Extraprofitti e rinnovabili: perchè l’Italia non nazionalizza?

di Mario Agostinelli

Ben 328 miliardi di euro di ritorni economici, accanto alla creazione di oltre 2 milioni di posti di lavoro e al risparmio di 614 miliardi in ambito sanitario e produttivo. Ma, soprattutto, la possibilità di aumentare la sicurezza energetica nazionale, tagliando la spesa fossile di 1.914 miliardi di euro con l’obiettivo da raggiungere le zero emissioni al 2050. A calcolarli è “Net Zero E-conomy 2050“, lo studio redatto da Enel Foundation e The European House – Ambrosetti e presentato in occasione del forum di Cernobbio (https://www.ambrosetti.eu/).

Lo studio mette in evidenza molto chiaramente la eccessiva dipendenza dell’Italia dal gas e i vantaggi molto evidenti che una “riduzione accelerata dell’uso delle fonti di energia fossile può portare proprio a chi oggi ne fa un uso smodato” come ha affermato Francesco Starace, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Enel. Anche queste voci autorevoli sono però oscurate dalla politica nostrana, che ha nel gas e nel possibile ripristino del carbone la carta che preferisce adottare in emergenza.

Purtroppo, sul fronte delle energie rinnovabili, l’Italia è attualmente ancora lontano dal target 2030 (otto punti percentuali dall’obiettivo di portare al 30% le FER nei consumi finali). La situazione peggiora se si proietta lo sguardo al 2050, quando il gap tra risultati raggiunti e zero emissioni nette dovrebbe salire a 60,7 punti, stando all’attuale trend. La cosa stupefacente è che il bilancio di riduzione di spesa sarebbe favorevole sulla base di investimenti per 3.351 miliardi di euro; una spesa ben al di sotto di quella richiesta da minori ambizioni climatiche ed energetiche, grazie ai maggiori vantaggi sociali, economici, ambientali e di salute.

Francesco Starace ha già spinto per la soluzione ad eolico galleggiante a Civitavecchia al posto di un turbogas da 1860 MW.

Ma quale piano avrà il Governo? Quali sono gli interessi allora che bloccano questa direzione della transizione energetica?

La verità è che l’invasione dell’Ucraina e la pratica delle sanzioni hanno sconvolto completamente il mercato energetico, ritardando l’introduzione delle rinnovabili e facilitando una speculazione inedita sul mercato dei fossili provenienti da sorgenti sempre più lontane e con trasposto di metano liquefatto da Paesi poco affidabili, per cui l’ENI non viene certo messa in ansia da Draghi e Cingolani (che hanno steso i contratti sul gas sotto la supervisione di Descalzi!).

La generalizzazione del riarmo imposta dagli Stati Uniti ai paesi della NATO non significa semplicemente che l’economia di guerra costituisca la continuazione e il prolungamento dell’economia di mercato che si è drammaticamente inceppata. Significa che i blocchi si ricostruiscono non più su basi prevalentemente ideologiche, ma che – mentre geopolitica e biosfera si toccano da vicino – i limiti ecologici del sistema Terra impongono una riconversione della merceologia e della geografia delle fonti energetiche. Questo era richiesto dalla Cop di Parigi, ma in forma di cooperazione, non di conflitto militare. Una riconversione energetica che blocchi le emissioni climalteranti non può nascere certo solo interrompendo nell’immediato la dipendenza dell’Unione Europea dai fossili di Eurasia e, contemporaneamente, avvicendando la provenienza delle fonti – ancora! – di gas, petrolio e carbone dalle sponde atlantiche e mediorientali, a costi più alti e con sprechi energetici più elevati. Le proposte approvate prevedono un aumento di combustione di carbone, la riattivazione e la prospezione di nuovi giacimenti di metano, il potenziamento e la costruzione di nuovi gasdotti nonché l’ancoraggio nei porti di navi e rigassificatori con l’importazione di pari quantità di combustibili da Paesi di non comprovata affidabilità.

Quel che nei fatti si vuole, è che l’indispensabile riconversione alle rinnovabili ritardi il più possibile e, per il futuro, l’Europa non diventi dipendente dalle tecnologie cinesi (solare, fotovoltaico, batterie elettriche e idrogeno) che le permetterebbero di cogliere gli obbiettivi del Green New Deal cambiando volto al mercato.

Contrariamente alla politica succube degli stati Uniti, la Germania ha annunciato lo stanziamento di 200 miliardi di euro da investire nella conversione energetica rinnovabile entro il 2026. I fondi dovranno essere impiegati per stazioni di ricarica per i motori elettrici, impianti di creazione di idrogeno, oltre che per calmierare l’aumento dei prezzi energetici, con un intervento pubblico consistente.

Infatti, la crisi energetica ha portato alla decisione tedesca di nazionalizzare Uniper, il principale fornitore di gas per la Germania. Berlino, infatti, punta a controllare il 98,5% della società. A cosa è dovuta la mossa della Germania?

Il problema è che Uniper in questi mesi ha accumulato circa 8 miliardi e mezzo di perdite legate al gas, perché le interruzioni delle forniture russe hanno costretto la società a comprare combustibile fossile da altri esportatori, principalmente Gnl via nave, a costi molto più alti.

Di conseguenza, Uniper, diventata pubblica sarà in grado di assicurare la sicurezza degli approvvigionamenti energetici al Paese.

Berlino intende così prendere in mano direttamente la compagnia e garantire maggiore stabilità ai mercati energetico almeno fine del 2022. Anche la Francia si sta muovendo per nazionalizzare ulteriormente EDF. Da noi nulla di tutto questo: gli extraprofitti di ENI vanno in gran parte agli azionisti privati, mentre le bollette di famiglie e imprese crescono senza sosta.

 

 

Redazione
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