Grotteria: piccoli agguati, baci, zittellaggi, sangue e…

e compari.

Mauro Antonio Miglieruolo fra ricordi e considerazioni fuori dal tempo

1

Sembra che anticamente, per sposare una ragazza il cui padre avesse mostrato contrarietà al matrimonio (era al padre che spettava la giurisdizione in merito – e anche in altri meriti); per superarle fosse costume organizzare una sorta di agguato all’uscita della funzione domenicale. Si trattava – con azione fulminea degna di un addestratissimo commando – di deporre un bacio fugace sulla guancia della sposa negata. Bastava. Una vera e propria presa di possesso. Nessuno avrebbe voluto più sposare una tanto visibilmente compromessa: nessun altro che il responsabile della compromissione. Che l’aveva commessa appunto allo scopo di rendere vani resistenze, obiezioni, contrarietà, riserve mentali.

La ragazza non era più nuova, era “mungiuta” (munta), di seconda mano, disonorata. O sposava il baciatore o era destinata a una vita di zitellaggio.

Immaginate la scena. Il sole sul sagrato della chiesa. La gente che esce, si saluta, è allegra, onora oltre il padre e la madre, anche la bella giornata di primavera, estate o autunno (a seconda del caso: a Grotteria è facile che in ogni stagione il tempo sia buono). Nella confusione della tanta gente, nei richiami cordiali: cumpari come stati, come voli u Signuri! E vostra mugghieri comu? Iiiih! O solitu! ficatu, stomacu e mali di panza… ecchì ‘ndavimu u riparamu! eccetera, eccetera; approfittando del buonumore domenicale, il pretendente s’avvicinava quatto quatto, eventualmente favorito da compari incaricati di distrarre i parenti della “vittima”. Giunto a portata di guancia scoccava il bacio galeotto, e di conseguenza anche a un parapiglia degno di un incontro di calcio stracittadino. Con possibili esiti di liti furibonde, cazzotti a go-go, coltellate (se non addirittura fucilate); e inimicizie che duravano una vita, sempre che non intervenisse la rappacificazione dovuta al “matrimonio riparatore”. Ma che c’avevano in testa questi nostri antenati?

Conseguenze gravi, dunque. Un bacio? Ma scherziamo? E chi a volarria una basata e puru toccata? Sarebbe equivalso a dichiararsi cornuto volontario, soggetto alle critiche, ai ghigni, a risatine irridenti alle spalle. Ovunque fosse andato si sarebbe portato dietro le stimmate di uomo leggero, senza cujjhuna! (coglioni)

Uguali ragioni guidavano i fidanzamenti, che potevano essere celebrati, ma non rotti. Voglio dire, non è che si passasse direttamente dall’intesa al matrimonio. Ma tra l’una e l’altro c’era un intervallo che equivaleva in quanto a obblighi al matrimonio, senza che dello stesso venissero sfruttate tutte le opportunità. Si trattava di pazientare finché non venissero appianate difficoltà economiche, di lavoro o raggiungimento di determinate età. Una volta raggiunta l’intesa tra famiglie, questa non poteva più essere disattesa. La rottura dello zitellaggio, dio ne guardi! anche nel caso in cui la ragazza fosse la più seria e affidabile del mondo, era quasi impossibile trovare il modo di maritarla. Dove trovare uno che se la prendesse, DOPO? considerando la possibilità vi potessero essere stati indugi di mano nella mano, toccamenti e baci persino? I due erano stati sempre ed effettivamente sorvegliati a vista da matrone la cui onorabilità era a prova di lupara?

E poi, ragioniamo, perché non onorare un impegno la cui rottura comportava molte e svariate conseguenze? Il caso era tanto inusitato da richiedere obbligatoriamente alle fantasie di dispiegare le proprie potenzialità. L’ex-fidanzato era forse venuto ma conoscenza di segreti dei quali era obbligatorio tenere all’oscuro le moltitudini? Aveva saputo come non fosse illibata? Nascondeva qualche grave malattia? S’era mostrata civetta? Nella famiglia c’era qualcuno con cui era meglio non imparentarsi? Questi e altri i dubbi inevitabilmente avrebbero accerchiato la bella, isolandola dalla comunità.

In ogni caso, un bacio sulla guancia era un bacio sulla guancia. Coram populo poi! Bastava a discreditare la ragazza per sempre. Costringerla a un “monacamento” laico eterno indefettibile…

Stenterete a crederlo, ma è vero. Un uso ridicolo del profondo Sud che sembra avesse preso piede anche a Grotteria. Dove per le donne schiette (non maritate) non erano previste normali uscite di casa se non per andare in chiesa. Occasione mirabile per i pretendenti rifiutati dal padre (la ragazza a volte neppure lo veniva a sapere che era stata chiesta in sposa). Quell’uscita di casa – mannaggia anche alla religione – costituiva l’unico punto debole della corazza di sorveglianza che “la proprietà collettiva” (cioè, della famiglia) erigeva a protezione del mezzo di produzione di figli. Ecco allora il conseguente contrappasso di adattarsi a mettere insieme vari caraggi (una scarica di legnate era il minimo che potesse conseguire) e, rapido serpente, allungare il collo e come picchio stampare le labbra sulle guance della vergine.

Apriti cielo! Subbuglio, grida, strazio della giovane, compromessa irreparabilmente. Mormorio della folla atterrita. Un fatto di sangue si approssimava. L’audace o si riparava dietro un cerchio di complici (amici e parenti) che subito intervenisse per scusare, garantire – lo scemo aveva intenzioni oneste, scemo ma bravo, onesto lavoraturi – oppure era costretto a filarsela. Subito, prima che gli amici e parenti opposti passassero a vie di fatto. A meno che non avesse sufficiente prestanza per presentarsi davanti al padre e dire: Perdonate, Mastro Pietro, ho voluto troppo bene alla figlia vostra. O cori nun si cumanda. Ormai il danno è fatto. Eccomi qua, a disposizione. Posso e voglio rispondere. Poiché, se riusciva a snocciolare anche solo l’incipit del discorso, senza venire accoltellato d’un subito, poteva essere riuscisse a cavarsela. Il padre si rassegnava facendo buon viso a cattiva sorte. La sposa dalle lacrime passava ai sorrisi.

Lo stesso l’audace avrebbe pericolato. Molto, davvero. A parte il dover affrontare la furia del parentado, che poteva dare luogo a atti inconsulti; il vero pericolo risiedeva nella imprevista presenza di qualcuno armato, un fratello della sposa, ad esempio, che avesse aspettato furori dalla chiesa per salutare prima di andare a scovare un cinghiale che gli aveva distrutto mezzo raccolto. O armato solo per intimidazione. Far sapere a tutti che possedeva un fucile (propaganda inutile: tutti lo sapevano) ed era sempre pronto a adoperarlo. Ci voleva un niente a imbracciare l’arma e far partire un paio di colpi: Per stutare l’indegno scostumato e pure cornutu futtutu in culu che troppo aveva osato.

Fottuto in tutti i sensi. La libertà sua consumata in quell’atto da sparviero. Giunti a quel punto, sottrattosi alla furia parentale, ricevuto la schiaffiata d’obbligo, non è che avesse molte alternative. Anche si fosse reso conto che la ragazza non gli piaceva, che non era “seria”, bisognava si adattasse a sposarla. O la sposava o era difficile riuscisse a salvarsi dalle scupettate. Si poteva rifugiare dove voleva, anche nel lontano nord: i mille chilometri non avrebbe ottenuto di evitare il matrimonio riparatore.

A comprova vi racconto un caso del quale sono stato parziale testimone. Un racconto nel racconto.

Mi viene presentato (sede INPS di Roma, dove lavoravo) un disgraziato che aveva commesso molto meno, cioè s’era fidanzato con rito ordinario senza passare dal conforto di un bacio fugace. Dopo il fidanzamento, sedotto dai sorrisi di un’altra, aveva cambiato idea e rotto l’impegno assunto.

E pensare che la promessa aveva potuto avvicinarla, al più, alla distanza di circa un metro, un metro e mezzo! Ebbene, il volubile promesso sposo, un buon partito per altro, dipendente dell’INPS, minacciato di morte se non ritornava sui suoi vecchi passi, aveva chiesto il trasferimento a una diversa sede. Motivando con i retroscena che sapete. Il datore di lavoro si era sbrigato a consentire. Non voleva che l’Istituto finisse sui giornali per ammazzamenti e questioni di vendette. Poche settimane e ricevette una raccomandata dove, con toni suadenti, lo si pregava tornasse ai patri lidi per ottemperare ai suoi “doveri d’uomo”. Il poveretto aveva chiesto un nuovo trasferimento ma poco dopo aveva ricevuto una analoga raccomandata. Essendo subito dopo costretto a ripetere la domanda di trasferimento, causa raccomandata di gentile minaccia. Aveva inutilmente fatto il giro delle Sette Chiese: Bologna, Milano, Aosta, Bergamo, Genova, Firenze e infine Roma. Ovunque si recasse, poche settimane dopo aver preso servizio, riceveva una raccomandata contenente la benevola esortazione a tornare in paese per chiudersi un carcere ufficiale di felicità. Niente vere minacce. Solo raccomandazioni, preghiere, inviti alla correttezza. Non occorreva minacciare. La minaccia unica e ineludibile era la raccomandata medesima. Che equivaleva a dire: ti teniamo d’occhio, sappiamo dove sei, in qualunque momento possiamo venire a prenderti.

Il trucco utilizzato dai parenti era geniale e nello stesso tempo semplice. La gente eticamente complicata spesso ha di queste geniali trovate. Inviavano una raccomandata a suo nome a ciascuna delle sedi in cui poteva essere stato trasferito (l’INPS all’epoca credo ne avesse 92). Tornavano tutte indietro, esclusa naturalmente quella ultima nella quale vanamente cercato rifugio. Al quindicesimo o ventesimo trasferimento cedette. Piegò la testa e ritornò dove doveva, per impalmare la sua bella. E tutto finì in gloria.

Adesso però non scandalizzatevi. Do ragione al buon tempo antico. Un bacio è un bacio, che diamine! Si può mica fingere non sia successo nulla. Un bacio preso sul serio è una sorta di giuramento, una dichiarazione (ti amerò per sempre), una presa d’atto e un’offerta. Sono tuo, voglio non avere altro Dio al di fuori di te, ti amerò più di me stesso… perché ove ti amassi quanto me stesso, saresti proprio nei guai, piccina mia (piccina? Certe walkirione!)

Ragionate. Gli antenati sapevano quel che facevano. Una volta creato l’ambiente claustrofobico nel quale si sopravviveva, bisognava che usi e costumi e comportamenti si adeguassero. Garantissero. Insomma, che ogni cosa venisse aggiustata nei previsti obblighi sociali: permettere allo sposo di avvicinare anzitempo la sposa non era bene. La gente, che mormora sempre, avrebbe avuto allora ben ragione di mormorare. E se poi il promesso sposo, ce ne sono di maliziosi, oltre che di irruenti! se il promesso sposo avesse allungato le mani appositamente per sondare la bella e verificarne le reazioni? Succedeva anche questo. Se dopo il fattaccio (non pensate chissà che: una toccatina) si fosse tirato indietro accampando la poca serietà della promessa? Sarebbero state ugualmente botte, accoltellamenti e fucilate, per non parlare delle vendette postume, magari a venti anni di distanza, ma non si sarebbe potuto insistere più di tanto. Che diamine, una coltellata, un po’ di sangue versato e la partita, per l’intero contado, sarebbe stato da considerare chiusa. Pari e patta. Scambio di sangue riparatorio con offesa: la poveretta destinata allo zitellaggio; il poveretto che infine – dopo le preoccupazioni, le paure, ogni cespuglio in sospetto di nascondere un nemico spietato (magari un mese di ospedale) – tornando a casa trovava non più pensieri e paure, ma la tranquillità di innumerevoli buonanotte. Nella solitudine, certo; ma senza maligni pronti a sogghignargli dietro (per la discutibile, discussa mogliera); o malintenzionati pronti a fargliela pagar cara.

Niente castelli in aria, comunque. La nostra non è storia di intreccio e di sangue, non certo degna di tiri al piccione nascosti dietro i cespugli; o paragonabile ai tumulti conseguenti a una fuitina (uso siciliano). E nemmeno lontanamente paragonabile agli avvenimenti ridanciani contenuti nell’immenso poema La Secchia Rapita!

Abbiate pazienza. Non io, i fatti ve lo dimostreranno.

2

Subito dopo la guerra a Grotteria capitò un fatto curioso. Un fatto che non esito a definire liberatore. Un giovanotto di pessime speranze, invaghitosi di una delle tante belle del paese (Grotteria è famoso per la gran copia di belle donne che l’abitano: mi correggo, che l’abitavano) pur essendo consapevole della propria condizione di scioperato, ultrapovero senza arte né parte, sovrastato dai suggerimenti delle tante chimere che lo dominavano, prese il coraggio a due mani e chiese udienza a colui che aspirava far diventare “u sumpessari”: Il suocero.

Mastru Petru, permettiti na parola?”

Puro du,” rispose cortese Mastro Pietro, ignaro di ciò che bolliva nel cuore del compaesano.

Il tizio, timoroso di avere in risposta qualche scortesia, magari un buffettone, esitò alquanto. E poiché Mastro Pietro lo sollecitava con l’espressone del viso, senza grandi giri di parole si decise a chiedere la mano della ragazza.

Ora, una cosa è fare appello all’indulgenza di un uomo cortese, ben altro stuzzicarlo chiedendogli in sposa la figlia; lui spiantato nullafacente che fin’ora non aveva combinato nulla di buono. E minacciava di continuare a camminare con lo stesso passo indolente.

La prese male. S’oscurò in volto. Spento il sorriso. Senza tanti giri di parole, rispose no, sua figlia era una principessa, per lei minimo il medico condotto, un avvocato, un direttore di banca…

La medesima risposta diede, qualche giorno dopo, a un sensale di matrimoni, che venne a bussare alla sua porta. Pur non pronunciando il no tondo tondo con il quale aveva gratificato il pretendente, face capire la propria indisponibilità. Rivolgendo al sensale alcune brevi domande. La cui risposta ognuna implicava quel no tondo che non aveva pronunciato:

Mi sapiti diciri cosa faci iju intra a vita?” (Mi sapete dire che fa nella vita?)

U sapiti che ‘ndeppi du cundanni? E ‘ndavi appena vintanni…” (sapete che a ventanni, ha già due condanne?)

È veru ch’iji chi si dici, che è femminaru?” (Si dice sia puttaniere. È vero?)

Per concludere con un pacato discorso:

Sentiti a mia. A me figghia ‘nci vogghiu troppu beni pemmu ‘ncià dugno a nu mezzu delinguenti. E po’ è beni che si staci n’antri pochi d’anni a casa mia.” (Sentite, a mia figlia voglio troppo bene per affidarla a un mezzo delinquente. E poi voglio stia con me un altro poco d’anni.)

Era vero e non era vero. Alla ragazza voleva bene, gli dava conforto vederla per casa, notare come fosse cresciuta bene e piena di senno. Ma anche lui aveva fretta, non si sapeva mai. Tempo sei mesi dai fatti narrati infatti la maritò al primo serio pretendente che gliela chiese. Motivando:

È troppu beja. Troppu. Ci pensi il marito a guardarla (guardarla, nel senso di difenderla dalle insidie della vita). Io sto diventando troppo vecchio.”

Le donne, un bene da custodire, erano fonte perpetua di preoccupazione. A principiare dalla dote, che il marito non chiese, ma comunque ottenne.

Prima di quel matrimonio però l’aspirante sposo tentò una penultima mossa. Molto più infelice e insensata di quella di mettere il suo destino nelle mani (nella capacità diplomatiche) di un sensale.

Il giovane – nelle considerazioni del padre uno scioperato – ritenne possibile ottenere il sussidio di un personaggio molto più importante. Un certo “don” la cui parola pesava come un macigno; e che poteva evitare o procurare una scarica di lupara. Lo scemo del villaggio non avrebbe deciso peggio. Il “don” l’ascoltò irritato, senza voglia alcuna di utilizzare la cortesia per la quale era diventato famoso. Lui sempre affabile e sorridente, alla mano, buono con tutti.

Sentite a mia,” rispose brusco all’istanza del piccolo uomo. “Cacciatevela dalla testa. A fimmina non è pe’ vui…”

Solo dopo quel “vui” seppe – s’era distratto un pochino – del progetto di parentado tra il “don” e Mastro Pietro. Ma domandando domandando, la distrazione gli passò. Seppe che un primo cugino del “don” intendeva far battezzare un suo neonato da un primo cugino di Mastro Pietro. San Giuvanni, comparaggio serio, non si scherzava cu San Giuvanni.

E po’” aggiunse il “don” sempre sul nervoso, “mi pigghiastuvu pe’ ruffianu a mia? ‘Ntè sti nbrogghi non ci vogghiu trasiri!”.

Così liquidato, al pretendente avrebbe dovuto bastare. Tanto più che la ragazza non aveva mai inviato segnali di gradimento. Salvo uno iniziale, probabilmente fortuito, o forse solo per gettare lo scandaglio, che però era bastato ad accendere il fuoco nel sangue del giovanotto. In ogni caso la ragazza, messa a conoscenza della contrarietà del padre, se pure avesse voluto, aveva smesso di volere.

Non bastò all’ostinato per distrarsi dalle proprie intenzioni profane, che lo indussero a imboccare la via maestra che avrebbe potuto portarlo alla perdizione. Lasciò passare le settimane necessarie a tranquillizzare chi doveva essere tranquillizzato. Poi fece la sua mossa.

All’uscita della messa domenicale, rapida vipera, veloce abbastanza da superare l’occhiuta sorveglianza del padre, si fece da presso e rifilò un bacio sulla guancia della spaventatissima figliuola. Che si diede a urlare. A piangere, a invocare soccorso. Accompagnata da altre grida d’indignazione che immediatamente si levarono a fargli bordone. Alle grida fecero seguito le imprecazioni dei parenti che misero subito mano ai marrugi (nodosi bastoni) e ai coltelli a serramanico. Il poveretto, circondato da tanta funesta intenzione, raccomandò l’anima al signore. Non tanto per la furia dei parenti, frenata dalla necessità di non stutari (spegnere) l’infame e quindi annientare le ormai esigue possibilità della ragazza di trovare marito. Quanto dalla sicura noncurante superiorità, intimidente superiorità, con la quale il “don” avvicinò il futuro compare, Don Pietro. Per assicurargli:

Non v’incarrivati, u fazzu aggiustari e’ a stu puorcu.” Parole che lo scemo non udì, ma riuscì a immaginare.

Al che il padre rispose ridendo:

Vi ringrazio, cumpari. Vi ringraziu assà. Due calci in culo sono capace anche io di rifilarglieli.”

E l’impegnu ca quotrara (la ragazza)?”

Ma quali impegnu e impegnu! Iju nenti fici. Nenti. A me figghia s’andavi a scurdari. Du cauci in culu e la finimu.”

I calci in culo in verità c’è chi dice siano stati quattro, chi otto e chi addirittura sedici. Impossibile stabilirlo nel parapiglia che seguì. Troppo le grida e i lamenti. Con i fratelli che gli davano addosso insolentendo e dandogli quel che meritava.

E, figghiu i buttana! E cornutu! Cafuni! Cacaruni! T’insegnamu nu la doquazione, t’insegnamu! … Con tanta veemenza che il povero padre fu costretto a intervenire per toglierglielo dalle loro mani, invece di dargli di persona la lezione che meritava.

Cosicché lo salvò. Anche se non riuscì a preservargli dignità e culo, sul quale ebbe difficoltà a sedere, tant’erano i calci che ricevette. Le parole del padre fecero il giro del paese e convinsero i più a non dar retta. Niente aveva fatto. Niente. Solo la figura dello stupido.

Ma la vera salvezza fu per le giovani da marito di Grotteria. Che nessuno più osò insidiare rinverdendo la tradizione.

E vissero tutti felici e contenti. Forse.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *