Capitalismo 2025: inferni (per noi) e paradisi armati
di Mario Sommella (*)
Guerra, capitale e paradisi fiscali: l’economia del disastro come ultima risorsa del capitalismo putrescente
Quando la guerra smette di essere un evento eccezionale e si trasforma in una necessità ciclica, vuol dire che qualcosa si è guastato nel motore stesso della storia. E quel motore, oggi, ha il nome di capitalismo globale in fase di decomposizione. Un capitalismo che non produce più progresso, ma distruzione. Che non genera più sviluppo, ma morte. Che non distribuisce ricchezza, ma la trasferisce sistematicamente verso l’alto, occultandola nei forzieri dorati dei paradisi fiscali.
La guerra non è un errore. È sistema.
La narrazione ufficiale ci racconta che le guerre in corso – in Ucraina, in Palestina, in Africa, nel Pacifico che si scalda – siano esiti tragici ma inevitabili di crisi geopolitiche, interessi divergenti o minacce alla democrazia. Ma questo è solo il trucco retorico con cui si maschera una verità molto più profonda, strutturale, sistemica: la guerra è oggi il principale meccanismo attraverso cui il capitalismo prova a sopravvivere alla propria crisi storica.
Non è un caso se proprio l’Unione Europea, devastata dalle conseguenze economiche della guerra russo-ucraina, non solo non frena, ma rilancia sulla linea del riarmo. Non è questione di servilismo verso Washington, come vorrebbe una lettura semplicistica o complottista, ma di necessità interna. L’imperialismo non è un’aberrazione del capitalismo, è la sua forma politica naturale quando lo sviluppo economico non è più garantito dalla produzione, ma solo dalla distruzione.
Crisi di sovrapproduzione e caduta del tasso di profitto
Il cuore del problema è noto da tempo a chi ha ancora il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Il modo di produzione capitalistico, basato sull’estrazione di plusvalore dal lavoro vivo, è entrato in una fase in cui lo sviluppo tecnologico stesso, sostituendo sempre più lavoro umano con macchine, riduce progressivamente la quota di valore estraibile. In altre parole, più si investe in automazione, meno si estrae profitto.
Questa tendenza alla caduta del saggio di profitto è l’origine strutturale della crisi. Per rimediare, il capitale cerca allora nuovi spazi: mercati vergini, manodopera a basso costo, materie prime depredabili. E se non bastano i trattati commerciali o le privatizzazioni selvagge, allora si passa alla guerra. Per colonizzare, soggiogare, distruggere e infine ricostruire a debito. È il ciclo necro-economico della guerra capitalista.
Dove vanno a finire i profitti della distruzione? Nei paradisi fiscali
Mentre si socializzano i costi delle armi e della guerra – pagati con tagli alla sanità, alla scuola, alle pensioni – si privatizzano i profitti. E questi profitti non rimangono nei territori devastati, né nei paesi che combattono. Volano via, letteralmente. Fuggono in luoghi dove la sovranità fiscale non esiste e dove il segreto bancario è ancora sacro: i paradisi fiscali.
Nel 2024, secondo stime dell’OCSE, oltre 11 trilioni di dollari erano parcheggiati offshore da corporation e super-ricchi, al riparo da tasse e responsabilità sociali. Questi capitali non sono solo nascosti. Sono reinvestiti, usati per speculare su materie prime, per finanziare guerre per procura, per comprare media e politici. Sono la linfa segreta della guerra permanente.
Israele, ad esempio, mentre bombarda Gaza, riceve miliardi in armamenti e investimenti dai fondi speculativi americani che passano da Delaware, Isole Cayman, Svizzera, Lussemburgo. Lo stesso avviene con l’Ucraina. Prestiti FMI, aiuti militari e fondi per la ricostruzione gestiti da banche internazionali e aziende di contractor che fanno base in paradisi fiscali.
Il capitalismo di guerra non è solo un meccanismo militare, ma un gigantesco schema finanziario. Si distrugge per creare debito, si ricostruisce a debito, si privatizza il futuro delle popolazioni colpite e si estrae ulteriore ricchezza da quella sofferenza. Il tutto con il sigillo delle istituzioni internazionali e l’impunità garantita dall’anonimato fiscale.
La mistificazione della democrazia e il ritorno dell’imperialismo razionale
Molti commentatori si ostinano a leggere la geopolitica con lenti morali. L’Occidente combatte per la libertà. La Russia è reazionaria. Israele è una democrazia minacciata. Ma questa narrazione regge solo per chi si ostina a credere che esista un capitalismo buono, pacificato, capace di agire nel nome dei diritti umani.
In realtà, la differenza tra l’imperialismo umanitario dei progressisti e quello brutale dei conservatori è solo di forma, non di sostanza. Il primo lo giustifica con i diritti civili, il secondo con la sopravvivenza della nazione. Ma entrambi servono il medesimo padrone: il capitale in cerca di profitto, ovunque esso possa essere ancora estratto. E ogni nazione che si oppone a questo processo viene indicata come canaglia, terrorista, dittatura.
La Russia e Hamas, per quanto discutibili o contraddittori nella loro azione, non sono i protagonisti del disordine mondiale. Sono il sintomo di un mondo che non riesce più a funzionare senza un nemico permanente. L’Occidente ha bisogno della guerra non solo per i profitti che genera, ma per sopravvivere alla propria agonia economica e al proprio declino di legittimità sociale.
Capitale e democrazia: un divorzio ormai irreversibile
Chi ancora crede che la democrazia sia il contrappeso naturale del capitalismo si aggrappa a un’illusione storicamente superata. Oggi più che mai, la democrazia liberale non è in crisi per eccesso di populismo o per il ritorno dell’autoritarismo, ma perché è diventata del tutto incompatibile con le esigenze strutturali del capitale globale.
Il capitalismo finanziarizzato ha bisogno di governi rapidi, obbedienti, efficienti nel tagliare diritti, nel reprimere il dissenso, nell’adattarsi alle richieste dei mercati. Il tempo della deliberazione democratica è troppo lungo. Il consenso va gestito con l’algoritmo, non costruito nel dibattito. Il Parlamento è teatro, i fondi speculativi sono il vero governo.
In questo contesto, le guerre – reali o simboliche – diventano strumenti essenziali non solo per mantenere il dominio economico, ma anche per neutralizzare la democrazia. Il popolo sotto assedio vota come vuole il potere. E chi dissente, viene isolato, criminalizzato o ridotto al silenzio. La guerra, dunque, non è solo una scorciatoia economica, ma anche una scorciatoia politica per evitare la partecipazione popolare e l’autodeterminazione collettiva.
Non è un caso che proprio nei paesi più attivamente coinvolti nelle guerre globali – dagli Stati Uniti a Israele, dall’Europa orientale all’Italia in versione NATO – assistiamo a un collasso simultaneo delle garanzie costituzionali, dei diritti sociali, della rappresentanza. Il capitalismo in agonia non tollera più neppure la finzione della democrazia.
Conclusione: cambiare sistema o affondare insieme
Di fronte a questo scenario, illudersi che basti votare meglio o cambiare qualche governo per fermare la spirale distruttiva in atto è ingenuo. Non siamo davanti a un problema politico contingente, ma a una crisi strutturale di civiltà. Il capitalismo ha smesso da tempo di essere una forza progressiva. È diventato un cadavere che cammina, che si nutre di corpi e territori, che si protegge con eserciti privati e scudi fiscali.
La democrazia stessa, svuotata della sua sostanza, è oggi ostaggio del capitale. Non decide, non protegge, non rappresenta. È diventata una maschera dietro cui si nasconde un’oligarchia finanziaria che manovra guerre, profitti, disastri climatici, speculazioni e propaganda.
La vera alternativa non è tra guerra o pace, ma tra capitalismo o vita. E chi non ha il coraggio di dirlo, chi cerca ancora un capitalismo etico o verde, chi propone rattoppi progressisti senza mettere in discussione la radice del problema, si fa complice, consapevole o meno, di questa agonia mascherata da civiltà.
La guerra è il linguaggio con cui il capitale grida il suo fallimento. Tocca a noi, ora, imparare a parlare un’altra lingua. Una lingua fatta di giustizia sociale, redistribuzione, partecipazione reale, sovranità popolare. Perché se non cambiamo rotta, l’unica democrazia che ci resterà sarà quella del mercato armato, della moneta anonima, del voto inutile. E sarà troppo tardi.
FONTI PRINCIPALI
• OCSE, Tax Transparency Report 2024
• IMF, World Economic Outlook, April 2024
• OXFAM, Survival of the Richest, 2023
• Zucman, G., The Hidden Wealth of Nations, 2016
• Harvey, D., L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, 2011
• Luxemburg, R., L’accumulazione del capitale, 1913
• Lenin, V. I., L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916
• Naomi Klein, Shock Economy, 2007
• World Bank Data on Capital Flows and FDI (2023–2024)
(*) ripreso da «Un blog di Rivoluzionari Ottimisti. Quando l’ingiustizia si fa legge, ribellarsi diventa un dovere»: mariosommella.wordpress.com