Capitalismo digitale: non paga tasse e…

…licenzia, sfrutta e inquina

di Deborah Lucchetti (*)

Nei primi sei mesi del 2021 Amazon, Google, Microsoft, Facebook e Alibaba, per citare solo alcuni dei 25 giganti analizzati dall’Area studi di Mediobanca, hanno aumentato il fatturato aggregato del 31,1% e gli utili dell’80,2%. Ogni giorno intascano profitti netti per 27 milioni di euro. Amazon e Alibaba commerciano anche prodotti di moda e abbigliamento, merci online che non si sono mai fermate durante la pandemia, essendo rimasti sempre aperti i centri logistici che le smistano 24 ore al giorno, fino a 7 giorni su 7. La Clean Clothes Campaign ha calcolato cosa è successo nel primo anno della pandemia in 7 paesi chiave della produzione globale di tessile-abbigliamento: Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Sri Lanka, Myanmar e Pakistan. Risultato? 50 milioni di lavoratori hanno perso almeno 10 miliardi di euro, in tagli salariali e indennità non pagate e 1,6 milioni di lavoratrici sono state licenziate, senza preavviso, né Tfr e altre forme di indennizzo.

La stampa ha recentemente diffuso i risultati economici dei giganti dell’high-tech raccolti nel nuovo rapporto sulle software e web companies realizzato dall’Area studi Mediobanca.

Il settore gode davvero di ottima salute, anzi probabilmente non è mai stato così florido anche grazie alla benedizione della pandemia che ha spinto i fatturati del commercio online verso cifre da capogiro. Nei primi sei mesi del 2021 giganti come Amazon, Google, Microsoft, Facebook e Alibaba, per citarne solo alcuni dei 25 analizzati, hanno aumentato il fatturato aggregato del 31,1% e gli utili dell’80,2%. 

Ogni giorno intascano profitti netti per 27 milioni di euro, sì, avete capito bene, mentre in due anni hanno risparmiato in tasse, cioè soldi che avrebbero potuto finanziare servizi pubblici e ammortizzatori sociali, qualcosa come 24,5 miliardi di euro. Roba da sobbalzare sulla sedia.

Tra i marchi digitali menzionati, Amazon e Alibaba commerciano anche prodotti di moda e abbigliamento, merci online che non si sono mai fermate durante la pandemia, essendo rimasti sempre aperti i centri logistici che le smistano h24, fino a 7 giorni su 7.

Così i consumatori rinchiusi in casa ordinavano annoiati e disorientati profumi, pelouche, scarpe e vestiti, gli operai della logistica rischiavano di contagiarsi lavorando senza misure di sicurezza mentre fattorini e rider solcavano le strade deserte delle metropoli percorrendo l’ultimo miglio che separa i corridoi logistici dalla nostra porta di casa.

Mentre Amazon, Alibaba e molti marchi di moda macinavano ordini online e fatturati grazie ai nostri click, milioni di lavoratrici delle fabbriche tessili nei paesi di produzione subivano un impressionante furto salariale. La Clean Clothes Campaign ha calcolato cosa è successo nel primo anno della pandemia in 7 paesi chiave della produzione globale di tessile-abbigliamento: Bangladesh, Cambogia, India, Indonesia, Sri Lanka, Myanmar e Pakistan.

Ebbene, secondo stime conservative ed estrapolando i dati sui lavoratori principalmente collegati alle esportazioni, quindi alle catene di fornitura globali che alimentano i giganti delle piattaforme digitali, gli attivisti hanno stimato che 50 milioni di lavoratori hanno perso almeno 10 miliardi di euro, in tagli salariali e indennità non pagate.

Il rapporto stima anche che almeno 1,6 milioni di lavoratrici sono state licenziate, senza preavviso, né Tfr e altre forme di indennizzo. Tutto ciò in paesi dove quasi non esistono reti di protezione sociale e i governi non garantiscono ai cittadini ammortizzatori in grado di proteggerli durante le crisi.

Per questo è nata la campagna #PayYourWorkers, oggi sostenuta da più 200 organizzazioni tra sindacati e associazioni per i diritti umani, che chiede all’industria della moda, distributori digitali inclusi, di siglare un accordo per restituire ciò che spetta ai lavoratori.

Intendiamoci, si tratterebbe di una misura contingente e comunque insufficiente, dato che quei lavoratori prima della pandemia guadagnavano già salari da fame, ma da qui bisogna ripartire.

Tornando ad Amazon, i cui utili nel 2020 sono aumentati dell’84% per un patrimonio netto pari a 314,9 miliardi di dollari, e ripercorrendo all’indietro la sua filiera, incontriamo, ad esempio, 1.200 lavoratori della Global Garment, fabbrica altamente sindacalizzata del Bangladesh e forse proprio per questo chiusa lo scorso ottobre lasciando gli operai senza lavoro, salari e indennità.

Oppure 1.020 lavoratrici della Hulu Garment in Cambogia, raggirate e licenziate, dopo la firma di un documento che conteneva una clausola sulle dimissioni volontarie e che ha consentito all’azienda di trattenere 3,6 milioni di dollari di Tfr, soldi dei lavoratori.

Ovviamente il gigantesco furto salariale a danno delle lavoratrici del settore non è da imputare solo ai giganti del capitalismo digitale. Durante la pandemia, ad esempio, le 1.200 lavoratrici cambogiane della Violet Apparel, fornitore di Nike, sono state lasciate a casa improvvisamente senza l’indennità pari a 343.174 dollari.

E non sono le uniche: le ricerche della Clean Clothes Campaign mostrano che oltre 7.000 lavoratori nella catena di fornitura di #Nike hanno subito privazioni salariali dopo i licenziamenti di massa avvenuti durante la pandemia.

Quindi ricapitoliamo. I giganti dell’high-tech nei primi sei mesi del 2021 hanno accumulato profitti per 27 milioni di euro in media ogni giorno. Amazon da sola, nel 2020 in piena pandemia, ha fatto utili netti per più di 18 miliardi di euro, cioè oltre 50 milioni in media al giorno.

A Jeff Bezos perciò basterebbe attingere ai profitti maturati in poco più di mezza giornata per restituire ai 1.020 lavoratori della Hulu Garment almeno il loro trattamento di fine rapporto. Gli azionisti di Nike non sono da meno. Nel primo quadrimestre del 2021 hanno potuto celebrare profitti per 1,5 miliardi di dollari. Basterebbe meno del 5% per pagare le indennità maturate e non pagate agli operai in Cambogia, meno dell’1% (0,02%) per saldare i conti, minimi e al netto dei danni, con le lavoratrici della Violet Apparel.

Numeri freddi e persino impronunciabili, ma che rappresentano in maniera plastica la feroce strategia di estrazione di valore che dissangua i lavoratori lungo le traiettorie indisturbate delle catene globali del valore. Un moto perpetuo dal basso verso l’alto che va fermato, obbligando le imprese a siglare accordi vincolanti che blocchino l’emorragia di diritti in corso e redistribuiscano la ricchezza.

Firmare la petizione della campagna PayYourWorkers è un primo passo in questa direzione.

(*) Link all’articolo originale: https://comune-info.net/fermate-quellemorragia

Redazione
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