Beau ha paura – Ari Aster

(visto da Francesco Masala) al cinema il gran film di Ari Aster, dalla rete possiamo vedere l’interessante Theaters of War: come la Cia e il Pentagono hanno conquistato Hollywood (con sottotitoli in inglese), e riceviamo e volentieri pubblichiamo una recensione al film di Nanni Moretti, di Giuliano Capecelatro

Incubo a quattro dimensioni è un libro di racconti di J. G. Ballard. 

mi è tornato in mente vedendo gli incubi che attraversano la vita e la mente di Beau.

cosa succede davvero e cosa solo nella sua mente ognuno lo decida, di sicuro il primo episodio/incubo non è sponsorizzato dall’ente del turismo della città dove vive Beau.

Beau è controllato dalla mamma, tutte le mamme sono un po’ yiddishe mame, impossibile sfuggire.

alla fine si capisce che tutti, o quasi, sono agenti della mamma per controllare, condizionare e opprimere Beau (misteri della psicanalisi?).

Joaquin Phoenix è straripante, un fiume di paure e dubbi in piena, sempre in fuga, per riprendere fiato e provare a salvarsi.

ma lui è spacciato, salvarsi è impossibile, resistere è impossibile, il destino è implacabile, la salvezza è un miraggio.

tre ore sulle montagne russe, Ari Aster sembra incontenibile, di sicuro un film da non perdere.

un film per pochi, a leggere il numero di spettatori al cinema, ma voi guardatelo, e soffritene tutti.

buona (non pacifica) visione – Ismaele

PS: nel secondo episodio ho visto una citazione di Get out, chissà…

https://markx7.blogspot.com/2023/05/beau-ha-paura-ari-aster.html

 

 

QUI si può vedere il documentario Theaters of War: come la Cia e il Pentagono hanno conquistato Hollywood, di Roger Stahl e qui l’interessante recensione di Rossella Fidanza

 

 

Recensione di “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti, a cura di Giuliano Capecelatro
Prima considerazione. Ovvia fino alla banalità. Se un film suscita un dibattito animato, un cozzare di opinioni a volte aspro, non di rado con toni di sprezzante ironia, vuol dire che quell’opera ha pizzicato una corda che attendeva solo di risuonare. O, metafora forse più congrua, ha toccato un nervo scoperto e ha scatenato reazioni veementi, scomposte, spesso eccessive.

Questo sta accadendo con Il sol dell’avvenire, ultimo impegno cinematografico di Nanni Moretti. Sui social imperversano i commenti. In massima parte favorevoli, talora entusiastici. Cui si contrappongono stroncature pungenti, spesso irridenti.

Soprattutto, sembra di poter dire, queste ultime da parte di critici professionali. I più superciliosi dei quali, i critici critici per parafrasare Marx (che ha non poca parte in questo film), assegnano d’ufficio gli estimatori alla patetica categoria dei vecchierelli: lacrima pronta all’uso, testa volta al bel tempo che fu e tanti sospiri per quello che poteva essere e non è stato.

Chi scrive non è che un semplice spettatore, del tutto sprovvisto delle armi della critica. E confessa che, pur non avendo mai avuto una passione particolare per Moretti (che comunque, malgrado il terribile carattere, gli risulta simpatico) , ne ha comunque apprezzato alcuni lavori. Ed è uscito dalla sala romana in cui si proiettava Il sol dell’avvenire convinto di aver visto un gran bel film.

Non sa se lo si potrà annoverare tra i capolavori (lui lo farebbe seduta stante), ma è rimasto attaccato alla poltrona dal primo all’ultimo fotogramma, incapace di distogliere per un solo secondo lo sguardo e le orecchie da quanto si svolgeva sotto i suoi occhi. Tra continue risate e colpi al cuore quando il racconto riproponeva brani di storia patria su cui, in qualche misura, si è costruita la sua ininfluente storia personale. A farla breve, una girandola di emozioni. Che, in fondo, è quanto lo spettatore chiede alle opere cinematografiche, così come il lettore a quelle letterarie. La riflessione, il giudizio critico, come l’intendenza napoleonica, seguirà.

Un film complesso, stratificato, dove ci sono tante cose: dall’inguaribile narcisismo del regista, che lui spiattella con intelligente autoironia, al suo amore per la musica italiana, alla sua profonda conoscenza /passione per il cinema, alla difficoltà dei rapporti personali: un uomo faticoso, si fa definire. Un film nel film- un metafilm, insomma; su, diamo una soddisfazione anche ai critici critici- con tutti i tic e le ossessioni dell’autore, ma anche la sua filosofia e la sua etica cinematografiche.

Una storia che ha il suo perno narrativo (il film che si sta girando) nel lontano 1956, nei fatti d’Ungheria: la rivolta contro il regime soffocata dall’arrivo dei carri armati sovietici. Una tragedia che creò laceranti conflitti di coscienza nei comunisti italiani. Appoggiare i rivoltosi o seguire le indicazioni del Cremlino, faro del pianeta comunista? Il Partito comunista italiano, tra non pochi dubbi, scelse la seconda opzione.

Ed è qui che il film assume il suo significato più profondo e che la scelta dell’autore ha tratti di genialità. Sarebbe stato facile contrapporre all’immagine idolatrata di Stalin (morto già da tre anni nel 1956, ma all’epoca ancora ben presente nell’ideologia e negli apparati dei partiti comunisti) quella di Entico Berlinguer, il comunismo dal volto umano. Ma, questa sì, sarebbe stata una scelta nostalgica, intrisa di impotente rimpianto.

Invece, ecco che Moretti fa sfilare i comunisti che abiurano l’Urss (evento che storicamente non si verificò), forse con perfida ironia, sotto l’effigie di un altro grande protagonista della rivoluzione d’ottobre, Lev Davidovic Bronstein, cioè Trotsky, che santo certamente non fu, anche se venne assassinato a martellate per ordine di Stalin.

Qui c’è un salto concettuale. Usare Berlinguer, al di là dei suoi indubbi meriti, avrebbe riportato tutto il discorso nell’ambito dell’amarezza per l’occasione a portata di mano ma perduta, del lamento, di una mogia rassegnazione. Un’operazione nostalgia non certo nuova.

Issare Lev Davidovic al ruolo di nume tutelare di un auspicabile capovolgimento, evita la trappola di un inane realismo (“ah, se avessimo fatto così!”), trasferisce lo sviluppo della storia sul piano del fantastico, dell’immaginario e quindi lo costituisce come effettiva possibilità, ipotesi feconda, ”se” fondante, da cui partire per concepire, costruire un mondo nuovo.

“Chi ha detto che la storia non si fa con i se? Io voglio farla proprio con i sé”, proclama Giovanni (Nanni), regista del film nel film. Con lo sguardo appuntato sul passato, il “se” non può essere altro che un apparato lacrimogeno, una fonte inesauribile di recriminazioni del tutto sterili. Ma proiettato in avanti, può diventare il lievito di una realtà nuova, il nucleo di un progetto su cui impegnarsi per cambiare.  If… (Se…) era il titolo di un bel film di Lindsay Anderson. Era il 1968. Quel “se”, dando voce ai fermenti dell’epoca, prefigurava un nuovo ordine sociale. Quell’utopia restò tale. Ma chissà. Forse Il sol dell’avvenire potrebbe davvero essere un film sovversivo, come il sornione Giovanni-Nanni lascia dire a Mathieu Amalric.

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