Due marziani in dialogo: Jorge Luis Borges e Ray Bradbury
Fabrizio Melodia – noto come Astrofilosofo – passeggia nella puntata 177 di «Ci manca(va) un Venerdì» discutendo con Kant, Montaigne e Rat-Man.
«Cosa ha fatto quest’uomo dell’Illinois (…) per riempirmi di orrore e solitudine con gli episodi di conquista di un altro pianeta?» rifletteva Jorge Luis Borges mentre scriveva il prologo a un’edizione latinoamericana dei racconti di Ray Bradbury, le famose «Cronache marziane».
L’uomo dell’Illinois era appunto Bradbury: aveva suscitato sentimenti di sgomento nello scrittore argentino. Se si pensa all’essere umano rappresentato da Borges nei suoi racconti – perduto in un labirinto inestricabile, costretto a replicare all’infinito e in modo periodico, ciò che è stato fatto – viene più di un brivido mettendolo a confronto con l’umanità descritta da Bradbury in alcuni dei più bei racconti della raccolta. Vorrei solo ricordare come “Il verde mattino” racchiuda in sè la speranza che gli esseri umani non arrivino su Marte solo per depredarlo ma per ristabilire un ecosistema che permetta a tutti di vivere di nuovo a contatto con la natura.
Tale “homo novus” auspicato da Bradbury lascia in Borges? O forse la solitudine dello scrittore cieco ha radici più profonde?
Il filosofo Immanuel Kant, nella famosa «Critica della ragione pratica», ci regala un piccolo suggerimento: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io invisibile, dalla mia personalità e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza ma che solo l’intelletto può penetrare e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria».
Ecco come Borges potrebbe aver percepito quella terribile solitudine di un viaggio alla conquista di mondi lontani. Come se fosse impossibile anche solo pensare di conquistare ciò che è infinito per definizione e quindi fuggevole all’uomo? Ma nonostante questo, cosa c’è di più borgesiano nel non arrendersi a un destino che nullifica e umilia per andare oltre, persino verso una follia di conquista? Ben sapendo che la solitudine possa giocare brutti scherzi, sappiamo quanto Kant vedesse nell’uso eroico della ragione e non della violenza la vera natura dell’uomo, mentre Borges vedeva nei rivoluzionari quella forza eroica ma destinata al fallimento.
E forse Borges si era già risposto, quando concludeva in questo modo uno dei suoi racconti più famosi e inquietanti, «La biblioteca di Babele»: «Forse mi inganneranno la vecchiaia e la paura, ma sospetto che la specie umana – l’unica – stia per estinguersi e che la Biblioteca sia destinata a permanere: illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta.
Ho appena scritto infinita. Non ho interpolato quell’aggettivo per un’abitudine retorica; dico che non è illogico pensare che il mondo sia infinito. Coloro che lo ritengono limitato, sostengono che in luoghi remoti i corridoi e le scale e gli esagoni possono inconcepibilmente finire – il che è assurdo. Coloro che lo immaginano senza limiti dimenticano che è limitato il numero possibile dei libri. Io mi arrischio a insinuare questa soluzione dell’antico problema: la biblioteca è illimitata e periodica. Se un eterno viaggiatore l’attraversasse in qualunque direzione, verificherebbe alla fine dei secoli che gli stessi volumi si ripetono nello stesso disordine (che, ripetuto, sarebbe un ordine: l’Ordine). La mia solitudine si rallegra di questa elegante speranza».
E’ dunque vero che gli astronauti lanciati alla conquista sono come solerti bibliotecari che percorrono fino a perdersi gli illimitati e periodici corridoi del cosmo? E se essi già fossero a conoscenza di ciò che è avvenuto, avendo percorso tempo prima i corridoi? Se ogni libro di fantascienza non fosse altro che un ripetersi di altri che già hanno ripetuto loro stessi in passato e lo faranno ancora nel futuro?
Marte è già stata conquistata o invece è la Terra ad essere stata una (sfortunata?) colonia di Marte?
In conclusione affidiamoci al filosofo francese Michel de Montaigne: «Abbiamo un’anima capace di ripiegarsi in se stessa: può farsi compagnia, ha i mezzi per assalire e per difendere, per ricevere e per donare; non dobbiamo temere di marcire d’ozio noioso in questa solitudine».
Una riflessione che, in tempi post coronavirus e/o di solitudini forzate con depressione annessa, potrebbe essere un farmaco salvavita da istinti suicidi. Senza dimenticarci del noto personaggio dei fumetti, creato da Leo Ortolani, il buon Rat-Man: «“Cos’è la solitudine?” domando. Ma nessuno mi risponde».