Germania: mattanza occupazionale nelle aziende meccaniche e…

e non solo. I guai dietro la facciata della sedicente “green economy”.

di Emiliano Gentili e Federico Giusti

PREMESSA

Pochi giorni fa scrivevamo dell’intesa sindacale nelle fabbriche meccaniche1 statunitensi, spiegando che l’accordo, per quanto migliorativo, escludeva numerose questioni che erano parti rilevanti delle rivendicazioni sindacali votate dalle assemblee dei lavoratori. Sempre nello stesso articolo2 focalizzavamo l’attenzione sui pericoli per l’occupazione nel suo complesso, derivanti dalle ristrutturazioni produttive operate per attrezzare gli impianti in funzione della produzione di auto elettriche. Quest’ultima è una componente della cosiddetta ‘svolta green’, che inizia a manifestarsi nella sua reale essenza con ripercussioni negative anche sull’industria meccanica europea e i lavoratori ivi collocati.

La Green economy

La green economy è una strategia di sviluppo orientata a una maggiore indipendenza dalle forniture di mercato internazionali e, nello specifico, dalle forniture di energia e di tecnologia3. Tralasciando le questioni “geopolitiche”, un’economia produttiva più indipendente è potenzialmente più efficiente: eliminando una parte degli attori di mercato internazionali consente una miglior integrazione delle filiere produttive nel Paese e una maggior sincronicità dei vari passaggi. In poche parole, conduce a un aumento della produttività.

In economie come quella italiana, caratterizzate da un basso tasso di efficienza degli investimenti, un consistente sviluppo della green economy potrebbe garantire nel breve-medio termine un aumento dell’occupazione, anche (o forse soprattutto) di quella specializzata. Altri contesti, ad esempio la Germania, potrebbero invece sfruttare l’aumento della produttività per ridurre i posti di lavoro, ossia i costi di produzione. In entrambi i casi si verifica uno sviluppo dell’organizzazione aziendale del lavoro, orientato a un aumento della produttività.

RIDUZIONE DELL’OCCUPAZIONE IN GERMANIA

In Germania, dove per altro esiste un forte sindacato nel settore metalmeccanico, la distruzione dei posti di lavoro è già iniziata: da studi della Confindustria locale arriva la previsione che circa il 40% dei posti del settore sarebbe a rischio e che, complessivamente, la forza lavoro impiegata nel settore meccanico potrebbe subire tagli superiori alle 300 mila unità. 

Del resto, già fra il 2022 e il 2023 erano andate perdute, magari con incentivi all’esodo, alcune migliaia di posti nelle aziende produttrici di macchine e della componentistica, mentre rispetto agli anni antecedenti la pandemia oggi si registrano 60.000 unità in meno, a conferma di una tendenza che dal settore meccanico si è estesa a tutta la manifattura industriale.

Insomma, si tratterebbe ancora una volta della solita ricetta padronale secondo cui i tagli sono indispensabili per il rilancio del settore, perché riducendo l’occupazione diventa possibile avviare i processi di ristrutturazione. Una ricetta presentata ogni volta in una salsa diversa, ma sempre occultando la salvaguardia dei margini di profitto per la proprietà e i grandi azionisti. 

E allora, se nelle principali fabbriche meccaniche tedesche si annunciano migliaia di esuberi (per via di una domanda in calo, nonché degli ormai evidenti ritardi nella riconversione ecologica per poter meglio competere coi produttori asiatici, o dell’aumento dei costi dei prodotti e delle sempre presenti speculazioni finanziarie), che fra l’altro arrivano pochi mesi dopo gli scioperi che hanno portato ad aumenti salariali superiori all’8%, si omette per esempio di dire che anche stabilimenti già attrezzati per la produzione di vetture elettriche saranno protagonisti dell’ondata di licenziamenti.

A questo punto sorgono spontanee alcune domande sul ruolo del sindacato, specie se pensiamo che l’IG Metall ha già dichiarato di condividere la riduzione di personale entro una logica di contrazione generale dei costi di produzione, invocando al contempo l’aiuto pubblico per limitare i danni (o forse semplicemente per raccomandarsi l’anima al Paradiso).

Ci chiediamo allora se gli accordi dell’inverno scorso non siano serviti a smobilitare l’opposizione operaia, garantendole, sì, incrementi salariali, ma ben sapendo che nei mesi successivi sarebbero iniziati i tagli occupazionali (a gestire i quali viene del resto chiamato anche il sindacato)!

Le strategie padronali, ma anche sindacali, saranno diversificate e ricorreranno di volta in volta a delocalizzazioni produttive, “spezzatini” vari dei siti, accordi sindacali per incentivare gli esodi, riduzioni orarie (non a parità di salario) e contributive, tagli al welfare aziendale. In alcuni stabilimenti si annunciano perfino cambi di gestione, magari per dichiarare illegittimi accordi sindacali di miglior favore stipulati negli ultimi anni (pratica diffusa, in questi casi).

La feroce ristrutturazione colpirà indistintamente fabbriche di macchine, di componentistica e di gomme con i loro variegati e vasti indotti. Il sindacato tedesco, dal canto proprio, ha da sempre costruito politiche di sinergia e condivisione delle strategie aziendali. Ci chiediamo dunque cosa possa fare, oggi, davanti a questi tagli occupazionali, se non prendere atto che in tempi di crisi la rinuncia ad ogni ruolo conflittuale possa al massimo destinare a governare la mattanza dei posti di lavoro, ma mai ad arrestarla.

Forse sarebbe necessario, se non proprio indispensabile, un ripensamento degli obiettivi sindacali. Parlare di reindustrializzazione delle aree in crisi è senza dubbio un obiettivo condiviso, fra aziende e sindacato, ma tale condivisione stride e lascia perplessi quando si scopre che è indissolubilmente legata a una spasmodica ricerca di riduzione del costo del lavoro.

Accettare gli esuberi, per via di una logica orientata ad accettare la “riduzione del danno”, potrebbe presto tramutarsi in un banchetto per l’imprenditoria capitalistica. E in tal caso, a farne le spese saranno sempre e soltanto i salariati.

La vignetta – scelta dalla redazione – è di Mauro Biani.

NOTE

1

Al settore meccanico (o metalmeccanico) compete la realizzazione di componenti o beni finali in metallo, nonché di macchinari industriali per la produzione di beni finali.

3

La fornitura di tecnologie è essenzialmente: componentistica elettronica, batterie, elettrolizzatori per la produzione di idrogeno (per i quali si prevede un impiego più esteso in futuro, ma che attualmente di norma non costituiscono un capitolo rilevante nell’import dei Paesi europei).

Redazione
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