessuale, Alex prova un malessere fisico che paralizza la sua volontà. Ritenuto finalmente innocuo per la società, viene scarcerato all’interno di un programma studiato per sbarazzarsi dei detenuti comuni, in previsione di sostituirli con condannati per reati politici.

A questo punto, come in una fiaba nera, la seconda parte del film prevede che il protagonista rincontri uno dopo l’altro tutto coloro con i quali ha avuto a che fare nella prima parte, ma con rapporti di forza completamente diversi. Come effetto collaterale della cura, Alex si trova infatti impossibilitato a difendersi da chi vuole nuocergli, perché anche una reazione violenta per autodifesa lo mette fuori gioco.

L’ultimo capitolo del romanzo, il 21, venne omesso fino al 1986 dalle edizioni Usa che Burgess giudicò pertanto «gravemente imperfette»; nella presentazione alla prima edizione statunitense ripristinata in originale, l’autore sostenne che secondo gli editori il pubblico non avrebbe gradito un finale moralistico. In questo capitolo, infatti, dopo aver messo su una nuova banda, Alex scopre di provare sempre meno piacere nell’ultraviolenza, e medita di metter su famiglia, abbandonando una vita dedicata al crimine. Per dirla con le parole di Alex:

Forse era questo, pensavo. Forse stavo diventando troppo vecchio per quel genere di seigiorni che stavo facendo, fratelli. Ormai avevo diciotto anni compiuti. A diciotto non si è più tanto giovani. A diciotto anni Wolfgang Amadeus aveva scritto concerti e sinfonie e opere e oratori e tutta quella sguana, no, non sguana, musica celestiale. E poi c’era il vecchio Felix M’ con la sua Ouverture di un Sogno di una notte di mezza estate. E poi c’erano tutti gli altri. E c’era questo poeta francese messo in musica dal vecchio Benjy Britt, che aveva scritto tutte le sue poesie migliori all’età di quindici anni, O fratelli miei. Arthur, si chiamava di nome. Quindi a diciotto anni non si era poi così giovani.

Stanley Kubrick sostenne di aver saputo di quell’ultimo capitolo solo dopo aver terminato la produzione del suo film.

Burgess scrisse il romanzo in tre settimane, al ritorno in patria dopo un lungo periodo di insegnamento trascorso all’estero, tra Malesia e Brunei, e un periodo di ricovero in ospedale a causa di malnutrizione e dipendenza da alcolismo. Faticò a riambientarsi in Inghilterra, colpito soprattutto dal cambiamento di carattere delle nuove generazioni nate e cresciute dopo la guerra, dall’esistenza di gang giovanili, dai café e dalla musica pop. Proiettò questo protagonismo giovanile su un futuro degradato, e recuperò l’esperienza traumatica della violenza sessuale con successivo aborto sofferta dalla prima moglie Lynne Isherwood Jones durante la guerra, per opera di quattro militari americani durante il coprifuoco notturno; a Burgess, che prestava servizio militare a Gibilterra, non fu neppure concesso di tornare a casa.

Per quanto riguarda il titolo del romanzo, così criptico (le prime edizioni italiane furono intitolate, più correttamente, Un’arancia a orologeria) l’autore fornì in momenti successivi cinque diverse interpretazioni; la prima, forse la più credibile, fa riferimento a una frase idiomatica captata per la prima volta in un pub di Londra nel ’45, as queer as a clockwork orange, “strano come un’arancia a orologeria”.

Ovviamente dovevo dargli un significato addizionale. Ho inserito un’ulteriore dimensione, che implica la giunzione tra l’organico, il vivente, il dolce — in altre parole, la vita, l’arancia — e il meccanico, il freddo, il disciplinato. Li ho riuniti in questa specie di ossimoro, questa parola agrodolce.

Anthony Burgess in un’intervista a William Everson

Anthony Burgess
«Arancia meccanica»

A clockwork orange (1962)

traduzione di Marco Rossari

Super ET Einaudi (2022)

12 (€ 7,99 ebook)

 

Redazione
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Un commento

  • Grazie per questo bel post… molti si stupiscono e anche un po’ aggrediscono la politica editoriale delle ristampe. Un grande classico, invece, è occasione di riscoperta, di riflessione e di confronto. Soprattutto oggi è importante, guardavo le novità di fantascienza: è sempre più rara la sperimentazione, la poesia, il perfezionamento della parola scritta, troppi romanzi di oggi sembrano teglie di lasagne… mi consolo con un’arancia, un po’ vera e un po’ meccanica.

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