Fare come Pietro Muscari?

di Mauro Antonio Miglieruolo

Nel tempo infausto fra le due guerre – tempo di soprusi, violenze e infamie – abitava in Grotteria (Reggio Calabria) un giovane di nome Pietro Muscari, la cui fama è tutt’ora viva in paese. Mi è capitato infatti di sentir dire, quando la conversazione cadeva sulle iniquità che ancora affliggono il mondo, parole mescolate a sospiri di rammarico, letteralmente: bisognerebbe fare come Petru Muscari!

Questo Pietro Muscari, di venti anni circa, gran lavoratore, serio, onesto, buono e cortese con tutti, un vero pezzo di pane, conduceva un grande oliveto per conto del magistrato di Grotteria: piante centenarie alte a volte più di dieci metri, ci si poteva ammazzava scalandole; piante contorte, simbolo vero dell’immortalità (gli olivi, infatti, come la fenice, risorgono instancabilmente dalle loro ceneri. Attaccate dal fuoco, nella parte aerea che sopravvive, può capitare di veder la vita ritornare nell’albero e ricominciare a dare frutti).

La sera, dopo una giornata di lavoro, impegnato a zappare il piccolo orto che aveva ricevuto in affitto e a tenere pulito l’oliveto, all’imbrunire tornava in paese; ma non nell’abitudine dei tanti che s’incanaglivano nelle osterie. Di corsa a casa, cenare, scambiare due affettuosità con la madre e darsi quindi a un sonno ristoratore, unico compenso di tante sue fatiche.

Cenare? Una cena povera di cui ben volentieri si contentava. Ringraziando ogni volta il Signore Dio Padre che aveva aggiustato le cose in modo la potesse consumare. Ringraziando per sé e per la vecchia genitrice. La stessa cena di molti, che insieme a lui ringraziavano. Non era da tutti poter avere un piatto di suriaca (fagioli) condito con un filo di olio: l’olio che lui stesso contribuiva a produrre.

Una sera però, sedutosi a tavola, immerso il cucchiaio nel piatto di suriaca ancora calda (era appena stata tolta dalla pignatta), notò che non era condita. Probabilmente la madre si era dimenticata del filo d’olio con la quale era quasi d’obbligo insaporirla.

A ma’” disse allora, rivolta alla madre che sembrava in altre importanti faccende affaccendata. “A ma’ e tu scunduta ma duni? (scondita me la dai)”

La madre così come fingeva di essere impegnata finse di non avere udito. Continuò nel suo vuoto girare intorno al nulla.

Pietro allora prese una cucchiaiata di fagiola (anche questo è nome legittimo con il quale indicare il legume) e la portò alla bocca. L’occhio non lo aveva ingannato. Il piatto in effetti non era stato condito.

A ma’, senti a mia,” perorò allora con voce più forte. “A fagiola è scunduta!”

Ancora la madre tentò di fingere di essere in quella sua strana sordità sorta repentinamente. Erano soli nella stanza. La stanza piccola. La voce di Pietro, per quanto rispettosa e carezzevole, non era di quelle che si potessero ignorare. Il giovane intuì che doveva esserci qualcosa che non andava. Che forse la vecchia madre stava male? Il suo inane affaccendarsi però non era da persona malata. A meno che non si trattasse di testa…

Va bene, va bene” disse allora conciliante, per non angustiare ulteriormente la madre. Sprofondata ormai palesemente in un panico del tutto privo d’apparente motivazione. “Ma cundu ‘e:” (me la condisco io)

E bonu, bonu, figghiu,” si decise a parlare finalmente la povera donna. “Mangiatilla com’è. U matinu mi fazzu imprestare nu pocu d’ogghiu e ta cundu. (Mangiale com’è. Domani mattina chiedo in prestito un poco d’olio e provvedo a condirtela)

Ma tu chi dici? Elemosinari nu pocu d’ogghiu? Ma se ‘ndavimo na giarra ‘jhina?” (ma se abbiamo una giara piena?)

La vecchia, un po’ tremante, fu costretta ad ammettere allora quel che non avrebbe mai voluto dire al figlio. Che durante il giorno era venuto il padrone dell’oliveto insieme a un ufficiale giudiziario e aveva opposto i sigilli all’olio che avevano in casa. Nominando per altro custode dei beni sotto sequestro proprio la madre di Pietro Muscari.

Na toccari, figghiu. Na l’apriri. M’arrestano sinnò!”

Pietro Muscari rimase come fulminato. Subito dopo però un secondo fulmine, il fulmine che con rapidità illumina sempre una memoria giovane, pronta nell’indovinare le relazioni tra i fatti e le ragioni di tali relazioni, rammentò la scena di alcune settimane prima, scena alla quale aveva dato poco peso. Essendo che tutto si basava sulla propria parola e su quella di uno stimatore carogna di quelli che per un soldo in più di compenso erano pronti a giurare che Cristo era morto di freddo.

Come ogni anno, il padrone del fondo si era presentato insieme a uno stimatore, per calcolare l’entità del raccolto. Per convenzione la percentuale maggiore dello stesso spettava al padrone, una seconda a colui che i frutti produceva. Non ricordo bene quanto specificamente fosse previsto per un oliveto, mi sembra si tratti del 75 (la parte del padrone/leone) contro il 25 (la parte spettante al lavoratore/agnello: ma non sempre agnello). Lo stimatore aveva sparato una cifra impossibile, considerata tale non solo da Pietro ma, dopo che si seppe, dall’intero paese. Contro la quale aveva opposto, tranquillamente, la tranquillità dell’uomo forte e giusto, quella più ragionevole deducibile dall’osservazione obiettiva dell’oliveto.

Mannò, mannò,” tentò di correggere quasi ridendo. “Al massimo se ne potranno ricavare 100 tumuna d’ajivi… No, i menu. Novanta, se simu fortunati.” (Tumuna, unità di misura della quale sono costretto a confessare che ignoro l’entità)

Al massimo, dite? Guardate che qui, minimo minimo sono 150 tumuna quelli che verranno raccolti.”

Macché cintocinquanta! non può essere, novanta sunnu.”

150! 150!”

Una pazzia… Se passava quella stima, Pietro Muscari non avrebbe raccolto abbastanza olivi per coprire la sola parte spettante al padrone. Lo fece presente. Lo ribadì. Stimatore e padrone, niente, ostinati nella loro combutta d’estorsione.

Pietro Muscari a sua volta era rimasto fermo sulla propria stima. Dopodiché se erano lasciati, ognuno convinto di dover e poter procedere sulla propria strada. Che si rivelò essere strada di universale perdizione.

Ah!,” pensò allora Petru ricordando. “È accussì, allura…”

Sissignore. Era proprio in quel modo, il modo del mondo di allora. Un modo del tutto storto. Che però non era quello di Pietro, che invece della franchezza, dell’onesta e del decoro aveva fatto il suo credo. Non aveva forse data la sua parola che si trattava al massimo di 90 tumuna? la parola di un galantuomo… Un galantuomo però alle prese con un azzeccagarbugli.

Con una calma, una calma che fece bene al cuore alla madre, la quale temeva se ne uscisse in escandescenze, sedette e ricominciò a mangiare. A fagiola scunduta. Bofonchiando:

Scunduta è, e scunduta ma mangiu.”

Terminato il pasto, con ancora più accentuata calma, calma sospetta, calma eccessiva, dichiarò d’essere stanco e di volersi mettere subito a letto. Raccomandando alla madre di fare altrettanto.

Il povero giovane, è comprensibile, non chiuse occhio. Tutta la notte la scena vera della stima del raccolto e quella immaginata del sequestro, girarono e rigirarono nel suo cervello, trasformando la rabbia crescente in furore. Che verso l’alba mutò in una strana calma d’acqua profonda. Appena prima che sorgesse l’aurora, si armò della doppietta, come dovesse andare a caccia, e si avviò sulla scorciatoia per Mammola, paese vicino famoso per lo stoccafisso, al quale un tempo da Grotteria si poteva arrivare per mezzo di un viottolo che traversava le montagne. Oggi terremoti, alluvioni e trascuratezza umana lo hanno cancellato dal novero delle possibilità.

Proprio quel giorno, quel maledetto giorno, il magistrato aveva un’udienza presso il Tribunale mammulisi (di Mammola); per cui si era messo in movimento anche lui di buon mattino. Trotterellando sulla mula, un inserviente che la guidava per la cavezza, arrivò nel punto scelto da Pietro Muscari per aspettarlo. Veduto assiso il lavorante su un grande sasso, lo riconobbe e curioso chiese cosa facesse lì, a quell’ora di mattina.

Pietro Muscarti si alzò, tutto rispettoso come si conveniva, si tolse persino la scoppola ed educatamente pronunciò, in un semi italiano accettabile, le seguenti poche parole:

Giudice, ieri sera mi avete fatto mangiare a fagiola scunduta. E mo vi cundu ‘e!”

Ciò detto, imbracciando la scopetta fece partire due colpi che bastarono e avanzarono per eliminarlo da questo mondo; costringendolo a trapassare in un altro nel quale immagino sia diventato una sorta di ebreo errante. Dato che, è ipotizzabile, nell’altro nessuno l’abbia voluto per vicino.

Poi, rivolto allo scudiero che aspettava tutto tremante la rosa di pallini che l’avrebbe dovuto spegnere (astutari, si dice), lo rassicurò dicendo, “non ti faccio niente, dai”; e dopo averlo rassicurato, ordinò:

Rimettilo sulla mula, torna in paisi e dinci che stu puorcu ummazzavo ‘e.” (torna in paese e informa che questo porco l’ho ammazzato io)

Ciò detto se ne andò a faticare sul suo picco rettangolo d’orto. E a zappettare il frutteto. Dove infatti lo trovarono, alquanto affaticato, i carabinieri quando vennero ad arrestarlo.

Venti anni di galera, gli affibbiarono (‘nci jettaru). Ma solo perché un bravo avvocato ne prese la difesa a gratis e gli fece ottenere le attenuanti. In galera, dovendo fare i conti con un prepotente che, Pietro tanto giovane, credeva poterlo prevaricare! nel difendersi gli cavò un occhio e ottenne altri otto anni.

Pietro continuò a essere bravo, un po’ meno bravo di prima perché aveva conosciuto la dura iniqua legge dei padroni; nonché quella dei poveri quando si arruolano tra gli imitatori dei padroni. Non lo guastarono né i 24 anni effettivi, né la dura esperienza guastativa della legge.

2

Il peggio però arrivò dopo. Dopo che fu uscito di prigione.

Si era ormai nel pieno dell’epoca in cui Mussolini, oltre a far arrivare in orario i treni (ne ho sempre dubitato) comandava gli italiani e lasciava comandassero gli ingiusti, gli stupidi e i prepotenti; nonché il figlio del magistrato, diventato podestà, in sella a una poltrona, invece che una mula.

Tempi duri, cattivi, tenebrosi. Star male e nemmeno potersi lamentare… Ma se erano brutti un po’ per tutti, per Pietro Muscari erano addirittura pessimi. Non trovava un cane che osasse dargli un lavoro. Nessuno disposto a inimicarsi il potente di turno, un podestà, fiore all’occhiello del regime.

Non gli restava che emigrare. Chiese al comune i documenti per poter partire (so io di cosa ci fosse bisogno all’epoca? Neanche voglio impicciarmi). I documenti però non arrivavano. Passavano le settimane, non passava la fame, sempre più grande, e di partire per l’America non se ne parlava proprio. In Comune quando chiedeva conto del ritardo lo cacciavano in malo modo senza offrire spiegazioni.

Petru Muscari, per sua fortuna, non aveva attraversato le forche caudine del processo e della galera invano. Aveva imparato la lezione. Agire prima, non dopo. Non bisognava dare tempo al ragno di completare la tela, farsene avvolgere.

Una mattina si apposta nelle vicinanze del municipio. Sa che verso le undici il podestà, con il suo comodo, si affaccia da quelle parti. Il Podestà appare e entra in Comune. Pietro aspetta qualche secondo e s’infila dentro a sua volta. Non chiede nulla a nessuno. Va diretto all’ufficio del sindaco. Il quale corrucciato, senza profferire parola, con la sola espressione del viso chiede conto di quell’invasione. C’è ben poco da dire. Il pregiudicato, ormai non più tanto giovane fa parlare i fatti. Mostra ciò che ha nel pugno. Una manciata di polvere e pallini da caccia.

Di questa polvere e di questi pallini, che sono serviti per il padre di vostra eccellenza,” spiega in tono piano, diciamo pure rispettoso, anche se vagamento minaccioso, “ne ho dell’altra in casa…”

E sintetizzando: “Meglio che parto! Molto meglio che parto!”

Il podestà allora si alza di scatto, raggiunge la falange degli impiegati occupatissima a fare niente e grida loro: “subito, i documenti. Dategli quello che vuole!”

Benedetto podestà, non si poteva decidere prima? Ma meglio tardi che mai.

NELLE IMMAGINI – scelte dall’autire – TRE VEDUTE DI GROTTERIA

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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