Il destino immobile

di Riccardo Dal Ferro

saturnoDi quali carnefici siamo le vittime? E di quali altri desideriamo esserlo?

Abbiamo dimenticato gli agenti attivi che hanno fatto del nostro passato un grande secolo e ci siamo fossilizzati sull’immagine di un passato cinico, sanguinoso e ingiusto. Il Novecento, secolo del suffragio universale, delle conquiste sociali, dell’ideale sconfitta del razzismo; il Novecento, secolo dell’istruzione per tutti, dell’uguaglianza tra uomo e donna, è diventato il secolo breve, il secolo degli olocausti (come se i secoli precedenti non contassero eccidi in proporzione ancora più sconvolgenti), il secolo della colpa.

 

Si tratta della retorica della vittima. Si tratta di un vaccino contro la tragedia che ferma il tempo e immobilizza il destino. Siamo già ontologicamente vittime potenziali di qualche cosa: un tiranno, uno zingaro, una crisi economica, una truffa, e in questo modo siamo da un lato autorizzati a non compiere alcun movimento per evitare di divenire vittime fattuali, dall’altro a giustificare ogni abiezione con l’alibi del succube.

“Nel populismo non c’è amore senza nemico, e nessuno individua un nemico senza sentirsene vittima reale o potenziale”, scrive Daniele Giglioli nel suo sempre poco letto “Critica della vittima”. E così costruiamo i nostri carnefici ad hoc, così da auto-esentare la nostra condotta da qualsivoglia giudizio di valore.

Una delle grandi conquiste del Novecento fu l’intuizione di Freud secondo la quale il mostro e la sua vittima nascono da un medesimo dispositivo psichico. Ma oggi, guardandoci intorno, altro non vediamo che l’emergere di mostri assoluti che minacciano la vita e la serenità delle vittime assolute. Fabbrichiamo i carnefici necessari a designarci quali vittime: serial-killer, virus inarrestabili, incidenti aerei, stupratori invisibili, vampiri, dittatori d’oltreoceano, sotterfugi finanziari. E tutto ciò viene fabbricato per permetterci di porre la bandierina dell’inizio della storia dove vogliamo noi, rimuovendo il passato.

L’esempio più eclatante di questa tendenza l’abbiamo avuto con l’11 settembre. La vittima ontologica, cioè colui che a tutti i costi deve essere succube di qualcosa (perché chi subisce è incolpevole), fa iniziare con quella data una nuova storia, cancellando de facto i presupposti sociali, politici e storici che scatenarono quel tragico evento.

Al contrario, l’approccio razionale, storicista, archeologico, dimostra che quell’evento non può essere slegato da una serie di processi riconoscibili che hanno portato a un epilogo così drammatico. Processi nei quali non esiste più la possibilità di separare nettamente l’immagine delle vittime da quelle dei carnefici, ma nei quali domina quell’inaccettabile concetto della “zona grigia” raccontata da Primo Levi nel capolavoro “I sommersi e i salvati”. Ma questo secondo approccio non è utile a fini populistici e propagandistici: se così fosse, infatti, la comprensione delle ragioni dell’una e dell’altra parte sostituirebbe la reazione emotiva che, più di ogni altra cosa, sostiene le ragioni di una risposta bellica e quindi economicamente vantaggiosa.

La vittima ontologica pone “l’anno 0” dove più le conviene.

Ma torniamo in Italia e costruiamo il medesimo ragionamento in casa nostra. Noi siamo il Paese perfetto per questo tipo di fenomeno che ormai si ripete incessantemente da tempi immemori. L’avvento di Silvio Berlusconi non può che essere letto sotto la lente di questo vittimismo radicale: la classe media italiana era vittima di raggiri politici, inganni istituzionali, sotterfugi di palazzo, e l’evidenza secondo la quale un certo tipo di condotta veniva fatta sopravvivere con il silenzio assenso di tutti fu nascosta sotto il tappeto. Vittime eravamo e, come tali, solo un salvatore poteva trarci fuori da quel fango. Un salvatore che, in barba al legittimo sospetto secondo cui fosse tutt’altro che un innocente, costruì il suo successo vestendo i panni dei succubi e delle vittime.

Così oggi, replicando testardamente lo stesso modello di pensiero, ci troviamo proiettati nuovamente nel passato. Infatti, ponendo arbitrariamente l’inizio della storia nel 2008, ecco una cricca di malvagi banchieri d’oltreoceano che scatena dal nulla una crisi finanziaria che fa sprofondare tutti nel baratro della recessione, come se fino al 2007 nessuno sapesse che questo sarebbe inevitabilmente accaduto, che un tenore di vita come il nostro non era sostenibile, dal momento che i metodi con cui veniva sostenuto erano anti-etici e persino illegali. Se solo sospendessimo per un momento quell’arbitrario “porre l’anno 0”, ci accorgeremmo che non siamo vittime di una crisi piovuta dall’alto, ma siamo i carnefici della nostra stessa serenità. Ma questo è un argomento che, per ovvie ragioni, fa poca presa sull’elettorato.

Perciò, eccoci ancora qui, a dare voce al salvatore di turno che tragga le vittime fuori dal fango in cui i malvagi le hanno gettate. E il malvagio prende le forme più disparate: l’Europa burocratica e tecnocratica, lo spread, lo zingaro e il clandestino, l’ISIS, lo stupratore seriale, il pedofilo irredento, il terrorista che arriva dal Mediterraneo, il dittatore coreano o l’epidemia di ebola, e tutto, così facendo, rimane perfettamente immobile a vent’anni fa, quando i processi di questo risentimento filosofico funzionavano a gonfie vele.

La conseguenza di tutto questo è che il destino si immobilizza dentro una bolla di stasi che noi costantemente facciamo ricominciare, ponendo l’anno 0 a nostro piacimento e a nostro profitto. Cambieranno i nemici, cambierà “ciò che ci hanno tolto”, cambieranno i volti dei salvatori, ma ciò che non cambia è la sostanza della menzogna nella quale ci arrabattiamo inutilmente. Avremo il sempreverde mostro di turno e saremo la costante vittima delle nostre paure e, convinti così di proteggerci dal tragico che ci attende, dall’anarchia del futuro, dall’imprevedibilità degli eventi, preferiremo la stasi eterna del nostro vittimismo, fino a che non ci accorgeremo che il nemico ci albergava dentro, che il mostro rideva nelle nostre viscere; fino a che non lo riconosceremo allo specchio e sarà troppo tardi per fermarci dal compiere i peggiori crimini che un uomo possa immaginare.

La cosiddetta “morale dello schiavo” di Nietzsche altro non è se non questo: rinunciare alla propria responsabilità nei confronti del destino, alla possibilità di gettarci a capofitto tra le sue braccia, alla gioia di sapere che non sappiamo dove questo tuffo ci porterà, per accontentarci della paura che pietrifica, costruendo un mondo di illusioni e alibi che sostenga questo destino immobile che è l’Italia di oggi.

Quando riusciremo ad ammettere che il mostro siamo noi, che la crisi siamo noi, che i carnefici siamo noi, che quindi l’unico salvatore del mio destino sono io, allora forse riusciremo a fare un passo avanti nel raggiungimento di un mondo più equo nel quale potremmo diventare finalmente padroni dei nostri desideri.

Riccardo DAL FERRO

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