Cop 30: la fine delle illusioni

di Giorgio Ferrari

Si riuscirà a discutere dei risultati della Conferenza sul clima conclusasi a Belem senza limitarsi ad addossarne il fallimento ai soliti noti?

Gli argomenti per farlo, a mio modo di vedere, non mancano e spero che nell’elencarli non vado ad urtare la suscettibilità di qualcuno.

E’ opinione corrente che la crisi climatica sia la conseguenza più evidente, anche se non la sola, di un modello di sviluppo. Questo modello, basato su produzione e consumo di merci senza limiti, è entrato in crisi già da molti anni anche perché i pilastri su cui si regge sono a loro volta pericolanti: liberismo e democrazia.

Il sistema mondo dominante, uscito dalla seconda guerra mondiale e consolidatosi dopo il crollo dell’Unione sovietica, è fondamentalmente basato su di una conclamata superiorità occidentale, ma questa peculiarità, di cui si sono fatte vanto le classi dirigenti, gli intellettuali e gli scienziati dell’Occidente tutto, è entrata a sua volta in crisi e non credo ci siano dubbi nel ritenere che l’universalismo dei valori occidentali è definitivamente sepolto sotto le macerie di Gaza.

E’ possibile dunque, riflettere sui risultati della Cop 30, senza tener conto delle diverse e convergenti crisi che attraversano questa fase storica, chiamandole per quello che sono?

Crisi di un modello di sviluppo come crisi del capitalismo.

Crisi della democrazia tout court, in quanto alveo naturale del capitalismo più moderno e cassa di compensazione di quel liberismo che non è più in grado di funzionare senza violare le sue stesse regole, dato che nonostante abbia coniugato “la mano invisibile del mercato” con le regole del WTO (organizzazione mondiale del commercio), oggi è tornato a praticare il più vieto protezionismo (i dazi applicati da Stati Uniti ed Europa), rispolverando perfino la “politica delle cannoniere” (Venezuela, Iran). Di qui il conflitto tra liberismo e democrazia, da cui non si esce se non con una ulteriore scadimento di quest’ultima, cosa peraltro avvertibile con le politiche securitarie statunitensi ed europee oltre che dall’attacco al welfare che sta investendo l’Unione europea.

Crisi di identità dell’Occidente, che essendo liberista e capitalista è trascinato dalle loro rispettive criticità, verso scenari di guerra contro nemici inesistenti che attenterebbero alla sua presunta superiorità.

Basta tutto ciò ad illustrare il nesso con l’ennesimo fallimento della conferenza sul clima? Col rischio di risultare pedante, lo ripropongo da un’altra angolatura.

Sono anni ormai che la transizione energetica è stata individuata come unica risposta alla crisi climatica essendo essa entrata a far parte dell’agenda politica, sia degli stati partecipanti alle conferenze sul clima, sia dei movimenti ambientalisti, con la differenza che questi ultimi ne sostenevano e ne sostengono una versione più radicale che sinteticamente rivendica più rinnovabili, messa al bando dei combustibili fossili, giustizia climatica.

Pur volendo trascurare la contraddizione rappresentata dall’aumento esponenziale dell’estrattivismo che essa porta con sé, la transizione energetica – tanto più nella sua versione radicale – non potrà realizzarsi perché i presupposti su cui si è basata fin dall’inizio si stanno rivelando infondati.

L’abbandono dei fossili presuppone uno sviluppo enorme delle rinnovabili che a loro volta presuppongono una quantità di materiali strategici (terre rare e non solo) che – come ho ripetutamente scritto – non è nelle disponibilità di quei paesi e di quei settori industriali che più di altri hanno puntato sulla transizione energetica, comparto politico industriale europeo in primis.

Questo aspetto altro non è che l’ennesima crisi, precisamente crisi da materie prime, che va ad integrarsi con le altre sopra descritte, da cui l’occidente capitalista non riesce a venir fuori a meno di andarsi a prendere queste risorse con la forza.

E’ questo che vogliono i movimenti ambientalisti? Certamente no, ma allora facciamola una riflessione sulla consistenza di questa rivendicazione, di come concettualmente è stata presentata all’opinione pubblica mondiale questa transizione energetica.

In principio fu il verbo degli scienziati, con in testa l’IPCC, a dirci che se non si abbattevano le emissioni il nostro futuro e quello del pianeta sarebbe stato compromesso, al punto che l’IPCC fornì addirittura una condizione limite al riscaldamento globale, peraltro risultata impraticabile (non superare 1,5°C rispetto ai livelli pre industriali). Di qui la scelta di agire esclusivamente sulle emissioni in atmosfera legate al ciclo di produzione e consumo di merci e servizi, senza prendere in alcuna considerazione qualsiasi ipotesi che potesse incidere sul volume e/o quantità di queste attività.

A parte isolate voci, che qualche domanda in proposito se la ponevano, c’è stato tra i movimenti ambientalisti chi abbia messo in discussione l’automobile elettrica? Qualcuno che abbia sollevato il problema del trasporto su gomma (oltre il 90% del totale), che abbia posto l’accento sulla sovrapproduzione di merci in genere o che abbia adombrato -per esempio- l’idea di eliminare/ridimensionare l’uso della plastica? Per carità non metto in dubbio che qualcuno si sia speso in tal senso o che singole prese di posizione siano avvenute, ma il messaggio globale dei movimenti di massa è stato ed è ristretto alla fuoriuscita dal fossile, cioè a dire che con l’esclusione dei combustibili fossili, tutte le altre pratiche che caratterizzano questo modello di sviluppo non venivano messe in discussione.

A compimento della Cop 30 capita di leggere sulla stampa di sinistra o anche ambientalista che le petromonarchie avrebbero imposto il loro punto di vista e di conseguenza se la transizione è abortita (perché poi di questo si tratta) è colpa dei soliti noti. Come dire che una parte del capitalismo tiene in ostaggio il mondo intero vanificando le buone intenzioni di un’altra parte del capitalismo (quello che ha scommesso sulla transizione).

Ma la crisi delle materie prime c’è o non c’è? E quella dell’auto elettrica? La lievitazione dei costi di costruzione/installazione delle rinnovabili in Europa e la concorrenza cinese in questi settori esiste oppure no, e in che misura incide?

Non ci si può esimere dal prendersi carico di questi aspetti se fin dall’inizio si è avanzata una richiesta che tacitamente li comprendeva tutti, perché questo è successo: si è chiesto al capitalismo di fare una scelta senza mettere in discussione il suo modo di essere, dato che, in fin dei conti, la transizione energetica – persistendo determinate condizioni di mercato – si presentava come una grande opportunità economica ed ora che queste condizioni sono saltate, nonostante i cospicui contributi statali, pretenderemmo che i padroni continuino ad investire nella transizione energetica anche a costo di rimetterci? Vero è che i padroni tendono a mentire sui bilanci delle loro imprese, ma questo era vero anche quando ci si è limitati a chiedere che per risolvere la crisi climatica cambiassero solo il modo di sfruttamento dell’energia, lasciando inalterato il modo di produzione capitalista

Le crisi di cui ho accennato sopra non sono di quelle che consentono una lettura in chiaro scuro della fase attuale, essendo che i margini di manovra per uscirne senza ricorrere alla guerra, si fanno sempre più ristretti per tutti, capitale compreso. Questo è particolarmente vero per quell’ambientalismo che ha sempre preteso di rigettare certi frutti del capitalismo senza metterne in discussione l’esistenza.

Sarebbe tempo di prenderne atto e di chiamare le cose con il loro nome senza aver paura delle parole. La crisi climatica va denunciata senza mezzi termini come conseguenza del sistema capitalista e non addebitata al comportamento di un indistinto “uomo” come fa l’Antropocene o ad un’altra altrettanto indefinita industrializzazione. Quanto alla sopravvivenza del pianeta e dell’umanità, questa non si persegue con la fuoriuscita dal fossile, ma convincendo la gente che ciò da cui bisogna uscire è il capitalismo e nello stesso tempo impegnarsi non per un’altro generico “mondo possibile”, ma per una società che senza troppi giri di parole, non può che chiamarsi socialista.

Se poi c’è ancora qualcuno che ha paura di questa parola o che la ritiene desueta o fuori luogo, si chieda come mai nella città che per antonomasia è simbolo del capitalismo, ha vinto il candidato che si è dichiarato socialista e con un programma che prevede il salario minimo a 30 dollari/ora; trasporti gratis e affitti calmierati per le classi meno abbienti e tasse maggiorate per i ricchi.

LA VIGNETTA – scelta dalla redazione della “bottega” – è rubata a MAURO BIANI.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *