La grande vittoria dei Seminole (e altre storie)

Un’anticipazione del libro «Gli indomabili del selvaggio West» di Luca Barbieri e a seguire la presentazione

La grande vittoria di un popolo “in fuga”

di LUCA BARBIERI

La seconda guerra Seminole è la più lunga, aspra e feroce guerra indiana mai combattuta dall’esercito americano, anzi in assoluto il più lungo conflitto sostenuto dagli Stati Uniti fra la guerra d’Indipendenza e quella del Vietnam. Una guerra, peraltro, persa perché i Seminoles non si arresero mai ufficialmente.

Il merito della loro vittoria va in parte all’ostilità dei luoghi dove la guerra venne combattuta, ovvero le famigerate paludi della Florida, vaste distese acquitrinose, ricoperte da una fitta en intricata vegetazione, ma, soprattutto, va allo spirito guerriero dei Seminoles: non si arresero perché non vollero farlo e – come leggerete – ne pagarono le conseguenze in termini di sangue versato e di sofferenze.

Ciò che riuscirono a compiere ha, comunque, dell’incredibile: in mezzo a tribù che si dimostrarono terribili, implacabili, tenaci e ostinati avversari per l’esercito americano (penso, per esempio, agli Apaches, ai Comanches o ai Sioux) i veri Indomabili furono i silenziosi guerrieri delle “acque morte” del Sud-Est.

Insieme a loro combatterono, con pari furia, gli schiavi fuggiti dalle vicine piantagioni. Il loro contributo fu importante, almeno all’inizio delle ostilità, e non può essere dimenticato. Costoro, scappando dalla frusta e dalle catene, trovarono riparo tra le fitte foreste della Florida, protetti dalla corona spagnola che governava il territorio (i neri che raggiungevano la Florida diventavano infatti sudditi spagnoli e, dunque, ufficialmente intoccabili) e dalle bande Seminole, che li accoglievano fra di loro. Questi ex schiavi – detti maroons, termine derivante dallo spagnolo cimarrones – si unirono agli indiani, assimilandone la cultura e il linguaggio e adottandone l’abbigliamento sfarzoso (tipico di questo popolo: ci torneremo); dal canto loro, mettevano a disposizione dei Seminoles la cultura imparata nelle piantagioni degli yankees e insegnavano agli indiani a leggere e a scrivere, oltre a fungere da ottimi interpreti. Essendo poi cresciuti nelle piantagioni americane, erano diventati grandi esperti in campo agricolo e dunque aiutavano gli indiani nel duro lavoro dei campi, permettendo loro di avere maggior tempo libero per la caccia e la guerra. Vivevano talvolta mescolati alle tribù ma, più di frequente, in piccole comunità autonome, non dissimili per usi e costumi dalle bande Seminole, e per questo furono chiamati “Black Seminoles”. Il loro unico obbligo era, sebbene non sempre, quello di versare un tributo in pelli oppure frutti della terra alle tribù che li ospitavano. Tale integrazione interrazziale fu col tempo completata da matrimoni misti e dalla nascita di numerosi meticci. Un testimone bianco commenta nel modo seguente i rapporti fra le due razze: “I neri abitano in villaggi separati dagli indiani e sono la più bella gente che io abbia mai visto. Vestono e vivono praticamente come gli indiani: ognuno ha un fucile e va a caccia per una parte del suo tempo. Come gli indiani lavorano la terra in comune e coltivano a parte un campo per gli indiani […] Sono comunque molto intelligenti […] e molti parlano inglese, spagnolo e indiano.”  La loro presenza tra le fila degli indiani divenne, col tempo, davvero ragguardevole: delle ventinove bande che nel 1821 abitavano la Florida, ad esempio, almeno tre erano composte esclusivamente da ex schiavi, mentre nel 1837 dei cinquantacinque membri della banda di Osceola catturati dai soldati, soltanto tre risultarono essere Seminoles mentre i restanti erano neri.

Poste determinate condizioni specifiche, come l’odio comune per gli yankees e lo scarso numero complessivo che non creava contrasti per l’accesso alle risorse, l’integrazione tra Seminoles e neri rappresenta un vero e proprio traguardo per le comunità di tutto il mondo, un esempio di perfetto interscambio culturale dove entrambi i popoli coinvolti ci guadagnano. Dove, in definitiva, il risultato complessivo è maggiore della semplice somma degli addendi.

Il destino, in qualche modo, doveva aver previsto tutto ciò, visto che, se è vero che nomen omen, entrambi i nomi assegnati alle comunità coinvolte nel processo di integrazione e alleanza (ovvero Seminoles e maroons) ha a che fare con il concetto di “gente che fugge”. La connotazione appare evidente per gli schiavi, in fuga dalle piantagioni, il cui nome deriva, come detto, dalla parola spagnola cimarron, ovvero selvatico, fuggiasco; ma è vera anche per i Seminoles: questa denominazione, infatti, proviene dal vocabolo simanòle, che, nella lingua muskogee da loro parlata, vuol proprio dire “fuggire”. Quindi i Seminole sono, letteralmente, “coloro che fuggono”, un termine che, a conti fatti, va davvero stretto ai membri dell’unica nazione indiana che non concluse mai trattati con i bianchi. […]

Osceola, capo Seminole

L’assedio di Alamo, la resistenza dei Seminole e la battaglia di Camerone: presentazione del nuovo libro di Luca Barbieri (*)

  “Dammi soltanto un posto da difendere, e io e i miei ragazzi lo difenderemo.” Così disse Davy Crockett al colonnello William Travis una volta che lo ebbe raggiunto con il suo pugno di volontari del Kentucky. O almeno questo ci racconta la Leggenda.

O, nello specifico caso, anche Luca Barbieri, che è tornato a scrivere di West nel suo modo tipico: raccontando la Storia con la S maiuscola attraverso la lente della storia con la S un po’ meno grande, quella che appartiene alla vicenda privata dei protagonisti. Che spesso, forse costretti dagli eventi o per autentico orgoglio, si rivelarono eroi.

Il libro racconta tre storie realmente accadute: l’assedio di Alamo, la resistenza dei Seminole e la battaglia di Camerone, tre eventi, noti e meno noti al grande pubblico, raccontati come si farebbe sulle pagine di un romanzo.

Perché cos’è la storia se non la cornice dell’avventura?

Le tre storie sono state scelte da Barbieri per la straordinaria lezione di dignità e coraggio che danno; a distanza di oltre un secolo, ancora riecheggiano di uno straordinario urlo: mai arrendersi! Gli eroi che ne sono stati protagonisti (bianchi e indiani, senza alcuna distinzione) sono esempi di virtù e forza; sono uomini che non si sono piegati all’altrui violenza, nemmeno nei momenti più drammatici e cupi, e sono andati incontro al loro ineluttabile destino. Niente e nessuno è riuscito a fermarli e la morte è stata solo il coronamento dei loro ideali di coraggio e onore, doti che hanno permesso di continuare a ricordarli come veri e perfetti Indomabili. Ciò che le storie di questo libro hanno da dire.

Sono cresciuto guardando Rocky, guardandolo rialzarsi dopo ogni singolo pugno ricevuto.

Niente era mai abbastanza per tenerlo giù, a terra; eppure, pensavo, sarebbe stato facile arrendersi, con la bocca gonfia di sangue e di dolore rappreso. Perché, allora rialzarsi? Me lo sono chiesto un centinaio di volte, finché non sono stato io a essere buttato a terra; e allora ho capito. Quando mi hanno buttato giù, e sarebbe stato facile rimanere a terra, e mi sono rialzato, nonostante tutto, allora ho capito.

E poi c’è stato Daredevil, l’eroe Marvel cieco e dotato di una specie di sonar, come i pipistrelli. Non è però quello il suo superpotere, non lo sono i sensi ipersviluppati né l’agilità. Lo è la rabbiosa determinazione di un ragazzino cresciuto con un semplice comandamento nella testa: mai arrendersi. E’ ciò che urla al cielo, il Diavolo Custode di Hell’s Kitchen, quando, con le ossa spezzate dai colpi di Kingpin, si rialza. Comunque e nonostante tutto. Anche se sarebbe stato più facile stare giù, a terra.

Rocky Balboa e Daredevil, e il terreno sul quale rimbalzano. Sembra fatto di gomma, perché li respinge, li ributta sempre in piedi.

Questo libro non parla di Rocky e Daredevil, sebbene in qualche modo lo faccia e sia, in ogni caso, a loro dedicato; questo perché da loro nasce, come tantissime altre cose che mi attraversano gli occhi della memoria.

Ma nemmeno parla del Far West, se non incidentalmente. Perché il luogo dove una storia si svolge non è importante quanto ciò che vi accade. Potrebbe essere la Frontiera americana, il Mezzogiorno italiano attraversato dalle fiammeggianti cariche dei Garibaldini, i boschi fradici di pioggia dove i nazisti cercavano di snidare le bande partigiane, oppure altri, disseminati come chiodi sulla superficie diseguale di un mappamondo.

Dovunque, nel mondo, c’è stato, c’è e ci sarà chi preferisce lasciarsi cadere a terra e chi, dopo esservi stato gettato a forza, si è rialzato.

Questo libro, in definitiva, parla di uomini e racconta la loro storia; uomini della Frontiera americana perché, sì, per me è quello il luogo per eccellenza del Sogno, la terra a mezza via tra la realtà più cruda e l’ideale più irreale. Ma nel leggere le prossime storie, non dimenticate mai che sono successe davvero. Non sono favole. Per questo il loro esempio vale così tanto.

Ciò che quelle storie hanno da dirvi, in fondo, è facile: anche se la strada più comoda da prendere è quella di stare giù, a terra, e guardare da un’altra parte, e chiudere gli occhi, e svenire, basta ripetersi in testa una cosa: mai arrendersi.

Il resto viene da sé.

(*) «Gli indomabili del selvaggio West» – 172 pagine, 15 euri – è pubblicato da Odoya, l’editore che aveva già edito «Storia dei pistoleri» dello stesso autore (e sull’omicidio di Wild Bill Hickock la “bottega” gli aveva chiesto un post che potete leggere qui:  Scor-data: 2 agosto 1876). Di un altro libro di Luca Barbieri si è parlato qui: Luca Barbieri: “Storia dei licantropi”. Lo ripeto? Nessuna parentela fra Luca e il Daniele di codesta bottega. [db]

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *