Niente di nuovo sul fronte Palestina-Israele…

… all’ombra degli Usa (Biden o Trump cambierà poco)

articoli di Gideon Levy,Chiara Cruciati, Chef Rubio, Antonio Mazzeo, Miko Peled, Michele Giorgio, BDS Italia, Gideon Levy,  Mohammed Hanif

Maher al Akhras (foto B’Tselem)

 

I 100 giorni di Maher, il digiuno più lungo. L’Onu a Israele: liberalo

di Chiara Cruciati (quotidiano “il manifesto”)

«A causa della carenza di sali e fluidi nel suo corpo, Maher ha crisi frequenti, mal di testa acuti, vista e udito deboli, oltre a un forte dolore in tutte le parti del corpo, in particolare al petto». Così lunedì  Addameer, storica ong palestinese per la tutela dei prigionieri politici, descriveva le condizioni fisiche di Maher al-Akhras. Detenuto in un carcere israeliano dal 27 luglio scorso, Maher non tocca cibo da allora. Due giorni fa sono trascorsi 100 giorni dall’inizio dello sciopero della fame del 49enne, sei volte padre, allevatore di Silat al Daher (vicino Jenin), ricoverato da settimane nel centro medico Kaplan della prigione israeliana di Ofer.

La situazione sta degenerando, avvertono da tempo i palestinesi, alla cui voce si sono unite negli ultimi giorni anche quelle delle istituzioni internazionali. Il 23 ottobre scorso il relatore speciale delle Nazioni unite per Israele e Palestina, Michael Lynk, ne ha chiesto l’immediato rilascio per la mancanza di accuse chiare contro di lui, mentre la Ue si è detta preoccupata per l’uso eccessivo della detenzione amministrativa da parte israeliana.

Una settimana fa era stato l’inviato speciale Onu Nickolay Mladenov a riportare al Consiglio di Sicurezza la necessità di fare pressioni su Israele per cessare il ricorso alla misura cautelare.

Quindi è intervenuto Osama Saadi, deputato della Knesset israeliana per la Lista araba unita: «Lo sciopero di al-Akhras è diverso dai precedenti. Rifiuta le vitamine, il sale e ogni forma di trattamento medico. È il più lungo sciopero di questo tipo».

Da Israele, al momento, non giungono aperture: lo scorso 25 ottobre la Corte suprema israeliana ha rigettato l’appello presentato dall’avvocato di al-Akhras per un rilascio immediato. O meglio, ha mosso una sorta di controproposta: il congelamento dell’ordine di detenzione amministrativa (che dovrebbe scadere il prossimo 26 novembre) ma non la sua cancellazione.

Il significato lo spiega, ancora, Addameer: «La decisione della Corte non elimina il rischio di un rinnovo dopo la scadenza dei quattro mesi di detenzione amministrazione e dimostra l’intenzione di prolungare la detenzione a ogni costo». Da cui la decisione di Maher di continuare a rifiutare il cibo, per uscire dal circolo vizioso del carcere: dal 1989 al-Akhras è stato arrestato quattro volte e ha speso in detenzione amministrativa quasi cinque anni della sua vita. Stavolta l’accusa è di essere un membro della Jihad Islamica, accusa che lui rigetta.

La richiesta dell’uomo è la stessa dal 27 luglio: la fine della sua detenzione amministrativa e dell’uso strutturale della misura da parte di Israele. Introdotta nel 1967 e ripresa dal sistema legislativo del mandato britannico, la detenzione amministrativa permette il carcere senza processo e senza accuse formali, ordinata dall’esercito sulla base di file segreti in cui si dice convinto dell’insita pericolosità di una persona nei confronti dello Stato di Israele.

Una minaccia teorica che si traduce nel carcere a tempo indeterminato: l’ordine di detenzione amministrativa è rinnovabile senza limiti, per questo il diritto internazionale ne autorizza l’uso solo per tempi brevi e in caso di estrema emergenza. Il caso di Maher non è affatto un’eccezione, dal 1967 – anno di inizio dell’occupazione israeliana di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est – Israele ha emesso oltre 50mila ordini di detenzione amministrativa.

A oggi sono 350 i detenuti amministrativi palestinesi. Negli ultimi due decenni in media ogni mese 400-500 palestinesi ne sono stati vittima, raggiungendo i picchi nei primi Duemila, durante la Seconda Intifada, con oltre mille casi al mese.

Come non è un’eccezione la protesta, collettiva e individuale. Il movimento dei prigionieri palestinesi, a partire dagli anni Settanta, ha fatto dello sciopero della fame una delle sue armi principali, capace di sottrarre all’occupazione militare il monopolio della violenza e il controllo dei corpi. È da allora che nelle celle inizia una battaglia nuova per il rispetto dei diritti umani e il riconoscimento della prigionia politica.

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Comunicato di BDS Italia sulla visita del Ministro degli Affari Esteri in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati

BDS Italia esprime forte preoccupazione e condanna per le dichiarazioni fatte dal ministro degli esteri Luigi Di Maio nel corso e a conclusione della visita ufficiale in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati nei giorni 29 e 30 ottobre e denuncia la continuazione di una politica di complicità con i crimini di Israele da parte dell’Italia.

3 novembre 2020

Durante la sua visita, scarsamente coperta dai media sia italiani che israeliani, il ministro ha sottoscritto e rinnovato accordi con Israele di cooperazione commerciale e di ricerca in settori strategici, inclusa la ricerca “scientifica”. Secondo Di Maio l’obiettivo è “accrescere il nostro interscambio commerciale, rafforzare la cooperazione nei settori più innovativi e incoraggiare le nostre imprese ad essere più presenti sul mercato israeliano”.

Mostrando una preoccupante non conoscenza della realtà politica medio orientale, il ministro ha ribadito l’importanza degli “Accordi di Abramo”, siglati da Israele con alcuni paesi arabi (UAE, Bahrein e Sudan) con l’obiettivo di rafforzare l’alleanza militare contro l’Iran e indebolire il sostegno alla causa palestinese, affermando che “la loro firma, è un contributo positivo verso la pace e la stabilità in Medio Oriente”, in quanto “questa normalizzazione contribuirà a creare nell’area condizioni di stabilità, dialogo e sviluppo condiviso favorevoli al riavvio di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi con la prospettiva di una soluzione a due Stati giusta, sostenibile e praticabile”

Tali dichiarazioni sono in linea con la presa di posizione benevola nei confronti del cosiddetto “Accordo del Secolo” di Trump che Di Maio definì “uno sforzo per la pace”, ignorando il fatto che fosse stato elaborato alle spalle del popolo palestinese e della sua rappresentanza politica e aprisse la strada al riconoscimento formale della annessione di fatto da parte di Israele di larghe porzioni di territorio palestinese che continua da decenni.

Di Maio, che nel 2016, prima delle elezioni politiche, si professava convinto sostenitore dei palestinesi e addirittura promise il riconoscimento dello Stato di Palestina quando il M5S sarebbe arrivato al governo, in occasione della visita ha accuratamente evitato di parlare delle violazioni israeliane dei diritti umani e del diritto internazionale nei confronti dei palestinesi. Ha però “esortato la parte palestinese ad accelerare sul percorso di pace”, che significa implicitamente l’accettazione del piano Trump.

Di Maio ha confermato ancora una volta la politica di complicità dell’Italia nei confronti del regime israeliano di occupazione militare, colonizzazione e apartheid, anteponendo accordi commerciali e di cooperazione militare e nel settore della sicurezza al rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale.

BDS Italia rilancia l’appello della società civile palestinese per sanzioni mirate immediate, incluso un embargo militare, contro l’annessione e l’apartheid, e invita a rafforzare le campagne BDS verso Israele fino a quando continueranno le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale nei confronti dei palestinesi.

BDS Italia

BDS Italia è un movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’occupazione e l’apartheid israeliane, costituito da associazioni e gruppi in tutta Italia che hanno aderito all’appello della società civile palestinese del 2005 e promuovono campagne e iniziative BDS a livello nazionale e locale. Il movimento BDS sostiene la parità di diritti per tutte e tutti e perciò si oppone ad ogni forma di razzismo, fascismo, sessismo, antisemitismo, islamofobia, discriminazione etnica e religiosa.

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I sindacati britannici si impegnano a sfidare l’apartheid israeliana

Una mozione del British Trade Union Congresso, che esorta i membri a “unirsi alla campagna internazionale per fermare l’annessione e porre fine all’apartheid”, potrebbe incoraggiare i sindacati di tutto il mondo a svolgere un ruolo importante nel movimento di solidarietà internazionale alla Palestina come hanno fatto contro l’Apartheid in Sud Africa.

Il 15 settembre, il Congresso annuale del Congresso sindacale (TUC) in rappresentanza di quasi 6 milioni di membri nel Regno Unito ha adottato una mozione che ha riaffermato la sua solidarietà con la lotta del popolo palestinese per il diritto all’autodeterminazione, condannando l’occupazione e l’espansionismo politiche del governo israeliano.

La risoluzione esprimeva una netta opposizione alle ambizioni annessioniste del governo Netanyahu, sostenuta dall’amministrazione degli Stati Uniti e chiedeva la fine della complicità del governo britannico. Chiedendo la cessazione del blocco di Gaza e il sostegno per “il diritto dei profughi palestinesi al ritorno”, ha impegnato il TUC a “comunicare la sua posizione a tutti gli altri centri sindacali nazionali nelle Confederazioni sindacali internazionali ed europee e esortarli ad aderire la campagna internazionale per fermare l’annessione e porre fine all’apartheid”.

Ciò che è distinto nella risoluzione è che, chiedendo la fine dell’ “apartheid”, identifica le pratiche dello Stato israeliano nei confronti del popolo palestinese come istituzionalmente discriminatorie, sfidando così la normalizzazione delle relazioni attualmente adottata ad esempio dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein e promossa dalla Casa Bianca.

L’internazionalismo ha una lunga tradizione nel movimento sindacale britannico. Negli anni ’60 dell’Ottocento, i lavoratori delle cartiere nell’area di Manchester si rifiutarono di lavorare con il cotone importato dagli stati meridionali degli Stati Uniti prodotto dal lavoro degli schiavi, nonostante le difficoltà subite dalle loro famiglie. I volontari, molti del movimento sindacale, hanno combattuto nella guerra civile spagnola contro i fascisti. Negli anni ’60, i sindacalisti furono tra i primi a rispondere all’appello dell’African National Congress per il boicottaggio del Sud Africa. È questa tradizione che trova eco nella solidarietà espressa verso il popolo palestinese.

Se attuata, la decisione del TUC potrebbe dare un contributo significativo alla costruzione del movimento di solidarietà internazionale e incoraggiare i sindacati di tutto il mondo a svolgere un ruolo importante nella campagna come hanno fatto nella campagna contro l’Apartheid in Sud Africa.
L’impegno del TUC è stato, nel corso di molti decenni, il prodotto del lavoro dei sostenitori della Palestine Solidarity Campaign e dei sindacalisti. I sindacati sono stati importanti per aver coinvolto milioni di persone nella campagna per la giustizia per i palestinesi. Inoltre, i sindacati sono significativi perché alcuni sono affiliati al Partito Laburista, potendo quindi dare un contributo vitale per garantire che la voce dei palestinesi e dei loro sostenitori affinchè non venga messa a tacere dagli apologeti pro-Netanyahu all’interno del Partito stesso.

Per più di tre decenni, questo lavoro ha portato ad un mutamento in Palestina che è la preoccupazione di una piccola minoranza, con un sostegno schiacciante nei sindacati. Mentre all’inizio degli anni ’90 si sono verificati progressi con un piccolo numero di sindacati, il sostegno della maggioranza dei sindacati è stato rafforzato dall’adozione di una mozione nel 2006 che ha fissato l’agenda politica per gli anni successivi.

La mozione, promossa dal Sindacato dei Vigili del Fuoco, ha espresso sostegno a:

  • il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione;
  • il diritto dei profughi palestinesi a tornare in patria;
  • il ritiro delle truppe israeliane da tutti i territori occupati;
  • la rimozione del “muro dell’apartheid” costruito illegalmente.

Fin dall’inizio il TUC ha incoraggiato tutti i suoi sindacati ad affiliarsi alla Palestine Solidarity Campaign (PSC) e, da quella data, ci sono state innumerevoli riunioni di rami sindacali che hanno ascoltato delegazioni palestinesi e britanniche di ritorno che discutevano della situazione del popolo palestinese. Centinaia, se non migliaia, di sindacalisti hanno visitato la Palestina storica, incontrando lavoratori, comunità e attivisti per informarsi meglio sulle questioni derivanti dalle azioni brutali dello Stato israeliano e dei suoi militari. Questi viaggi hanno incluso l’incontro con una vasta gamma di attivisti palestinesi e la visita a molti campi profughi, centri culturali, scuole, università, persone che devono affrontare demolizioni di case, bambini prigionieri, membri di comunità beduine e attivisti palestinesi all’interno di Israele.

Questa importante coorte che porta la propria conoscenza diretta della situazione è diventata sostenitrice effettiva della causa palestinese ed attiva nelle azioni avviate dalla PSC. Ove possibile, hanno cercato di sviluppare questa solidarietà politica in azioni pratiche di sostegno umano.

I sindacati sono stati coinvolti a livello centrale nella campagna contro tutte le forme di razzismo, inclusa l’islamofobia e nel sostegno alle mobilitazioni attorno a Black Lives Matter. Allo stesso tempo, coloro che sostengono i palestinesi capiscono che non c’è contraddizione tra l’opposizione militante all’antisemitismo pur mantenendo una posizione di sostegno intransigente per i diritti dei palestinesi oppressi.

La sfida ora è continuare a sviluppare questo lavoro, invitare il Partito Laburista ad appoggiare questa campagna, chiedere ai governi britannici di porre fine alla loro complicità con l’oppressione del popolo palestinese da parte del governo israeliano e rifiutare l’intervento del presidente Trump o di qualsiasi futura amministrazione degli Stati Uniti per contrastare il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.

Trad: Lorenzo Poli (“siamo realisti, esigiamo l’impossibile” – Invictapalestina.org)

 

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“Il peccato genera il peccato:” La caduta di Jeremy Corbyn avrà ripercussioni in tutto il mondo – Miko Peled

Non ci sono dubbi sul fatto che l’estromissione di Jeremy Corbyn dal Partito Laburista britannico sia stata il risultato di una strategia ben pianificata da una coalizione di organizzazioni sioniste, compreso il Ministero degli Affari Strategici dello stato di Israele. E mentre Corbyn senza dubbio non è antisemita, né razzista in termini di modo o forma, ha commesso un colossale errore di valutazione. Non ha combattuto la propaganda sionista intrapresa contro di lui né ha combattuto le oltraggiose accuse di antisemitismo che sono state rivolte a lui e a tanti altri meritevoli membri antirazzisti del suo partito.

L’IHRA

Israele è uno stato razzista e violento che vende enormi quantità di armi sofisticate ai regimi più oscuri della terra. Detiene migliaia di prigionieri politici, nega alle persone acqua, cibo, cure mediche e persino la maggior parte delle libertà fondamentali, semplicemente perché sono palestinesi.

Al fine di proteggere il paese da coloro che avrebbero denunciato il razzismo e la violenza, l’International Holocaust Remembrance Alliance, o IHRA, ha creato quella che chiama una definizione tattica di antisemitismo. È una nuova definizione pensata per proteggere Israele dai suoi critici.

La domanda che viene subito in mente è cosa non andava nella “vecchia” definizione di antisemitismo che definiva l’antisemitismo come razzismo contro gli ebrei. La risposta: non era abbastanza ampia da includere Israele o il sionismo. Poiché Israele è uno dei principali violatori del diritto internazionale e dei diritti umani e lo è stato sin dalla sua istituzione nel 1948, aveva bisogno di una sorta di protezione globale che lo tutelasse e raffigurasse i suoi crimini come difesa degli ebrei. Aveva anche bisogno di uno strumento che potesse attaccare i suoi critici trasformando il termine antisemitismo in un’arma.

Nel tentativo di fondere l’antisemitismo (o razzismo) con la critica e il rifiuto del sionismo, che di per sé è un’ideologia razzista, l’IHRA ha rilasciato la sua “definizione tattica di antisemitismo”. Questa definizione è un meccanismo piuttosto sofisticato che fornisce una protezione globale per i crimini del governo israeliano. Se rifiutare il sionismo è antisemitismo, come afferma la nuova definizione, allora tutti i critici di Israele possono essere etichettati come razzisti e il cosiddetto “Stato ebraico” può affermare di essere vittima del razzismo.

Come pregiudicare una discussione 

Le seguenti parti della nuova definizione dell’IHRA toccano lo stato di Israele stesso. Sono scritti in un modo che colloca chiunque rifiuti la loro premessa dalla parte “sbagliata” della questione. Il problema non è mai l’argomento, ma piuttosto come affrontarlo. Ecco alcuni esempi.

“Accusare gli ebrei come popolo, o Israele come stato, di aver inventato o ingigantito l’Olocausto”.

Questa definizione in realtà non affronta la negazione dell’Olocausto. Il problema qui è che i sionisti hanno la loro versione di ciò che è avvenuto durante l’Olocausto e non vogliono che venga contestata.

Secondo la versione sionista degli eventi, la creazione dello stato di Israele fu la risposta all’Olocausto, anche se la maggior parte dei sopravvissuti all’Olocausto inizialmente scelse di non trasferirsi nel nascente stato e molti rifiutarono del tutto l’ideologia sionista. I sostenitori di Israele vogliono anche associare la resistenza palestinese all’invasione israeliana con il nazismo, e confondere il rifiuto palestinese del suo diritto di esistere sulla loro terra con il desiderio nazista di eliminare il popolo ebraico

Gli apologeti di Israele vogliono anche mettere a tacere qualsiasi discussione sull’Olocausto con cui non si sentono a proprio agio. I tentativi di salvataggio messi in atto da organizzazioni ebraiche non sioniste sulla scia dell’Olocausto sono stati infine sventati da gruppi sionisti, e discutere l’argomento spesso scatena accuse di antisemitismo. È interessante notare che la maggior parte, se non tutti gli ebrei con cui ho parlato, le cui famiglie sono morte durante l’Olocausto, non vedono alcun problema nel discutere certe questioni. Durante una conversazione che ho avuto con il rabbino Dovid Feldman di Monsey, New York, il rabbino ha chiesto: “perché non dovremmo discutere di tali questioni?”

“Accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele, o alle presunte priorità degli ebrei in tutto il mondo, che agli interessi delle loro stesse nazioni”.

Secondo la rigida legge ebraica, gli ebrei devono essere cittadini leali in qualunque paese risiedano e, a causa della natura razzista e violenta dello stato di Israele, sostenerlo è una violazione del diritto internazionale e, in alcuni paesi, contravviene alle leggi nazionali. Fornire al governo israeliano armi e finanziamenti viola persino la legge statunitense a causa del suo uso delle armi contro civili disarmati.

Le organizzazioni sioniste che esercitano pressioni sui loro governi, rappresentanti eletti e organizzazioni civiche per sostenere Israele stanno, infatti, ponendo il governo israeliano al di sopra degli interessi, e delle leggi, dei paesi in cui vivono.

I cittadini ebrei provenienti da paesi occidentali si offrono persino volontari per prestare servizio nell’esercito israeliano, un esercito il cui scopo di fatto è l’oppressione, l’espropriazione e l’uccisione (o in altre parole, imprimere il terrore) del popolo palestinese. Non si tratta quindi del popolo ebraico in generale, ma dei sionisti in particolare.

“Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele è un progetto razzista”.

Per cominciare, Israele non è un’espressione dell’autodeterminazione ebraica, è un’espressione dell’autodeterminazione sionista e israeliana.  Il popolo ebraico ha storicamente rifiutato il sionismo e ci sono ancora grandi comunità e innumerevoli individui che lo fanno oggi. I tentativi dell’IHRA di confondere il sionismo con il giudaismo sono evidenti.

Per quanto riguarda il fatto che Israele sia un’istituzione razzista, immediatamente dopo la sua creazione, Israele ha brutalmente costretto i palestinesi a lasciare il loro paese e li ha sostituiti con migranti ebrei provenienti da tutto il mondo. Israele si è impossessata della terra, le case, la proprietà privata e comune, i campi coltivati, i raccolti, i macchinari, il bestiame e persino i conti bancari dei palestinesi epurati. Impedendo poi il loro ritorno.

I palestinesi diventarono apolidi praticamente dall’oggi al domani, mentre il nuovo stato si arricchiva con oggetti, denaro e beni rubati. Israele ha quindi definito la cittadinanza nello stato appena creato come quasi esclusivamente per gli ebrei. Questa definizione ha lo scopo di proteggere Israele criminalizzando coloro che osano affermare che si tratta di un’istituzione razzista.

“Applicare doppi standard richiedendo un comportamento non previsto o richiesto da qualsiasi altra nazione democratica”.

Questa accusa è poco più che un tentativo di mettere a tacere i critici di Israele chiedendo: “perché non criticate anche l’Arabia Saudita?” L’idea che si debba elencare ogni paese che viola i diritti umani quando si parla di qualche altro regime accusato di violarli è assurda. È un tentativo di spostare il dibattito dalla questione dei crimini israeliani e del razzismo sionista.

In breve, la nuova definizione di antisemitismo dell’IHRA include quasi tutto ciò che i sionisti sono stati accusati di fare e definisce anche questo fatto indicandolo come antisemitismo.

“Il peccato genera il peccato”

Una cosa tira l’altra, o come dicono gli ebrei, “Il peccato genera il peccato”. Il peccato qui non è l’antisemitismo, ma la capitolazione delle forze progressiste antirazziste di fronte a un’evidente campagna diffamatoria di uno stato razzista e delle istituzioni che lo rappresentano nel Regno Unito.

Il Consiglio dei Deputati degli ebrei britannici afferma di rappresentare tutti gli ebrei nel Regno Unito, ma in realtà rappresenta solo gli ebrei sionisti. È un’organizzazione sionista che pone gli interessi israeliani al di sopra di ogni altra cosa. Come spiegare altrimenti il suo sostegno alla campagna diffamatoria contro Corbyn e altri funzionari pubblici da un lato, e il suo silenzio di fronte ai crimini israeliani dall’altro?

La caduta di Jeremy Corbyn per mano delle organizzazioni sioniste non è un problema esclusivo del Regno Unito e le sue ripercussioni internazionali sono enormi. Non c’è dubbio che il Ministero degli Affari Strategici Israeliano, l’ambasciata israeliana a Londra, il Movimento Laburista Ebraico e altri gruppi sionisti che stavano dietro la calunnia di Corbyn hanno festeggiato quando appresero che era stato sospeso dal partito laburista.

La destituzione di Jeremy Corbin è stata, infatti, un atto suicida. Sotto la guida di Corbyn, il partito aveva raggiunto un numero senza precedenti di iscritti e godeva di un enorme sostegno. La creazione della nuova definizione di antisemitismo dell’IHRA, seguita dalle richieste che fosse accettata dal Partito Laburista, e la diffamazione dei vertici di Jeremy Corbyn e dei laburisti (persone come Ken Livingston e Chris Williamson), facevano tutto parte di una strategia ben pianificata per punire coloro che si oppongono ai crimini sionisti in Palestina.

(*) Miko Peled è un autore e attivista per i diritti umani nato a Gerusalemme.  È l’autore di “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” e “Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five”.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

 

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Ecco perché il movimento di protesta di massa di Israele non porterà mai al cambiamento – Miko Peled

 

Dal novembre del 2019, gli israeliani protestano per chiedere le dimissioni dell’incriminato primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Dalla primavera del 2020, queste proteste sono aumentate fino al punto in cui migliaia di israeliani scendono in piazza ogni settimana per chiedere le sue dimissioni. Tuttavia, Netanyahu, che è al potere da oltre un decennio, non si dimetterà.

Democrazia?

Un sistema in cui un politico può rimanere al potere anche dopo aver perso un’elezione difficilmente può essere definito democratico. In Israele, tuttavia, ciò è accaduto più volte negli ultimi dieci anni. Il Primo Ministro Netanyahu ha perso le elezioni molte volte e attraverso compromessi e stratagemmi, è stato in grado di creare coalizioni che lo hanno mantenuto al potere.

Durante le ultime elezioni, ha creato uno sconvolgimento che è stato probabilmente il più impressionante di tutti. Era chiaro che lo schieramento dell’opposizione guidato dall’ex capo delle Forze Armate Israeliane, il generale Benny Gantz, aveva una solida maggioranza. Eppure, anche allora, Netanyahu riuscì a far capitolare Gantz all’ultimo minuto e riuscì a formare un governo con Ganz già precedentemente suo ministro della Difesa.

Dopo quelle fatidiche elezioni e l’umiliante capitolazione del generale delle Forze Armate Israeliane in pensione Benny Gantz, che, tra l’altro, ha promesso agli elettori che non avrebbe mai servito in un governo guidato da Netanyahu, gli israeliani sono scesi in piazza. L’incriminazione di Netanyahu, insieme all’enorme impatto del coronavirus e all’incapacità del governo israeliano di controllare la diffusione della pandemia, ha provocato disordini civili che in Israele non si erano mai verificati.

Tuttavia, anche se migliaia di persone sono scese in piazza settimana dopo settimana, ci sono stati pochi resoconti sulle proteste negli Stati Uniti e nessun impatto su Netanyahu, che è protetto dagli accordi di coalizione e da una realtà politica che gli assicura di rimanere al posto di Primo Ministro.

Proteste in tutto il paese

Il fulcro del movimento popolare è stato un presidio di protesta di fronte alla residenza del primo ministro a Gerusalemme in Balfour Street. Il quotidiano israeliano Haaretz riferisce che i manifestanti sono scesi in piazza in tutto il paese. In un caso, circa 200 manifestanti anti-Netanyahu hanno marciato per otto giorni dalla città di Kiryat Tivon, nel nord, al presidio di protesta, “ricevendo più di 100 sanzioni dalla polizia per aver violato le norme di salute pubblica lungo il percorso”.

Il governo ha cercato di usare i regolamenti di emergenza per limitare le proteste, e la polizia israeliana ha usato le maniere forti contro i dimostranti senza alcun risultato. Ci sono notizie di arresti, uso di gas lacrimogeni e persino granate dirompenti lanciate contro i manifestanti, che tuttavia continuano a violare i regolamenti e manifestare senza permesso.

Manifestanti anti-Netanyahu che brandiscono manifesti decorati con gli slogan “Crime Minister”, “Bibi Go!”  e “We are the Hope” stanno da un lato della strada mentre i gruppi pro-Netanyahu, molto meno numerosi, ma più rumorosi e inclini alla violenza, stanno dall’altro. Si sentono spesso gruppi pro-Netanyahu gridare: “traditori” e “Non sei ebreo”, alle loro controparti dall’altro lato della strada.

Violenza contro gli ebrei Ultra-Ortodossi

L’odio per le comunità ebraiche ultraortodosse, da non confondere con i gruppi sionisti ortodossi che praticano un tipo di giudaismo completamente diverso, è comune tra gli israeliani. Non diversamente dalle loro controparti negli Stati Uniti, sono più vulnerabili al coronavirus e sono stati duramente colpiti dalla pandemia. In molti casi, sono stati accusati di non seguire le direttive di sicurezza.

Gli ebrei ultra-ortodossi, in generale, rifiutano lo Stato di Israele e comprensibilmente diffidano delle istituzioni statali. Israele li ha perseguitati fin dalla sua fondazione e l’inimicizia tra il governo e le comunità ultraortodosse ha una storia lunga e violenta.

L’arrivo del COVID-19. La comunità ultraortodossa rifiuta Internet, la televisione e qualsiasi altra forma di comunicazione che non provenga dall’interno della comunità. Molti si rifiutano ancora di parlare l’ebraico e usano solo lo yiddish. La socializzazione è una parte fondamentale della loro vita, sia durante lo studio, la preghiera, le riunioni di famiglia o i grandi raduni della comunità come matrimoni o altre feste.

Lo stato, che per decenni ha interferito con lo stile di vita che hanno scelto nel tentativo di laicizzarli e trasformarli in soldati sionisti, ora invia la polizia in tenuta antisommossa nelle loro case, sinagoghe e ritrovi della comunità, cercando ancora una volta di negare loro il diritto riunirsi, pregare e festeggiare. Nessuno sforzo è stato fatto per raggiungerli e fornire loro le informazioni necessarie per rimanere al sicuro, e gli scontri con la polizia sono semplicemente terrificanti.

Le proteste all’interno di queste comunità sono esplose e la polizia sta usando ogni forma di brutalità, compresi violenti pestaggi, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua per reprimerle. I manifestanti sono stati persino investiti dai veicoli della polizia. Come prevedibile, il successo del governo israeliano nel ridurre la diffusione del virus all’interno di questa comunità è stato misero.

Nessun bilancio

Per quanto possa essere difficile crederlo, e anche se Israele ha tenuto tre elezioni in meno di due anni, si parla già di nuove votazioni.

Il quotidiano israeliano Maariv riferisce che Netanyahu sta ostacolando gli sforzi per approvare un bilancio, lasciando le agenzie governative nell’incertezza di quali saranno i loro bilanci per il 2021. I membri della coalizione di Netanyahu sono giustamente nervosi e chiedono che venga approvato un bilancio per il 2020-2021. Netanyahu, d’altra parte, non ha fretta. Sta temporeggiando il più possibile e preferisce, invece di impegnarsi in un bilancio,  stanziare fondi ai suoi complici in base al loro appoggio. Inoltre, il caos agevola Netanyahu, e si ipotizza che voglia indire presto nuove elezioni e dare la colpa ai suoi alleati nel governo di coalizione.

Il malfunzionamento delle istituzioni statali israeliane era già evidente prima del COVID-19. Ora, le agenzie governative funzionano ancora meno, con l’assistenza sanitaria e l’istruzione prossime al collasso. A ciò si aggiunge la mancanza di stabilità economica, o addirittura di un piano finanziario, e, secondo Maariv, Netanyahu ha la scusa per indire nuove elezioni.

Se c’è una cosa su cui Netanyahu sa di poter contare, è il supporto dello “Schieramento della Destra Sionista.” Questo “Schieramento” è composto da coloni della Cisgiordania, partiti “religiosi nazionali” e altri neofascisti. Hanno un programma estremista, possono fare affidamento su Netanyahu per soddisfare ogni loro obiettivo e desiderio e chiedono apertamente di cacciare i palestinesi fuori dalla Palestina, distruggere la Spianata delle Moschee e costruire un tempio per sostituire la Moschea di Al-Aqsa. È un programma che Netanyahu è felice di perseguire. In effetti, uno dei suoi ministri di gabinetto, Rafi Peretz, ministro degli Affari di Gerusalemme, fa parte del movimento per costruire il “Terzo Tempio”.

Forse è inutile precisarlo, ma nessuno dei sostenitori appartenenti allo schieramento di destra partecipa alle proteste anti-Netanyahu. In realtà, c’è almeno un gruppo che si presenta costantemente per interrompere le manifestazioni e scatenare la violenza. Questo gruppo, chiamato “La Familia”, è nato come tifoseria della squadra di calcio Beitar-Gerusalemme. Beitar ha la cattiva reputazione di formare bande estremiste violente e, naturalmente, i suoi membri sono sostenitori di Netanyahu.

Tutto porta al nulla 

Mentre i movimenti di massa possono, di volta in volta, portare a un vero cambiamento, è improbabile che ciò avvenga in Israele. Come negli Stati Uniti, dove le proteste anti-Trump e antifasciste portano a pochi cambiamenti politici immediati, il sistema politico israeliano ha creato una zona protetta in cui il posto di Netanyahu è sicuro.

Inoltre, le richieste (se così si possono chiamare) avanzate dai gruppi anti-Netanyahu affinché si dimetta sono deboli e hanno scarso appoggio politico.

A differenza del chiaro programma fissato dalla destra sionista e dai coloni sionisti religiosi, il cosiddetto “centro-sinistra” israeliano non ha un’agenda chiara, non ha principi reali e non ha la capacità di apportare cambiamenti. Sono deboli politicamente e non sono all’altezza di superare in astuzia l’uomo che ha dimostrato ripetutamente di essere il più grande manipolatore politico, Benjamin Netanyahu.

Miko Peled è un autore e attivista per i diritti umani nato a Gerusalemme. È l’autore di “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine,” e “Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di MintPress News.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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ELEZIONIUSA. L’1% arabo è diviso tra origini e presente – Michele Giorgio

Arabi e musulmani sono solo 3,5 milioni ma in quattro Stati potrebbero essere determinanti. A incidere sul voto sono le politiche interne, non quelle mediorientali. Mentre prosegue lo scrutinio, intanto, rielette alla Casa dei Rappresentanti le deputate musulmane Rashida Tlaib e Ilhan Omar.

In queste ultime settimane James Zogby non ha mancato occasione per rilasciare interviste a giornali, radio e tv delle città e degli Stati dove sono presenti comunità di americani di origine araba.

Il fondatore e presidente del prestigioso Arab American Institute ha insistito su due punti: occorre andare alle urne e votare per Joe Biden perché è vitale allontanare dalla Casa bianca Donald Trump.

«Sono d’accordo con Zogby sul voto utile – ci dice Vivian Khalaf, avvocata 51enne di origine palestinese giunta negli States con la famiglia da adolescente – Mandare a casa Trump è fondamentale e non solo per la sua distruttiva politica estera, in particolare in Medio oriente».

Il presidente, aggiunge, «è stato un disastro sotto tutti i punti di vista: per la gestione dell’emergenza coronavirus, perché strizza l’occhio ai suprematisti bianchi, per il Muslim ban, per la mancata condanna delle violenze della polizia contro gli afroamericani. Questi sono solo alcuni dei motivi che, in quanto cittadini americani, ci devono spingere a scegliere Biden».

Khalaf è vicina al senatore socialista Bernie Sanders: «L’ho sostenuto durante le primarie, certo avrei voluto lui e non Biden in questa sfida per la Casa Bianca ma le cose sono andate diversamente, ora votiamo in modo utile, liberiamoci di Trump. Poi faremo le opportune pressioni su Biden».

Khalaf incarna il coinvolgimento nella campagna per le presidenziali degli arabo americani. La loro partecipazione al voto si prevede più elevata rispetto al 2016. Ci si chiede però quanto potrà essere determinante per la nomina del presidente. Poco in apparenza: sono poco più di 3,5 milioni e rappresentano appena l’1% degli aventi diritto al voto.

Ma quattro dei sette Stati in cui, secondo gli esperti, si giocherà la partita elettorale vedono la presenza di grosse comunità arabo americane. In questi Stati – Michigan, Florida, Ohio e Pennsylvania – nel 2016 Trump superò Hillary Clinton di poco. In Michigan vinse per 11mila voti.

È proprio in questo Stato, in cui risiedono 400mila statunitensi di origine araba, che gli attivisti pro-Biden si stanno impegnando a fondo. In prima linea c’è la deputata Rashida Tlaib, di origine palestinese, eletta in Michigan, che assieme alle colleghe Alexandria Ocasio-Cortez (New York), Ilhan Omar (Minnesota) e Ayanna Pressley forma The Squad, le congresswomen spina nel fianco di Donald Trump e dell’establishment tradizionale democratico.

Vincere in particolare in Michigan e Florida consegnerebbe a Joe Biden la vittoria. Ma gli arabi e i musulmani americani voteranno compatti per Biden di fronte a un Trump disastroso per i loro interessi negli Usa e nei paesi di origine?

«Il peggior nemico di Joe Biden è proprio Joe Biden quando parliamo di Medio oriente – afferma Sami Zahra, un esperto di software da oltre 40 anni residente a San Francisco in California – Certo, in politica interna le ragioni per scegliere Biden sono innumerevoli, a cominciare dai diritti civili, e poi Trump è anti-palestinese e contro l’Islam».

Allo stesso tempo, aggiunge Zahra, «si deve tenere conto che per tanti arabi la politica Usa verso i paesi di origine riveste una grande importanza. Sanno che con Biden non ci saranno miglioramenti nella linea verso la questione palestinese e che sarà forse persino più stretta l’alleanza Usa-Israele. Biden ha già anticipato che manterrà l’ambasciata a Gerusalemme e non la riporterà a Tel Aviv. Dubito che si distaccherà dai piani di Trump».

Zahra non parteciperà al voto del 3 novembre. «Non sceglierò il male minore, non approvo l’appello al voto utile. Capisco il bisogno di liberarci del pericolo Trump ma così come nel 2016 non mi piaceva Hillary Clinton oggi non piace Biden», conclude.

L’attivista e scrittore Khaled Beydoun insiste sulla complessità della comunità araba. «Arabi e musulmani americani, di solito vengono fusi in un monolite dall’immaginario dominante, invece sono un popolo fatto di tasselli diversi, una realtà stratificata» sottolinea sui social e in articoli.

«In Michigan – spiega – il percorso di Biden in realtà è pieno di buche come le famigerate strade di Detroit». Beydoun riferisce che malgrado il Muslim ban ci sono musulmani giunti da Libano, Siria, Iran che preferiscono Trump perché «ha contribuito a sconfiggere l’Isis», perché «è contro Bashar Assad» e ha messo di nuovo sotto pressione Tehran.

Senza dimenticare che un cittadino originario di una monarchia del Golfo spesso ha una opinione positiva di Trump. E dubita che un arabo americano di seconda o terza generazione abbia il Medio Oriente tra le sue priorità.

Il professore Issam Nassar, docente di storia del Medio oriente all’Illinois State University, spiega che «l’Accordo di Abramo e le ramificazioni della normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Israele non sono un tema centrale per una bella fetta di arabo americani. Solo quelli di origine palestinese, per ragioni comprensibili, sono davvero impegnati sulle questioni mediorientali».

Pesa anche la politica economica. «Non pochi – continua – pensano che Trump abbia fatto del suo meglio per creare posti di lavoro e tenere in piedi il sistema economico colpito dalle conseguenze della pandemia. Si fidano più di lui che di Biden». Per quanto sorprendente possa apparire, conclude il docente, «una porzione di elettori arabi daranno il voto a Trump».

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Ai piedi di un insediamento israeliano, i palestinesi sono abituati ai fine settimana di terrore – Gideon Levy

Cinque persone ferite: questo è stato il bilancio sanguinoso di due aggressioni lo scorso fine settimana da parte dei coloni di Yitzhar e dei suoi vicini avamposti contro gli abitanti dei villaggi palestinesi in Cisgiordania. Indovina quale delle parti ottiene la protezione dell’esercito

L’ultima fila di case nel villaggio di Asira al-Qibliya, vicino a Nablus in Cisgiordania, sembra una sorta di fortezza. Otto abitazioni residenziali le cui finestre sono protette da sbarre, per gentile concessione di un’organizzazione umanitaria europea, i loro cortili coperti da un’infarinatura di pietre , lanciate contro di loro, circondati da una recinzione, porte chiuse. Il violento insediamento di Yitzhar fa rabbrividire di terrore i residenti . Le case mobili di Shalhevet, uno dei nove avamposti non autorizzati che Yitzhar ha generato, sono visibili dal cortile dell’ultima casa di Asira e si profila minacciosamente su una collina sopra il resto del villaggio palestinese.

Dall’altra parte della strada c’è una base delle forze di difesa israeliane i cui soldati si presentano quasi sempre insieme ai coloni-ruffiani, proteggendoli e talvolta anche unendosi agli attacchi contro le loro vittime palestinesi, sparando colpi vivi in aria, granate assordanti e gas lacrimogeni . Accanto ai rimorchi di Shalhevet si trova una struttura verde rotonda. Quando c’è una luce all’interno, dicono gli abitanti del villaggio, i coloni sono calmi, ma quando c’ è buio ci si può aspettare ancora un’altra azione di ritorsione. Da qui il nome della struttura: “edificio del cartello del prezzo”.

Gli occupanti di quell’ultima fila di case ad Asira radunano i bambini in una stanza, specialmente nei fine settimana . Infatti “venerdì-sabato” qui è sinonimo di aggressioni da parte dei coloni e si alza il volume della televisione quando si avvicinano, Così i bambini spaventati non sentiranno lo sbarramento di pietre che i coloni lanciano contro le loro case o il suono delle granate assordanti e gli spari dei soldati. Ogni notte della settimana un uomo di una famiglia diversa rimane sveglio per sorvegliare e avvertire gli altri se sta succedendo qualcosa. Questa è la routine da quasi 20 anni.

Abd al-Basath Ahmed è un operaio edile di 50 anni e padre di sette figli, uno dei quali con bisogni speciali. Sabato scorso era a casa con la moglie Maisa e la famiglia mentre i vicini, alcuni dei quali parenti, erano usciti per raccogliere le olive nei loro oliveti vicini. La casa di Ahmed e quella di uno dei suoi figli sono le ultime due case di Asira; una semplice recinzione metallica li separa da una valle sottostante e dalla collina sull’altro lato dove è appollaiato Yitzhar. La recinzione è stata strappata questa settimana, a seguito dell’ultimo attacco dei coloni.

Sabato, verso le 15:30, ci ha raccontato durante la nostra visita, il nipote di Ahmed, che vive nella casa dietro la sua, ha avvisato che i coloni stavano scendendo dalla collina . Questa volta provenivano da nord-est, dalla direzione di Shalhevet. Ahmed ha individuato un gruppo di 18-20 coloni, vestiti di bianco, – indossano sempre il bianco in onore del sabato, che stavano marciando verso il villaggio. Indossavano le maschere, come fanno sempre. Avevano pietre grosse , alcune ripiegate nelle camicie. L’impressione di Ahmed era che fosse un gruppo organizzato, apparentemente tutti sulla ventina.

Rapidamente ha spinto i figli e i nipoti a casa sua ed è salito sul tetto con Maisa per controllare . I predoni erano impegnati a violare la recinzione metallica fuori dal suo cortile. Ahmed ha deciso di scendere per cercare di fermarli con un bastone in mano. La sua paura era che il gruppo potesse irrompere in casa sua e lui era l’unico maschio adulto rimasto nella zona; tutti gli altri stavano aiutando nella raccolta delle olive.

I coloni hanno squarciato la recinzione e uno di loro è entrato nel cortile. Una grandinata di pietre è stata lanciata dagli altri. Ahmed non aveva nessun posto dove scappare e nessun modo per proteggersi. Un sasso lo ha colpito in testa , un altro nella spalla sinistra e un terzo nella coscia, rompendo il cellulare che aveva in tasca. I coloni non hanno detto una parola, hanno solo lanciato pietre.

Mentre il sangue scorreva dalla sua testa, dice, i coloni si sono ritirati : ne avevano abbastanza. A quel punto l’esercito è arrivato dalla base onniveggente che dominava l’intera area. Come al solito la missione dei soldati, questa volta in sei, era quella di proteggere gli assalitori. Hanno puntato granate stordenti contro la casa di Ahmed, e sparato proiettili veri in aria. Gli involucri vuoti sono rimasti nel suo cortile. Prove materiali.

Questa volta i soldati , racconta Ahmed:, non hanno sparato gas lacrimogeni nella casa. Ha un kit permanente da usare contro i gas lacrimogeni, a casa: stracci imbevuti di una soluzione di bicarbonato di sodio. Aiuta, dice. Hanno anche un estintore, per qualsiasi evenienza.

I coloni hanno di nuovo lanciato pietre quando sono arrivati i soldati. Nascosti dietro le truppe, apparentemente si sentivano più al sicuro, più protetti. I soldati non hanno alzato un dito per fermarli . Non lo fanno mai, dice Ahmed. Gli hanno ordinato di nascondersi fino all’arrivo di un’ambulanza palestinese per portarlo in ospedale . Sedeva in un angolo del cortile, con il sangue che gli colava dalla testa; Maisa ha cercato di frenare l’emorragia con un pezzo di stoffa. Nel frattempo altri sette coloni si sono presentati per unirsi ai loro amici. Ahmed ha aspettato un’ora che arrivasse l’ambulanza; i soldati non hanno fatto nulla per aiutarlo .

L’ufficio del portavoce dell’IDF ha rilasciato mercoledì ad Haaretz la seguente risposta: “Sabato scorso, ci sono stati attriti tra israeliani e palestinesi nel villaggio di Asira al-Qibliya, che hanno comportato il lancio di pietre da entrambe le parti. Una forza dell’IDF è stata inviata sulla scena per fungere da barriera tra coloro che disturbano la pace, al fine di porre fine all’incidente, tra l’altro mediante la dispersione della folla. Contrariamente a quanto è stato affermato, le granate stordenti non erano dirette contro la casa del villaggio “.Ahmed è stato portato all’ospedale Rafadiya di Nablus, dove ha ricevuto sei punti di sutura alla testa e poi è stato dimesso .

Qualche mese fa, quando l’amministrazione civile israeliana ha rimosso una casa mobile, ritenuta illegale a Yitzhar, gli attacchi dei coloni si sono intensificati, avvenendo quotidianamente nel corso di una settimana. Queste azioni costituivano un modo per sfogare la loro rabbia.

Questa situazione continua senza sosta dal 2002. In alcuni casi i coloni fanno irruzione nel villaggio di notte e danneggiano le auto dei residenti – come hanno fatto nel 2012, dando fuoco ad alcuni veicoli, ma nella maggior parte dei casi attaccano le case ai margini del villaggio e non osano entrarvi.

Ad aprile, il fratello di Ahmed ha piantato un albero di fico nell’area tra la sua casa e la collina dall’altra parte della valle. L’ufficiale di sicurezza di Yitzhar è arrivato immediatamente e gli ha ordinato di sradicare l’albero. Ha rifiutato. La mattina dopo ha scoperto che l’albero era stato dato alle fiamme.

Due anni fa lo stesso fratello ha cercato di sporgere denuncia alla polizia dopo che i coloni avevano dato fuoco al suo taxi. Dopo un’umiliante attesa di ore, la polizia gli disse che non aveva pagato una vecchia multa e che, se non l’avesse fatto ,non avrebbe accettato la sua denuncia. Da allora, la famiglia ha smesso di presentare denunce alla polizia per gli attacchi contro di loro.

In alcuni casi i coloni arrivano solo per provocare o spaventare gli abitanti del villaggio. Prendono posizione vicino alla recinzione metallica vicino alle case e ballano e cantano. In un modo o nell’altro, non c’è un sabato tranquillo.“E ora sta arrivando un altro Shabbat”, ci ha detto Ahmed con un sorriso amaro prima di separarci.

Nel cortile di una casa in un altro villaggio, Burin, dall’altra parte di Yitzhar, Imad Zaben, un fabbro di 59 anni, siede circondato dalla moglie e dai figli, indossando un tutore per il collo dopo l’intervento chirurgico alla colonna vertebrale a cui è stato sottoposto tre settimane fa.

Venerdì scorso, il giorno prima dell’attacco ad Asira al-Qibliya, indossando il suo tutore, Zaben e la sua famiglia , sua moglie, suo fratello e alcuni figli e nipoti , stavano raccogliendo olive nel boschetto di famiglia a circa tre chilometri da Yitzhar, nella valle sotto. Non avevano mai avuto problemi durante la vendemmia; anche questa volta la giornata iniziò tranquilla.

Dopo alcune ore senza incidenti, intorno alle 12:30, le pietre hanno cominciato a piovere su di loro dall’alto. Il figlio di Zaben, Mohammed, 32 anni, ha subito una frattura al cranio quando è stato colpito da una pietra. Un altro figlio, 28 anni (che ha chiesto di non utilizzare il suo nome), ha subito una frattura al braccio; una pietra ha fratturato il braccio del fratello di Zaben, Bashir, 64 anni; e anche suo nipote, Ahmed, 34 anni figlio di Bashir, è stato colpito al braccio. Nel complesso, quattro membri di una famiglia sono rimasti feriti. Zaben, attento e molto preoccupato per l’intervento alla schiena, è riuscito a uscirne illeso; i suoi figli lo proteggevano fisicamente.

La pioggia di sassi li ha sorpresi: poiché i coloni che li lanciavano erano situati sopra di loro, a pochi metri di distanza, sulla collina, inizialmente la famiglia Zaben non li ha visti.

“In nome di Dio, non lanciarci pietre” imploravano. I coloni senza parlare continuavano a lanciare i sassi come ad Asira il giorno seguente. Nonostante la ferita alla testa, Mohammed ha lanciato il cavallo che aveva portato sul posto , i coloni iniziarono a fuggire, anche se non prima di aver lanciato qualche altra pietra. Altri membri della famiglia sono saliti velocemente in macchina per tornare a casa .Mohammed è stato portato in ambulanza all’ospedale Rafadiya e da lì è stato trasferito all’unità di terapia intensiva dell’ospedale Istishari di Ramallah. È stato dimesso dopo tre giorni.

La famiglia Zaben non tornerà nel proprio bosco durante la stagione del raccolto.

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Il resto del mondo ne ha avuto abbastanza dei presidenti degli Stati Uniti, Trump o qualsiasi altro – Mohammed Hanif

Non importa chi ci sia alla Casa Bianca, il loro compito è sempre  lo stesso: combattere il male , ovvero tutti  noi che non siamo americani

I nostri amici americani sono preoccupati per il loro presidente. Ci stanno dicendo, anche  durante quelli che potrebbero essere i suoi ultimi mesi in carica, che Donald Trump è malato, che è un fascista, che è una grottesca parodia di un vero presidente degli Stati Uniti.

In quanto sofferente cittadino di un mondo gestito dai presidenti degli Stati Uniti, voglio  ricordare loro che Trump non è molto diverso dagli altri presidenti che io e il resto del mondo non americano abbiamo dovuto subire nell’ultimo mezzo secolo. Gli americani dicono di essere persone migliori di Trump. Per solidarietà, si potrebbe essere tentati di dire che, sì, certo, siamo persone migliori di Trump. Ma si è costretti ad aggiungere che sebbene quegli ex presidenti avessero una sintassi migliore di Trump, indossassero abiti più adatti, avessero   maniere più fini, non erano orgogliosi “acchiappasogni” o astuti evasori fiscali, essere un bullo a livello mondiale ha sempre fatto parte del loro lavoro.

Gli Stati Uniti hanno sempre eletto un bullo, lo hanno nutrito e gli hanno chiesto di  andare per il mondo  per fare  la cosa che un presidente deve fare: combattere il male che è il resto di noi. Allo stesso tempo si aspettavano che a casa  il loro presidente fosse gentile, avesse pietà del loro tacchino del Ringraziamento e continuasse a parlare del sogno americano e dell’assistenza sanitaria a prezzi accessibili.

All’estero, i presidenti degli Stati Uniti hanno devastato, invaso e distrutto luoghi i cui nomi non avrebbero mai potuto pronunciare, ospitato a Camp David dittatori assassini da tutto il mondo, sostenendone altri ancora più sanguinari per sostituirli.

Trump ha semplicemente  riportato a casa tutto quel bullismo

Il primo presidente degli Stati Uniti di cui ho sentito parlare da bambino è stato Nixon, che  venne buttato fuori dopo il Watergate. Durante la sua presidenza assistette al massacro del popolo bengalese continuando  a promettere di intervenire, ma alla fine non  potè essere disturbato. Jimmy Carter sembrava un brav’uomo, forse un bullo riluttante.  Durante il suo mandato si sentì parlare per la prima volta di quel maledetto termine, “diritti umani”, ma durante la sua presidenza, in Pakistan, dove vivo, un dittatore militare  impiccò un primo ministro eletto, Zulfikar Ali Bhutto. In cambio, Carter  offrì al generale Zia ul-Haq milioni di dollari in aiuti per conquistarlo, somma che il dittatore rifiutò, definendola noccioline –  la battuta è che Carter era un coltivatore di arachidi.

Poi è arrivato quel saggio di  Ronald Reagan, che iniziò a spendere soldi per realizzare le sue fantasie da cowboy in tutto il mondo. “Leader del mondo libero” si chiamava. E per rendere il mondo più libero, finanziò dittatori come Augusto Pinochet in Cile e Zia in Pakistan.

Quando Reagan iniziò a finanziare i mujaheddin in Afghanistan, avevo 11 anni; ora mio figlio si è laureato  e una terza generazione di poveri ragazzi statunitensi sta ancora combattendo e negoziando nello stesso Paese. E una quarta generazione di afgani sta crescendo nei campi profughi mentre le donne si chiedono se, quando gli Stati Uniti avranno finalmente successo nei colloqui di pace, avranno ancora un Paese in cui vivere.

George Bush Sr ha illuminato lo skyline di Baghdad con i suoi fuochi d’artificio. Prese soldi da un despota per liberarne un altro e nel frattempo cercò di finanziare i ribelli iracheni prima di lasciarli alla mercé di un terzo despota, Saddam Hussein. Non amavamo forse Bill Clinton? Non era l’antitesi di Trump, soave, un ammaliatore, il tipo di persona con cui potresti bere una birra? Quando Clinton dovette affrontare l’impeachment per i suoi rapporti con Monica Lewinsky, lanciò alcuni missili Cruise  sull’Afghanistan e sul Sudan come distrazione.

Gli americani devono aver amato George W. Bush perché lo hanno eletto due volte. Credeva che  provocare una guerra con l’Afghanistan fosse qualcosa che un presidente degli Stati Uniti dovesse fare. Ma poi si rese conto che i suoi predecessori non avevano lasciato molto da distruggere. Alla ricerca di aree ricche di obiettivi  bombardò l’Iraq,  inventando un pretesto per la guerra, allestì prigioni a Guantánamo e Abu Ghraib, poi dichiarò la vittoria e tornò a casa lasciando milioni di persone a morire. Anche i presidenti degli Stati Uniti dai modi miti sono stati assassini di massa sulla scena mondiale. Perché questo è ciò che comporta il loro lavoro.

Barack Obama è stato uno dei presidenti più amati degli ultimi tempi, il tipo di uomo con cui puoi davvero immaginare di bere una birra. Ha affidato le uccisioni ad algoritmi e droni, mentre la sua politica estera ha lasciato la Libia annientata. Alla fine del suo mandato, gli Stati Uniti lanciavano l’equivalente di quasi tre bombe all’ora ogni singolo giorno. (Nel 2009, ha vinto il premio Nobel per la pace per le sue buone intenzioni.)

Gli americani sono i più grandi intrattenitori del mondo, ma sembrano annoiarsi facilmente e nella loro leggendaria innocenza vanno in giro per il mondo distruggendo luoghi per salvarli. A casa continuano a ripetersi che è ora di fare una scelta ma, in realtà, quali scelte hanno?

Trump fa sembrare gli Stati Uniti cattivi, fa sembrare gli Stati Uniti troppo bianchi, fa parlare agli Stati Uniti un cattivo inglese, fa sembrare gli Stati Uniti maleducati, avidi, sovrappeso. Ma per molti di noi nel mondo, anche se perde, non sarà  un segno che gli Stati Uniti stanno per cambiare; annuncia solo un po’ di rinnovamento.

Gli Stati Uniti hanno bisogno di una mascotte snella, qualcuno che indossi abiti migliori, che non sia così apertamente razzista. I presidenti degli Stati Uniti sono come il capo che va a lavorare terrorizzando i suoi dipendenti , ma torna a casa per diffondere luce e amore. Affrontate Trump con tutti i mezzi, chiudete la porta e gettate via la chiave. Scegliete la persona che pensate salverà l’anima degli Stati Uniti, ma non mandatela nel mondo per salvarci.

  • Mohammed Hanif è un romanziere che abita a Karachi, in Pakistan

Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” -Invictapalestina.org

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Né Biden né Trump porranno fine all’occupazione israeliana della Palestina – Gideon Levy

L’occupazione israeliana della Cisgiordania è indifferente al fatto se sia Donald Trump o Joe Biden a diventare presidente degli Stati Uniti; non fa differenza. L’occupazione ha ottenuto un’altra grande vittoria martedì, molto prima che i seggi elettorali chiudessero.

È incredibile che due persone totalmente diverse come Trump e Biden condividano lo stesso impegno incontrovertibile: il sostegno americano all’occupazione israeliana in Palestina. Non sembra esserci una questione su cui i due sono più d’accordo, quindi l’identità del vincitore è irrilevante per l’occupazione.

Trump è un amico dei coloni e ha riconosciuto le alture del Golan come parte di Israele, ma anche Biden non farà nulla per portare a un ritiro o addirittura congelare il progetto d’insediamento. E Trump si fa beffe dei deboli, gli ultimi, i palestinesi. I diritti umani sono l’ultima questione che lo interessa, il diritto internazionale non è mai arrivato sulla sua scrivania e probabilmente non ha mai sentito parlare delle sofferenze dei palestinesi, facendo di lui l’opposto del suo rivale.

Biden sa una o due cose sui diritti umani, sui deboli, i diseredati e gli oppressi. L’apartheid con lui trema e le sofferenze dei palestinesi contano, ispirato da Barack Obama, che ha paragonato queste sofferenze alle passate sofferenze degli Afroamericani.

Con Biden, non vedremo figure prestigiose del calibro dell’ambasciatore americano amico dei coloni David Friedman o Jared Kushner. Saranno sostituiti da dei Friedman più seri e moderati, ma Biden non farà nulla per portare giustizia e redenzione ai palestinesi, applicando il diritto internazionale, se non solo a parole. Dopo tutto, questo è ciò che ha fatto il grande Obama.

Biden creerà un contesto diverso, meno umiliante per i palestinesi, con più autodeterminazione. Quando lancerà il suo piano di pace, forse il centesimo piano americano incompiuto, non parteciperanno solo i rabbini ortodossi e i pastori evangelici, come nel “piano di pace” di Trump. Ci saranno anche i palestinesi.

Ma il seguito non sarà diverso: un servizio fotografico, un inviato speciale, in una bella giornata, persino una conferenza di pace, senza nessun cambiamento. I palestinesi continueranno a sanguinare ammanettati sul ciglio della strada, sotto il giogo dell’occupazione militare israeliana che li opprime, mentre l’Oman si aggrega al cosiddetto processo di pace.

Di tutte le questioni, una gode apparentemente di un ampio consenso internazionale, da blocco a blocco e da continente a continente. Nessuna questione accomuna i paesi più dell’opposizione all’occupazione e del rifiuto di riconoscerla. Questo è l’unica questione in cui non c’è differenza tra i presidenti degli Stati Uniti; nessun presidente ha considerato di porre fine a tutto ciò. Forse non è ancora nato.

Nessuna spiegazione ragionevole si adatta a questo. Tutte le statistiche che tracciano interessi diversi, americani o internazionali, non sono abbastanza convincenti per spiegare come, in una questione così chiara e ovvia; l’illegalità e l’ingiustizia dell’occupazione, la corsa verso la creazione di uno stato di apartheid e la sofferenza del popolo palestinese, milioni dei quali sono le uniche persone che non sono cittadini di nessuno stato, non ci sia differenza tra le amministrazioni statunitensi. Dieci presidenti, 53 anni: l’occupazione è al culmine del suo potere e le possibilità che finisca sono più scarse che mai, sia con Biden che con Trump.

La superpotenza che finanzia, equipaggia, sostiene e protegge la sua prediletta, Israele, sta coprendo tutti i suoi crimini e non intende usare il suo potere per influenzare Israele per porre fine all’occupazione. Non ha mai avuto intenzione di farlo. L’America non è obbligata a farlo. Israele porta il peso maggiore della colpa e della responsabilità.

Ma quando una superpotenza continua a sostenere automaticamente e incondizionatamente il paese responsabile di tutto questo, amministrazione dopo amministrazione, senza un presidente che si ponga la domanda: perché e fino a quando, anche questo è complice e criminale. La destra israeliana può smettere di preoccuparsi. Una questione così scottante non si risolverà sulla scrivania dell’ufficio ovale, indipendentemente da chi ci sia seduto dietro.

Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, “La punizione di Gaza”, è stato appena pubblicato da Verso.

Trad: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Dopo il governo di destra, Stati Uniti e Israele non possono immaginare un futuro oltre il centro – Gideon Levy

Israele ha sempre sognato l’America e ora sta realizzando quel sogno: Donald Trump e Benjamin Netanyahu sono sorprendentemente simili. Il primo ministro è molto più istruito e più eloquente del presidente degli Stati Uniti, ovviamente, ma la somiglianza dei loro modi operandi e delle loro convinzioni è sorprendente.

Non meno sorprendente è la somiglianza tra i loro sfidanti,  Joe Biden  e  Benny Gantz . Entrambi sono mediocri. Entrambi sono pieni di buone intenzioni, notevoli per la loro insignificanza,. Dovevano essere la speranza del cambiamento, e non lo sono. Sia  Trump  che  Netanyahu  hanno scatenato contromosse feroci, determinate e altamente motivate. La società civile sia negli Stati Uniti che in Israele è stata risvegliata.

Abbastanza stranamente non è riuscita a produrre candidati alternativi praticabili o ideologie alternative. Ci si sarebbe potuti aspettare che dopo quattro anni di Trump e una dozzina di Netanyahu, dato tutto il disgusto e l’opposizione che hanno provocato, i leader si sarebbero fatti avanti per cercare di far oscillare il pendolo al polo opposto, dal populismo alla  sinistra.

Non è successo. Il pendolo si è fermato a metà, nel centro maledetto e maledetto. L’America e Israele non hanno osato spingerlo fino all’opposto di Trump e  di   Netanyahu.

Per un momento è sembrato che potesse accadere in America. C’erano voci nel Partito Democratico che non erano mai state ascoltate; voci radicali, di sinistra, socialdemocratiche che chiedevano giustizia, uguaglianza e diritti civili. Alcuni promettenti candidati di questo campo hanno partecipato alle  primarie, sembrava che la rivoluzione di Trump avrebbe galvanizzato il giusto contromovimento ideologico, che il suo opposto polare si sarebbe sollevato per sfidarlo.

La maggior parte dei media statunitensi si è unita alla guerra contro il Trumpismo; era l’ora più bella del New York Times e della CNN. La promessa di cambiamento era nell’aria, la sensazione che l’America avrebbe tentato la tanto necessaria guarigione dalla malattia di Trump.

Poi Joe Biden ha vinto la   nomination democratica . Il più mediocre, quasi niente,tra tutti i candidati. Una tonalita ‘piu’ bianca del pallido. Dagli interi Stati Uniti, da quel paese ricco, potente e avanzato, da tutte le sue università e istituti di ricerca, dai suoi movimenti di protesta e dai media, da tutti i suoi 50 stati, questo è il randello che è stato trovato per colpire Trump.

L’America ha detto ancora una volta no a sinistra. Anche i tumultuosi anni di Trump non sono bastati al paese per raccogliere il coraggio di provare, per la prima volta nella sua storia, una nuova via, la via della socialdemocrazia,  costituita da  una politica estera e interna più etica,  fondata sull’  aiutare il debole in patria e all’estero. Un’America dove i soldi non sono tutto.

È vero che il predecessore di Trump, Barack Obama, la cui miracolosa elezione e rielezione ha contribuito a far sorgere Trump come reazione, ha promesso tutto quanto  citato sopra, ma sfortunatamente si è rivelata una promessa vuota. Ha cercato di guidare l’America in una direzione diversa ma la sua opera è annegata nel mare torbido della politica americana che lo ha bloccato ad ogni svolta. Anche il primo ministro del piccolo Israele è riuscito a sconfiggerlo e umiliarlo. Ora Obama sta aiutando il suo vice presidente a farsi eleggere, ma deve sicuramente essere consapevole che Biden non è la grande speranza della quale l’America ha bisogno.

Sorpresa, sorpresa: la catena di eventi è simile in Israele, il gemello dell’America. Qui non c’è mai stata nemmeno la falsa speranza di cambiamento, anche se qui, a differenza dell’America, c’era una volta una socialdemocrazia con risultati significativi. Il principale sfidante di Netanyahu nelle ultime elezioni è stata una squallida figura di compromesso; la principale minaccia al suo governo oggi è un candidato di destra ancora più estremo di lui.

La sinistra tace. Esiste a malapena per gli elettori ebrei, è morta  pacificamente. Dodici anni di governo corrotto, marcio e di destra hanno portato gli israeliani alla conclusione che vogliono più o meno lo stesso. Forse chiunque tranne Bibi, ma tutto tranne la sinistra.

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La questione israelo-palestinese spiegata da Chef Rubio: “Non chiamatelo conflitto, è un’occupazione illegale”

Intervista rilasciata al “Riformista” successivamente censurata e cestinata.

E’ notizia recente quella che riguarda un nuovo attacco a Gaza. Le forze di difesa israeliane, attraverso il portavoce dell’esercito israeliano Avichai Adrai, hanno dato l’annuncio ufficiale che i loro aerei ed elicotteri da combattimento hanno fatto irruzione in un’installazione sotterranea appartenente ad Hamas nella striscia di Gaza. Così come è notizia fresca quella che riguarda l’avvio di relazioni tra alcuni paesi arabi e africani come il Sudan con Israele, tradizionalmente nemici di quest’ultimo, che vanno a completare il cerchio del piano per la pace nel Medio Oriente. Sebbene non ci sia una rubrica quotidiana, le incursioni sulla striscia di Gaza e l’espansione internazionale di Israele accadono più frequentemente e velocemente di quanto si possa immaginare.

A tenere viva la memoria, però, ci pensa Gabriele Rubini, o meglio conosciuto come Chef Rubio, famoso anche e soprattutto per il suo attivismo a difesa della Palestina. Dato l’addio a Facebook e Instagram, Rubio mantiene viva la sua causa su Twitter dove è particolarmente presente con post, letture, video e immagini che gettano uno sguardo informato sulle origini e la storia di una questione ancora irrisolta e piena di contraddizioni. Riguardo al suo attivismo pro Palestina, l’ex rugbista specifica che “se non ci si schiera dalla parte dei più deboli, non ha senso stare da nessuna parte”. E lui ha scelto di stare “dalla parte giusta della storia”. Il suo è un monito che trova riscontro anche nell’adesione allo sciopero della fame in sostegno di Maher Al Akhras, incarcerato dallo stato israeliano senza accusa né processo e al suo 94esimo giorno di digiuno.

La questione israelo-palestinese, nota come “conflitto”, ha radici lontane e antiche, anche se in realtà gli attori coinvolti sono più di due, con la conseguenza che la storia che ne viene tratta ha sempre come fondo l’ambiguità delle fazioni. Tutto comincia verso la fine dell’Ottocento quando il movimento nazionalista ebraico, il sionismo, aspira ad una terra per tutti gli ebrei sparsi nel mondo identificandola per volontà divina nella Palestina. Il territorio medio orientale, però, è già abitato dal popolo arabo. Da qui nasce l’ostilità tra le due popolazioni fino ad arrivare al secondo dopoguerra, periodo in cui comincia a diventare un problema internazionale. Le Nazioni Unite approvano un piano di partizione in due Stati, nonostante si parli di 1,2 milioni di arabi e 600.000 ebrei, con Gerusalemme proclamata città internazionale. Questo piano viene accettato dal movimento sionista e rifiutato dai palestinesi. Inizia così una situazione di occupazione con forze paramilitari e sioniste che scacciano i palestinesi dalle loro terre, fino a quando nel 1948 su questi territori viene proclamato lo Stato d’Israele.

A cosa si può attribuire l’inizio del “conflitto” israelo-palestinese?

Non chiamatelo conflitto. E’ dall’esistenza dello Stato d’Israele che esiste quello che viene erroneamente chiamato “conflitto” israelo-palestinese. Si tratta di un’occupazione illegale da parte di una super potenza che sin dagli albori era supportata pubblicamente e segretamente con fondi, armi da oltreoceano e ha mentito dal primo giorno della sua esistenza. In che modo? Affermando che lo Stato di Israele era in pericolo quando, al contrario, i palestinesi non avevano né ingenti armi, né intenzioni belliche. Intanto, questo ha fatto sì che si creasse, anche attraverso la risonanza della stampa, un falso storico dando vita nell’immaginario collettivo ad un vittimismo da parte dei coloni sionisti perseguitati da coloro che descrivevano come “cattivi”, gli arabi. La realtà dei fatti, però, è che dall’occupazione di una piccola percentuale di territorio sono arrivati ad impadronirsi di quasi tutta la Palestina. Arabi, ebrei, cristiani, arabi ebrei, musulmani e cristiani di qualsiasi tipo di etnia convivevano tranquillamente nel territorio palestinese fino al primo conflitto mondiale e poi, a seguire, alla fine della seconda guerra mondiale con i confini istituiti dalla fine dell’Impero Ottomano. Fino a quando è arrivata la formazione del nuovo Stato nel 1948, anno in cui è ufficialmente cominciata l’occupazione. La cattolica Europa ha voluto creare uno Stato, quello di Israele, usando come scusa la religione e come scudo la pressione dei sensi di colpa per la tragedia dell’Olocausto cercando di correre ai ripari con una collocazione giusta e degna al popolo colpito. Tra religione e sensi di colpa hanno piazzato in maniera del tutto strategica e ponderata uno Stato che sin dagli inizi si è rivelato ben strutturato e definito per espandersi sempre più nella totale poca trasparenza. Sin dal primo tentativo di formazione di Israele, le carte in tavola non sono mai state chiare. Libri di testo, prove, storie testimoniano infatti come non tutte le persone vittime dell’Olocausto avevano intenzione di trasferirsi in Palestina ma che i sionisti, da fine Ottocento, hanno cominciato a premeditare la creazione dello Stato di Israele e a sovrappopolare l’allora Palestina con un ingente numero di persone di religione ebraica rispettando sempre meno i patti. Dal 1948 si sono susseguiti pulizie etniche, massacri, torture e distruzioni di villaggi che rendono ad oggi la situazione vergognosa.

Come si presenta oggi la condizione della Palestina?

Drammatica, i confini attuali sono sempre più ridotti, la situazione delle colonie in Cisgiordania è insostenibile a causa dell’odio cieco dei coloni ebrei a cui tutto è concesso, i diritti umani, civili e politici dei palestinesi sono praticamente inesistenti e l’embargo a Gaza e la vergogna dell’umanità. Per tacitare tutto ciò, Israele e chi lo supporta fa appello all’Hasbara (parola in lingua ebraica che indica gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni), strategia di propaganda sionista che mistifica e falsifica qualsiasi tipo di realtà. In breve, tutte le informazioni veicolate sono da guardare all’opposto. Se ci giunge la notizia di un razzo sparato dai palestinesi e la inevitabile risposta di Israele all’attacco, bisogna capovolgere le parti perché non è mai così. A onor del vero c’è da dire che nella seconda fase dell’occupazione, intorno ai primi anni 2000, ci sono stati dei periodi in cui gli attentati di risposta erano veritieri ma è necessario contestualizzarli. Stiamo parlando di decenni di soprusi, di torture, di privazioni con la conseguente creazione del muro e di uno stato di apartheid. Usare termini di uguaglianza come appunto “conflitto israelo-palestinese” è sbagliato a livello semantico e storico.

Non è una guerra ma uno stillicidio, un genocidio che è in atto dai primi decenni del Novecento e che è finalizzato alla sostituzione di un’etnia. Se si studiasse questo argomento in maniera approfondita ci si renderebbe conto che la pulizia etnica, messa sul piano internazionale per la prima volta nei primi anni ‘90 a Srebrenica nella guerra del Kosovo, è esattamente quello che è accaduto ai palestinesi nel 1948 con la Nakba. Quasi un milione di persone sono dovute scappare e altrettante sono state trucidate, creando così un numero complessivo di 15 milioni di palestinesi che ad oggi sono sparsi per il mondo e non possono tornare a casa pur avendo ancora le chiavi di casa.

La politica che adotta un governo guerrafondaio e militare come quello di Israele non è altro che quella di tirare acqua al proprio mulino mentendo e omettendo spudoratamente. Nei 72 anni di vita dello Stato israeliano non c’è mai stata un’ammissione di colpevolezza, una redenzione, non c’è mai stato niente se non un continuo mentire anche sul potere nucleare. Israele ha commissionato ed eseguito tanti omicidi mirati e rapimenti per silenziare e tacitare qualsiasi tipo di verità. La chiave di tutto sta nella Hasbara, la quale esercita la sua propaganda maggiormente con i media e il cinema.

Quest’ultimo, ad esempio, è il mezzo di propaganda sionista che serve per raccontare in maniera eroica o vittimista la versione storica israeliana inserendo persone e celebrità di Hollywood che supportano Israele e che annualmente finanziano l’esercito israeliano (IDF). Agendo direttamente ai vertici possono così più facilmente fare brainwashing attraverso il pinkwashing, il whitewashing, il greenwashing e via discorrendo. Tutte menzogne che raccontano una verità che non è. Le stesse testate giornalistiche e gli organi di stampa che si riempiono la bocca di Palestina hanno sede a Beirut, a testimonianza del fatto che non possono essere credibili se il fulcro della comunicazione delle informazioni sulla Palestina e su Gaza sono nel paese limitrofo. Di solito si dovrebbe essere sul posto per dire la verità. Ciò significa che anche i vari attacchi fatti attraverso l’utilizzo dei qassam, ovvero mortaretti sgangherati sparati di risposta ai bombardamenti che ci sono ogni notte a Gaza, sono utilizzati come scusa. Basterebbe informarsi lateralmente per farsi un’idea e capire la realtà dei fatti.

Quindi, in tutto questo, cosa e quanto c’entra il sionismo?

Il sionismo è un movimento razzista, imperialista, colonialista fondato sull’assolutismo dei bianchi. Dall’esterno hanno deciso come doveva andare la vita in quel posto imponendo menzogne e un background che non appartiene alla zona della Palestina, importando persone che venivano dall’Est Europa, dall’America e che non avevano la minima conoscenza del territorio e ad esso non appartenevano. Con la violenza, con le bombe, con gli stupri, con i genocidi, con i rastrellamenti, con le deportazioni hanno modificato il paesaggio, l’urbanistica, la natura e la fauna se calcoliamo l’uomo come essere animale. Quindi il sionismo c’entra perché oltre a essere stato la causa scatenante è il “valore” con cui agisce oggi l’intera politica israeliana. Può essere chiamato in tanti nomi: fascismo, razzismo, suprematismo, imperialismo, può essere identificato con tutto ciò che c’è di sbagliato al mondo. Dunque, la questione palestinese subisce il sionismo che si fa promotore dell’ebraismo ma che con la sua religione non ha nulla a che vedere visto che ha una matrice laica. Il sionismo oggi si è infiltrato nella politica sia di destra che di sinistra. Abbiamo politici sionisti di ogni partito e credo religioso che supportano per interessi economici personali Israele. Si può dire che il sionismo fa scopa con ignoranza perché ci si è accontentati di una verità di comodo che non ha nulla a che vedere con la realtà storica fatta di prepotenze, di accordi commerciali con l’intento di mandare avanti gli interessi di pochi. Ad oggi Israele è diventata una potenza talmente grande che anche con gli accordi di normalizzazione tutti i Paesi europei cercano di non indisporre uno degli Stati più potenti del Medio Oriente altrimenti non ci guadagnerebbero più nulla, anzi. Per concludere, il sionismo c’entra tutto.

Causa o pretesto?

Il sionismo è un movimento che ha imposto la nascita di Israele al mondo, e questo Stato illegale non esisterebbe se non ci fosse stato il sionismo. Quindi è la causa-effetto dell’esistenza di Israele e della sua scellerata posizione geografica perché erano persino stati proposti altri luoghi, come ad esempio la Patagonia, al fine di ospitare persone che avevano subito il drammatico e vergognoso trattamento da parte dei nazisti. E’ stata scelta la Palestina in prospettiva futura per tenere un occhio di riguardo nel Medio Oriente. Si potrebbe dire che è stata sia causa che pretesto. Non c’è una sola ragione, un solo motivo, dipende sempre da che parte scegli di vederla. Se una persona non ha interesse per la causa palestinese non si pone neanche l’esistenza giusta o sbagliata di Israele in quella zona. Se invece si affronta questo discorso in un’ottica di una certa fazione politica si penserà che è giusto che Israele stia lì perché è la Terra Promessa e il popolo ha fatto ritorno “legittimo” nella “sua” terra . Ma questo è solo un pretesto per giustificare una presenza che ha interessi economici e di potere.

Perchè lo Stato di Israele è nato in quei territori e che ruolo geostrategico ha la sua locazione?

Lo Stato di Israele è nato in Palestina perché si è creato il mito della Terra Santa, con la religione si è giustificato tutto. Ma soprattutto perché è una terra meravigliosa che si affaccia sul mar Mediterraneo, strategicamente perfetta per scambi navali, commerciali, turismo. Inoltre, Francia e Inghilterra avevano promesso ai popoli del medioriente, che alla caduta dell’impero Ottomano li avrebbero aiutati a creare la cosiddetta “Grande Siria”, terra in cui tutto il Medio Oriente sarebbe stato unito, forte e politicamente influente. Ovviamente cosi non era, avevano già firmato gli accordi di Sykes Picot (1916) che dividevano il Medio Oriente in zone da loro (Francia e Inghilterra) amministrate. Far nascere quindi uno stato “occidentale” proprio in quella zona, è servito anche a fermare il sogno di unità del medio oriente, oggi debole e politicamente diviso. Si può dunque dedurre facilmente il motivo per cui è stato imposto lo Stato di Israele in quella zona. I sionisti si nascondono dietro le favole religiose, ma è solo uno sfruttamento della religione ebraica. E se proprio vogliamo basarci sulle favole religiose, in esse gli ebrei sono stati condannati a vivere senza terra. Questo è il motivo per il quale anche tanti ebrei ortodossi ( quelli che conoscono bene i testi sacri) denunciano il sionismo e l’esistenza stessa di Israele. Il sionismo era una componente intoccabile all’epoca perché fresca dell’Olocausto e lo è tuttora perché si è potenziata attraverso le lobby e la strumentalizzazione dei sionisti. E’ stata dunque una mossa strategica che, con il pretesto religioso, ha inserito qualsiasi tipo di vantaggio si potesse ricavare

Guardandola da un altro punto di vista, potrebbe sembrare una versione troppo di parte

Non ha senso prendere la parte dei prepotenti che hanno sempre agito con l’inganno, la violenza, e mentendo senza mai riconoscere i propri abomini. Bisogna stare dalla parte del più debole a prescindere, e dalla parte del popolo palestinese anche non conoscendo la storia, per studiare c’è sempre tempo. La gente dovrebbe combattere questa ingiustizia perché non parla solo di Palestina ma abbraccia anche il Libano, la Siria, l’Iran e tutti i popoli su cui vuole mettere le grinfie lo Stato di Israele per questioni economiche e di potere. È un’ingiustizia che parla di tutti noi. Bisogna essere di parte perché c’erano prima loro, il popolo nativo, e perché solo prendendo le difese dei giusti si può dire di aver fatto bene. Tutte le persone che hanno popolato Israele spesso e volentieri sono state deportate, come testimonia l’esistenza di vari gruppi terroristici, dopo legalizzati, quali haganah e irgun per dirne alcuni, che effettuavano operazioni di deportazione di persone che erano state appena colpite dall’Olocausto: venivano caricate sulle navi o barche di fortuna e miglia di persone sono state portate clandestinamente in Palestina per dare vita al sogno sionista. Si può azzardare che i primi scafisti del secolo scorso fossero proprio i sionisti, che portavano in Palestina persone anche contro il loro volere. E’ facile incappare nella sottile linea del complottismo, ma sono informazioni contenute in libri scritti da storici, antropologi di cui il 90 % israeliani ed ebrei. Non stiamo parlando di persone che sono palestinesi o patteggiano per loro, semplicemente si sono resi conto anche loro col tempo e studiando che erano nati in uno Stato in cui la realtà raccontata discostava dalla realtà. Non ha più senso che dopo 72 anni un popolo sia rinchiuso dentro la propria terra a determinate condizioni e che non possa uscire se non quando lo decide l’occupante. E’ una cosa unica al mondo in cui gli indigeni nativi devono chiedere il permesso per uscire o per esistere. Io stesso sono di parte, certo, ma non c’è stata una volta in cui mezza persona, tra le tante che mi accusano e mi danno dell’antisemita, mi abbia controbattuto sui contenuti perché dico il vero e per il vero lotto sempre. La loro è una strategia stantia che non attacca più. Il trucchetto l’abbiamo imparato tutti noi attivisti e non ci fanno neanche più paura, però questo pone un problema fondamentale: è difficile addentrarsi in un discorso così complesso se le persone non conoscono la questione a fondo. Ci si dovrebbe documentare di più.

A questo proposito, spesso la questione della Palestina è considerata un argomento tabù anche sui social e negli organi di stampa. Tu, ad esempio, hai detto addio a Facebook ed Instagram per le numerose segnalazioni ai tuoi post che facevano riferimento ad informazioni pro Palestina. Cosa ti ha spinto ad abbandonare uno dei modi di comunicare più virali? C’è stata una censura?
Facebook e Instagram hanno regolarmente e arbitrariamente rimosso e oscurato i miei post relativi a notizie sulla Palestina e quelli critici con lo Stato d’Israele e il sionismo. Fino al punto da sottopporre i miei account allo shadowban, cioè vuol dire relegare i profili social in una zona d’ombra dove i tuoi post non compaiono più nelle timeline dei followers e vengono visti solo se esplicitamente ricercati. Contemporaneamente ogni giorno hanno rimosso migliaia di followers dicendo che si trattava di bot o fake account e hanno impedito a nuovi followers di potermi seguire. Sui social funziona per segnalazioni e/o algoritmi, quindi se ci sono dei post con delle parole-chiave specifiche che ricevono tante segnalazioni, vieni oscurato dal social in questione.

Questo avviene anche su Twitter, ma in maniera minore. In ogni caso è indubbio che i media e i social siano nelle mani di un controllo imperialista e sionista, o se non sotto un controllo diretto sicuramente subiscono pressioni fortissime da parte di enti e associazioni che supportano il sionismo. Un esempio è la storia di Bella Hadid, la celebre modella palestinese a cui è stato eliminato un post su Facebook che ritraeva il documento di identità di suo padre. Lei ha denunciato l’accaduto ed è magicamente ritornato visibile, perché è un personaggio famoso con un seguito di milioni di followers.

Qualsiasi altra persona, come me che sfioravo il milione di followers, non preoccupa i vertici se protesta per la censura. Io – come ho già dichiarato a una prestigiosa rivista tecnica americana che ha verificato il mio shadowban – piuttosto che generare traffico sui social controllati da sionisti ho preferito farmi da parte, dando così un segnale forte contro questi metodi di censura.

Non vedo perché continuare a produrre un flusso di contenuti interessante per aziende private che violano qualsiasi diritto di libertà di espressione. Ho scelto di cambiare campo di gioco. Ciò non toglie che questo “bavaglio” è presente ovunque, i sionisti hanno delle black list dove inseriscono tutti gli attivisti e giornalisti pro Palestina, regolarmente tenuti sott’occhio. E i social sono un terreno d’azione molto importante. Facebook, ad esempio, è statunitense. Coloro che gestiscono la sicurezza della piattaforma sono ex militari israeliani ed ebrei. L’Anti-Defamation League, l’organizzazione non governativa internazionale ebraica è il principale gruppo di pressione su Facebook. Gli Stati Uniti stessi sono stati fondati sul colonialismo, hanno sterminato i nativi americani, proprio come i coloni israeliani che tuttora continuano a sterminare i palestinesi.

Se non ci fossero gli Usa, Israele non esisterebbe. Le tasse dei contribuenti americani vanno dritte negli armamenti e nell’occupazione israeliana, i soldi dei cittadini statunitensi finiscono nelle mani dell’esercito israeliano. E’ tutto collegato. C’è da dire, però, che questo sistema di censura non esiste solo sui social, ma anche negli organi di informazione mainstream. Il messaggio che deve passare è sempre Israele contro Palestina, altrimenti puoi ritrovarti anche a perdere lavoro o ad essere bollato con un’etichetta negativa. Il fatto che ci siano sabotaggi, pressioni, omissioni spinge pochissime persone ad esporsi a favore della verità. Io stesso ho subito qualsiasi tipo di angheria da parte della comunità ebraica, di tutti i sionisti politici e anche dei vertici dei broadcast. Non è lecito potersi esprimere liberamente in favore della Palestina se non al di fuori di quel sistema. Da dentro ci ho provato, ma ogni volta venivo reguardito, i miei collaboratori minacciati e gli sponsor erano costretti ad abbandonarmi.

Si parla tanto di diritti umani internazionali, come mai però la Palestina vede restringersi il campo di anno in anno?

La Carta Universale dei Diritti Umani è stata scritta ma non è mai stata applicata, e non solo per la Palestina. Sono tante le popolazioni a subire lo stesso trattamento. A scrivere le Costituzioni e le Carte Universali siamo sempre bravissimi, ma metterli in pratica è tutt’altra cosa. Ci sono centinaia di risoluzioni contro Israele per i crimini di guerra o contro l’umanità commessi in questi 72 anni d’esistenza e mai una volta che sia stato sanzionato o costretto a ritornare sui suoi passi. Non ha mai neanche minimamente risposto all’atto dove gli veniva imposto di restituire terre rubate, di smettere di distruggere le abitazioni dei palestinesi, di smettere di inquinare, di smettere di deportare le persone, di smettere di bombardare. Se c’è un’indifferenza spaventosa di fronte a tutto ciò, è molto difficile che con una via diplomatica si possa risolvere la situazione se non c’è nessuna risposta o ammissione di colpevolezza.

Il piano per la pace in Medio Oriente prevede il riconoscimento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania da parte dei palestinesi in cambio di un congelamento di 4 anni delle attività legate alle colonie. Riconosce Gerusalemme come “capitale indivisa” dello Stato ebraico, propone il raddoppiamento del territorio sotto controllo palestinese e la nascita di uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme Est. In tutto questo, quanto conta realmente l’Olp?

Il piano per la pace in Medio Oriente è una farsa, tutto è tranne che un piano per la pace. E’ un piano per distruggere la Palestina e corrompere tutti i paesi limitrofi arabi. Non c’è intenzione di fare nessuna pace anche perché non c’è mai stata nessuna guerra ma solo una schifosa occupazione taciuta e accettata da tutti.

Per quanto riguarda l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), ha anch’essa le sue colpe. I palestinesi in queste decadi non sono riusciti a rimanere uniti: o si sono fatti corrompere o sono stati uccisi. E’ sempre mancata una leadership che potesse reggere e resistere colpo su colpo ai sabotaggi da parte di Israele, Stati Uniti e di tutta la comunità internazionale.

Il presidente Abu Mazen non è minimamente un leader e sottostà alle direttive di Israele, si deve sperare in una nuova generazione per poter far rinascere il sentimento di rivalsa pacifico nei confronti di Israele e sollecitare l’opinione pubblica schiava delle menzogne. L’Olp contava un tempo, ma adesso non ha un pugno solido o un potere contrattuale su un tavolo politico che possa fargli avere giustizia per la Palestina e il suo popolo. Bisogna aspettare le nuove generazioni di palestinesi schiavi nella loro terra che possano invertire la rotta.

Ma non è facile. La Palestina non ritornerà in mani ai palestinesi e non sarà mai libera se l’opinione pubblica e la comunità internazionale continuano ad appoggiare Israele. I palestinesi sono 72 anni che resistono mandando avanti la loro cultura giorno dopo giorno, il problema è che non cambierà mai la situazione se gli Stati saranno collusi, corrotti e accetteranno le bugie e le condizioni di Israele e soprattutto se non verrà data voce ai palestinesi. La situazione si risolve in due modi: o pacificamente con una presa coscienza da parte di tutta la comunità internazionale e quindi con un boicottaggio a 360 gradi da parte di tutto ciò che viene prodotto da e in Israele e nei territori occupati oppure, come hanno fatto gli israeliani nel 1948, con la forza. Con le buone non si è mai riusciti ad ottenere nulla, con le cattive ci hanno provato ma sono stati bollati come terroristi.

Non sta a loro, sta a noi. I palestinesi hanno tentato di difendere la loro cultura, la loro storia con l’olio degli ulivi, con il sapone fatto con l’olio di oliva, con i prodotti della loro terra, con le poesie ma hanno fatto tutto ciò che era in loro possesso. Questo processo potrebbe essere accelerato solo da parte della comunità internazionale e dai singoli perché lo Stato è fatto anche di singoli. Se ogni individuo studiasse e si prendesse a cuore il lato giusto della vicenda sicuramente ci sarebbero meno corrotti, più boicottaggi e, forse, si potrebbe cambiare rotta.

Israele è inserita nella classifica dei 25 eserciti più potenti al mondo per spese militari e della sua sfera di influenza internazionale

Lo Stato di Israele è stato fondato sulla violenza e con essa si esprime. L’Italia è tra quei paesi che vende fior fior di armamenti a Israele. Ci sono accordi vergognosi tra Italia ed Israele che prevedono lo scambio di armi, droni e mezzi bellici ma credo sia del tutto normale in un mondo in cui l’industria più potente al mondo è proprio quella delle armi. Dove ci sono soldi e dove c’è la possibilità di incrementare il potere c’è tutto l’interesse da parte di Israele di espandersi anche attraverso la sicurezza privata con forme di militarizzazione, occupazione e privazione di qualsiasi tipo di libertà. Gaza non è altro che un campo di addestramento dove testare qualsiasi tipo di nuova arma, legale e non, in maniera ciclica perché tanto nessuno condanna Israele e a morire sono solo civili palestinesi spacciati per terroristi. Non sorprende che sia tra le prime potenze belliche al mondo, rientra tutto nel percorso di vita di questo piccolo e inutile Stato.

Uno degli attivisti che si è speso sul campo in maniera concreta per la Palestina è Vittorio Arrigoni, ucciso nel 2011. Lui descriveva così la questione Israelo-palestinese: “In Israele vige questa strana situazione in cui gli extracomunitari legiferano e fanno leggi razziali contro la popolazione autoctona che adesso è rappresentata dal 20% degli arabi”. Credi ci sia qualche altra verità dietro la sua morte?

La versione ufficiale della sua morte è che è stato ucciso dai salafiti. Anche se la verità che non si sa, e che non si saprà mai, è che è stato un omicidio su commissione. E’ strano che questo gruppo di persone di punto in bianco volevano far fuori una persona che cercava di difendere il popolo palestinese, se non per altre ragioni che andavano contro la Palestina. Molti storici e studiosi sospettano che dietro ci sia la mano di Israele, ma ovviamente non ci sono prove.

Alla luce della ricostruzione storica tra passato e presente, quale sarà il futuro della Palestina?

La causa palestinese è la madre di tutte le ingiustizie. Se si dovesse risolvere la situazione di occupazione della Palestina, si risolverebbe il mondo. Il benessere del mondo passa proprio attraverso la libertà della Palestina. Ma la risoluzione ci sarà se e solo se tutti inizieremmo a stare dalla parte giusta della storia boicottando non solo come singoli ma come Nazioni lo Stato occupante, dettando condizioni.

Nella peggiore delle ipotesi ci sarebbe bisogno di un intervento militare, e non credo che qualcuno avrebbe il coraggio di indignarsi visto che dal 1948 al 2014 Israele ne ha compiuti sfacciatamente a decine rubando terre e ammazzando centinaia di migliaia di vite innocenti.

Io però essendo un pacifista, la seconda opzione la pongo solo come ultima ratio attraverso l’entrata in campo di forze esterne che anche con la violenza si impongano su Israele affinché restituisca i territori occupati facendo ritornare in Palestina tutti i profughi confinati in paesi limitrofi e sparsi nel mondo.

Di certo non possiamo sperare nella benevolenza di Israele perché non è successo in più di settanta anni, non accadrà ora. D’altro canto, è pur vero che ci sono state guerre mondiali, capovolgimenti internazionali, sorprese anche positive nel corso dei secoli, ed è stupido non pensare che non ci possa essere una soluzione anche inaspettata per far ritornare a casa di tutti i profughi palestinesi sparsi per il mondo.

Tutto dipende dalla risoluzione del problema primo che sta nel restituire la libertà fisica e geografica a un popolo a cui il mondo sta cancellando la sua storia. Qualsiasi tipo di problema ci affligge qui in Italia, su un palestinese si abbatte all’ennesima potenza. Se si risolvono i loro problemi, automaticamente scompariranno anche i nostri, ma la gente non riesce o non vuole capirlo. La speranza è l’ultima a morire, ma se vogliamo essere obiettivi è molto dura.

da qui

 

Vaccino anti-covid. Prodotto dall’istituto di ricerca delle armi chimiche e biologiche di Israele – Antonio Mazzeo

Il suo nome è “Brilife” ed è il nuovo vaccino contro il Covid-19 che dal 1° novembre viene somministrato sperimentalmente in Israele su 80 “volontari” di età compresa tra i 18 e i 55 anni nell’ospedale Hadassah Ein Kerem dell’Università Ebraica di Gerusalemme e presso lo Sheba Medical Center di Ramat Gan, Tel Aviv.

Il vaccino è stato sviluppato dall’Israel Institute for Biological Research (IIBR) di Ness Ziona, il principale istituto di ricerca chimico-biologico dello Stato d’Israele, sotto la giurisdizione dell’Ufficio del Primo ministro. Le sperimentazioni saranno condotte per un periodo di diversi mesi e a partire dal mese di dicembre i test coinvolgeranno un migliaio di “volontari” di età compresa tra i 18 e gli 85 anni in otto ospedali del paese. La terza ed ultima fase della somministrazione dei vaccini “Brilife” è prevista nella primavera del 2021 e avrà come cavie 30.000 persone circa. Secondo quanto dichiarato dal professore Yosef Karako, responsabile dell’Unità sperimentazioni chimiche dell’ospedale Hadassah, per la produzione del vaccino sono stati utilizzati vettori virali derivanti dal virus della stomatite viscerale (VSV), geneticamente ingegnerizzato con una proteina di Sars-Cov-2.

L’1 febbraio 2020 era stato il Primo ministro Benjamin Netanyahu ad autorizzare l’Israel Institute for Biological Research ad avviare le attività di ricerca sul nuovo vaccino sperimentale anti-Covid e, contestualmente, ad istituire un centro di produzione vaccini nella cittadina di Yeruham, nel deserto del Negev. A fine marzo l’Istituto aveva effettuato i primi test del preparato sui roditori.

Negli stessi mesi l’IIBR veniva pure incaricato dal Ministero della Difesa israeliano di effettuare la “raccolta plasma” dai pazienti convalescenti da coronavirus, nell’ambito di un programma d’individuazione di anticorpi specifici da trasferire poi in altri soggetti ricoverati nei presidi ospedalieri. I “risultati positivi” della prima fase di sperimentazione del cosiddetto “vaccino passivo” sono stati illustrati dai ricercatori in occasione della visita ai laboratori dell’IIBR del ministro della Difesa, Naftali Bennett, il 4 maggio 2020.

E’ stato lo stesso ministro a spiegare con un comunicato le tappe programmate dall’Istituto per lo sviluppo e commercializzazione degli anticorpi anti-Covid19. “Sono orgoglioso del personale dell’Israel Institute for Biological Research: la creatività e l’ingegnosità ebraica hanno portato a questo straordinario risultato”, ha esordito Bennett. “In questi ultimo giorni l’IIBR ha completato un rivoluzionario sviluppo scientifico, determinando un anticorpo che neutralizza il SARS-COV-2. Tre sono i parametri: l’anticorpo è monoclonale, nuovo e affinato, e contiene una proporzione eccezionalmente bassa di proteine nocive; esso è in grado di neutralizzare il coronavirus; è stato testato su un virus aggressivo”. Le procedure legali ed amministrative per la produzione e la commercializzazione dell’antidoto, ha concluso Naftali Bennett, “saranno coordinate dal Ministero della Difesa”, quasi a voler sottolineare la piena subordinazione dell’Istituto di ricerca biologica all’autorità militare.

Un reportage apparso su The Jerusalem Post il 6 maggio 2020, ha offerto una descrizione semi-inedita dell’Israel Institute for Biological Research di Ness Ziona. “Il centro è circondato da un muro inaccessibile pieno di sensori e con pattuglie di guardie armate che perlustrano il suo perimetro”, riferisce il quotidiano. “Nessun aereo è autorizzato a sorvolare la facility ed essa non appare in nessuna mappa o guida telefonica dell’area. Per accedere al suo interno sono obbligatori l’uso di parole in codice e l’identificazione visiva e ci sono numerose porte blindate a prova di bomba che possono essere aperte da carte elettroniche i cui codici vengono modificati ogni giorno. Molti dei laboratori di ricerca sono ospitati nel sottosuolo”.

All’IIBR vengono impiegate 350 persone, di cui 150 sono scienziati con dottorati in biologia, biochimica, biotecnologia, chimica organica e fisica, farmacologia, matematica e fisica. Dal 2013 il direttore responsabile dell’Istituto è il professore Shmuel C. Shapira, docente di Amministrazione medica e direttore generale del Dipartimento di Medicina militare dell’Università Ebraica di Gerusalemme, nonché presidente del consiglio d’amministrazione del Life Centre Research Israel Ttd., società a cui è affidata la commercializzazione delle innovazioni tecnologiche brevettate dall’Institute for Biological Research.

La storia dell’IIBR è intrinsecamente legata alle strategie degli apparati di difesa e sicuritari d’Israele. Esso fu fondato a Jaffa nel lontano febbraio 1948 – qualche mese prima che venisse fondato lo stato sionista in Palestina – con il nome di “Hemed Beit”. Si trattava nello specifico di un’unità per la guerra biologica dell’organizzazione paramilitare “Haganah” (La Difesa, in lingua ebraica), sotto la direzione dell’ufficiale Yigael Yadin, poi Capo di stato delle forze armate e viceministro della Difesa. I report dell’intelligence britannica del tempo documentarono il diretto coinvolgimento di “Hemed Beit” in una serie di “operazioni coperte” contro la popolazione araba per costringerla ad abbandonare i villaggi natii e consentire la loro occupazione da parte di coloni e militari ebrei.

Nel 1952 l’unità assunse l’odierno nome di Israel Institute for Biological Research e gli uffici e i laboratori furono trasferiti a Ness Ziona, villaggio a una decina di km. da Tel Aviv. A capo dell’IIBS fu nominato il professore Ernst David Bergmann, consigliere scientifico-militare del Primo ministro David Ben-Gurion e tra i promotori con il Weizmann Institute of Science dei primi programmi di ricerca sulle armi nucleari dello Stato d’Israele.

Il ruolo di Ernst David Bergmann e dell’istituto da lui diretto furono fondamentali per lo sviluppo e la sperimentazione delle armi biologiche e chimiche e dei potenziali vaccini e antidoti anti-NBC, destinati alle forze armate e dei servizi segreti israeliani, primo fra tutti il famigerato Mossad che se ne avvalse per una serie di missioni top secret fuori dai confini nazionali. A partire dalla fine degli anni ’70, l’IIBR ha pure firmato una serie di contratti di ricerca con agenzie degli Stati Uniti d’America, il Dipartimento della Difesa e U.S. Army. Il database del Pentagono riporta una spesa complessiva di 1.672.185 dollari a favore dell’Israel Institute for Biological Research.

“Nel corso degli anni l’IIBR è stato impegnato nel campo delle scienze biologiche, chimiche e naturali in modo da offrire allo Stato d’Israele le necessarie risposte alle minacce chimiche e biologiche”, si legge nella pagina web dell’Istituto di ricerca. “A partire del 1995, l’IIBR ha operato come unità affiliata al governo che effettua ricerche in tutte le aree della difesa contro le armi chimiche e biologiche, incluse le operazioni dei laboratori nazionali per il rilevamento e l’identificazione di queste minacce”.

Tra i programmi scientifici in ambito civile-militare vengono annoverati poi quelli finalizzati alla produzione di un vaccino anti-polio (1959); lo sviluppo di kit per il rilevamento di materiali esplosivi (1980); la sperimentazione di un farmaco contro la sindrome di Sjogren, malattia infiammatoria cronica autoimmune (1984); la produzione di un vaccino contro la sindrome respiratoria acuta (Sars) di origine virale che ha colpì la popolazione mondiale nel 2003.

Il Centro di ricerca “James Martin” per la non proliferazione delle armi nucleari, chimiche e batteriologiche del Middlebury Institute of International Studies di Monterey (California) ha documentato gli studi dell’IIBR su diversi agenti e tossine, come ad esempio il batterio della peste (Yersinia pestis), del tifo, dell’enterotossina B da stafilococco (SEB), della rabbia, dell’antrace (Bacillus anthracis), del Clostridium botulinum, del virus dell’Ebola. Nel campo delle ricerche sugli agenti impiegati per la produzione di armi chimiche, l’Istituto israeliano annovera quelle sui gas nervini come il Sarin, il tabun, il VX, l’iprite (il cosiddetto gas mostarda) e altri composti organofosforici, ecc.. I laboratori hanno condotto analisi pure su un gel decontaminante da applicare sulla pelle per “neutralizzare gli agenti chimici e biologici”.

Le indagini delle autorità olandesi sulle cause dell’incidente avvenuto nel 1992 a un Boeing 747 della compagnia di bandiera israeliana El Al, precipitato in un villaggio poco distante da Amsterdam, hanno accertato che l’aereo trasportava un carico di 190 litri di dimetil metilfosfonato destinato all’Istituto di Ness Ziona. Il composto organofosforico viene normalmente utilizzato come ritardante di fiamma ma è indispensabile anche per la sintesi del gas nervino Sarin, arma bandita dalla Convenzione Internazionale sulle Armi Chimiche che Israele non ha mai inteso sottoscrivere. Le autorità di Tel Aviv dichiararono agli inquirenti olandesi che il materiale trasportato dal Boeing 747 non era tossico e che doveva essere utilizzato “per i filtri di prova contro le armi chimiche”. Anche alcuni ricercatori indipendenti hanno ritenuto che la quantità di dimetil metilfosfonato a bordo del velivolo non fosse comunque sufficiente alla produzione di Sarin a fini militari.

Nonostante l’inquietante profilo bellico del centro (in verità del tutto noto internazionalmente), il 10 luglio 2020 l’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze e la Fondazione Toscana Life Science hanno sottoscritto con l’Israel Institute for Biological Research un protocollo finalizzato alla ricerca di una cura contro il virus Covid-19. “Sulla base dell’intesa – riporta la nota dei partner italiani – l’AOU Careggi e la Fondazione TLS  implementeranno insieme all’IIBR, uno dei centri di eccellenza mondiali nel campo della ricerca biologica e fautore di un rivoluzionario sviluppo scientifico per la cura al covid19, studi sierologici su campioni di plasma di persone colpite e guarite dal virus, al fine di mettere a punto una terapia efficace basata sulla individuazione e clonazione di anticorpi monoclonali”.

L’accordo, come sottolineato dall’ambasciatore italiano in Israele Gianluigi Benedetti, è “frutto di una collaborazione avviata durante un colloquio telefonico tra il Presidente del Consiglio Conte e il Primo Ministro Netanyahu”.

Ad perpetuam rei memoriam.

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