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La Bottega del Barbieri

Il genocidio continua, con l’appoggio dei complici occidentali

articoli e video di Chris Hedges, Clara Statello, Maktoob, Saul J Takahashi, Jonathan Ofir, Emad Moussa, Stefano Baudino, Michele Giorgio, Elena Basile, Manlio Dinucci, Giuliano Marrucci, Katia Trombetta, Giacomo Gabellini

QUI un video sul genocidio a Gaza

 

 

Chris Hedges: I quattro cavalieri dell’apocalisse di Gaza

La cerchia ristretta di strateghi di Joe Biden per il Medio Oriente – Antony Blinken, Jake Sullivan e Brett McGurk – ha una scarsa conoscenza del mondo musulmano e un profondo astio nei confronti dei movimenti di resistenza islamici. Vedono l’Europa, gli Stati Uniti e Israele come coinvolti in uno scontro di civiltà tra l’Occidente illuminato e un Medio Oriente barbaro. Credono che la violenza possa piegare i palestinesi e gli altri arabi alla loro volontà. Sostengono che la schiacciante potenza di fuoco delle forze armate statunitensi e israeliane sia la chiave della stabilità regionale – un’illusione che alimenta le fiamme della guerra regionale e perpetua il genocidio a Gaza.

Biden è sempre stato un ardente militarista – chiedeva la guerra con l’Iraq cinque anni prima dell’invasione degli Stati Uniti. Ha costruito la sua carriera politica assecondando l’avversione della classe media bianca per i movimenti popolari, compresi quelli contro la guerra e per i diritti civili, che hanno sconvolto il Paese negli anni Sessanta e Settanta. È un repubblicano mascherato da democratico. Si è unito ai segregazionisti del Sud per opporsi all’inserimento di studenti neri in scuole per soli bianchi. Si è opposto ai finanziamenti federali per gli aborti e ha sostenuto un emendamento costituzionale che permetteva agli Stati di limitare gli aborti. Nel 1989 ha attaccato il presidente George H. W. Bush per essere stato troppo morbido nella “guerra alla droga”. È stato uno degli artefici della legge sul crimine del 1994 e di una serie di altre leggi draconiane che hanno più che raddoppiato la popolazione carceraria degli Stati Uniti, militarizzato la polizia e fatto approvare leggi sulla droga che prevedevano l’incarcerazione a vita senza condizionale. Ha sostenuto l’accordo di libero scambio nordamericano, il più grande tradimento della classe operaia dopo la legge Taft-Hartley del 1947. È sempre stato uno strenuo difensore di Israele, vantandosi di aver raccolto più fondi per l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC) di qualsiasi altro senatore.

“Come molti di voi mi hanno già sentito dire, se non ci fosse Israele, l’America dovrebbe inventarne uno.  Dovremmo inventarne uno perché… voi proteggete i nostri interessi come noi proteggiamo i vostri”, ha detto Biden nel 2015, davanti a un pubblico che comprendeva anche l’ambasciatore israeliano, in occasione della 67a celebrazione annuale della Giornata dell’Indipendenza israeliana a Washington D.C. Durante lo stesso discorso ha detto: “La verità è che abbiamo bisogno di voi.  Il mondo ha bisogno di voi. Immaginate cosa direbbe dell’umanità e del futuro del XXI secolo se Israele non fosse sostenuto, vibrante e libero”.

Pur ripudiando Donald Trump e la sua amministrazione, Biden non ha annullato l’abrogazione da parte di Trump dell’accordo sul nucleare iraniano negoziato da Barack Obama, né le sanzioni di Trump contro l’Iran. Ha abbracciato gli stretti legami di Trump con l’Arabia Saudita, compresa la riabilitazione del principe ereditario e primo ministro Mohammed bin Salman, dopo l’assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel 2017 nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul. Non è intervenuto per frenare gli attacchi israeliani ai palestinesi e l’espansione degli insediamenti in Cisgiordania. Non ha annullato lo spostamento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme deciso da Trump, sebbene l’ambasciata comprenda terre colonizzate illegalmente da Israele dopo aver invaso la Cisgiordania e Gaza nel 1967.

Come senatore del Delaware per sette mandati, Biden ha ricevuto più sostegno finanziario da donatori pro-Israele di qualsiasi altro senatore, dal 1990. Biden mantiene questo primato nonostante la sua carriera senatoriale sia terminata nel 2009, quando è diventato vicepresidente di Obama. Biden spiega il suo impegno verso Israele come “personale” e “politico”.

Ha ripetuto a pappagallo la propaganda israeliana – comprese le falsificazioni sui bambini decapitati e sugli stupri diffusi di donne israeliane da parte dei combattenti di Hamas – e ha chiesto al Congresso di fornire 14 miliardi di dollari di aiuti aggiuntivi a Israele dopo l’attacco del 7 ottobre. Ha aggirato due volte il Congresso per fornire a Israele migliaia di bombe e munizioni, tra cui almeno 100 bombe da 2.000 libbre, utilizzate nella campagna di terra bruciata a Gaza.

Blinken è stato il principale consigliere di Biden per la politica estera quando Biden era il democratico più importante della commissione per le relazioni estere. Insieme a Biden, ha esercitato pressioni per l’invasione dell’Iraq. Quando era vice consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, ha sostenuto il rovesciamento di Muammar Gheddafi in Libia nel 2011. Si è opposto al ritiro delle forze statunitensi dalla Siria. Ha lavorato al disastroso Piano Biden per dividere l’Iraq secondo linee etniche.

“All’interno della Casa Bianca di Obama, Blinken ha svolto un ruolo influente nell’imposizione di sanzioni contro la Russia per l’invasione della Crimea e dell’Ucraina orientale nel 2014, e successivamente ha guidato, senza successo, gli appelli agli Stati Uniti affinché armassero l’Ucraina”, secondo l’Atlantic Council, think tank non ufficiale della NATO.

Quando Blinken è atterrato in Israele in seguito agli attacchi di Hamas e di altri gruppi di resistenza il 7 ottobre, ha annunciato in una conferenza stampa con il Primo Ministro Benjamin Netanyahu: “Mi presento a voi non solo come Segretario di Stato degli Stati Uniti, ma anche come ebreo”.

Ha tentato, a nome di Israele, di fare pressione sui leader arabi affinché accettassero i 2,3 milioni di rifugiati palestinesi che Israele intende ripulire etnicamente da Gaza, una richiesta che ha suscitato l’indignazione dei leader arabi.

Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, e McGurk, sono opportunisti consumati, burocrati machiavellici che si rivolgono ai centri di potere in carica, compresa la lobby di Israele.

Sullivan è stato il principale artefice del pivot asiatico di Hillary Clinton. Ha sostenuto l’accordo di partenariato trans-pacifico sui diritti delle imprese e degli investitori, venduto come un aiuto per gli Stati Uniti a contenere la Cina. Alla fine, Trump ha bocciato l’accordo commerciale di fronte all’opposizione di massa dell’opinione pubblica statunitense. Il suo obiettivo è contrastare una Cina in ascesa, anche attraverso l’espansione dell’esercito americano.

Anche se non si concentra sul Medio Oriente, Sullivan è un falco della politica estera che abbraccia la forza per plasmare il mondo in base alle richieste degli Stati Uniti. Abbraccia il keynesianesimo militare, sostenendo che la massiccia spesa governativa per l’industria delle armi va a vantaggio dell’economia nazionale.

In un saggio di 7.000 parole per la rivista Foreign Affairs, pubblicato cinque giorni prima degli attacchi del 7 ottobre, che hanno provocato la morte di circa 1.200 israeliani, Sullivan ha rivelato la sua mancanza di comprensione delle dinamiche del Medio Oriente.

“Sebbene il Medio Oriente rimanga afflitto da sfide perenni”, scrive nella versione originale del saggio, “la regione è più tranquilla di quanto non lo sia stata per decenni”, aggiungendo che a fronte di attriti “gravi”, “abbiamo attenuato le crisi a Gaza”.

McGurk, vice assistente del presidente Biden e coordinatore per il Medio Oriente e il Nord Africa presso il Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, è stato uno dei principali artefici dell’”impennata” di Bush in Iraq, che ha accelerato lo spargimento di sangue. Ha lavorato come consulente legale per l’Autorità Provvisoria della Coalizione e per l’ambasciatore degli Stati Uniti a Baghdad. Poi è diventato lo zar anti-Isis di Trump.

Non parla arabo – nessuno dei quattro uomini lo parla – ed è venuto in Iraq senza alcuna conoscenza della sua storia, dei suoi popoli o della sua cultura. Tuttavia, ha contribuito alla stesura della costituzione provvisoria dell’Iraq e ha supervisionato la transizione legale dall’autorità provvisoria della coalizione a un governo iracheno ad interim guidato dal primo ministro Ayad Allawi. McGurk è stato uno dei primi sostenitori di Nouri al-Maliki, che è stato primo ministro iracheno tra il 2006 e il 2014. Al-Maliki ha costruito uno stato settario controllato dagli sciiti che ha profondamente alienato gli arabi sunniti e i curdi. Nel 2005, McGurk si è trasferito al Consiglio di sicurezza nazionale (NSC), dove ha ricoperto il ruolo di direttore per l’Iraq, e successivamente come assistente speciale del presidente e direttore senior per Iraq e Afghanistan. Ha prestato servizio nello staff dell’NSC dal 2005 al 2009. Nel 2015 è stato nominato inviato presidenziale speciale di Obama per la coalizione globale per contrastare l’ISIS. È stato mantenuto da Trump fino alle sue dimissioni nel dicembre 2018…

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La strage negli ospedali di Gaza continua in un silenzio assordante – Clara Statello

L’ospedale Nasser di Khan Younis è circondato dall’esercito di Israele e rischia l’assedio. Si teme un altro Al Shifa. Il centro ospedaliero, tra i pochi rimasti in funzionamento, ospita decine di migliaia tra pazienti e sfollati dal Nord di Gaza. Era stato indicato come luogo sicuro dove rifugiarsi dalle autorità israeliane, dopo l’ordine di lasciare il settore settentrionale della piccola enclave palestinese. Adesso è sotto il fuoco d’artiglieria dell’IDF.

La mattina di martedì 23 gennaio, l’esercito israeliano ha emesso un nuovo ordine di evacuazione per un’area di circa 4Kmq che comprende l’ospedale Nasser (475 posti letto), l’ospedale Al Amal (100 posti letto) e l’ospedale giordano (50 posti letto). Insieme rappresentano quasi il 20% dei restanti ospedali parzialmente funzionanti nella Striscia di Gaza.

Secondo un report dell’ufficio per gli Affari umanitari dell’ONU (OCHA), oltre gli 88mila residenti, nella zona presa di mira dalle forze israeliane sono ospitati circa 425mila sfollati interni, rifugiati in 24 scuole e altre istituzioni. Di questi, circa 18.000 sono alloggiati nell’ospedale Nasser, mentre un numero imprecisato cerca rifugio in altre strutture sanitarie. Nell’area interessata sono presenti anche tre ambulatori sanitari.

I militari hanno fissato la deadline per l’evacuazione nel pomeriggio di martedì, ma l’esecuzione dell’ordine è stata resa difficile, quasi impossibile, dagli intensi colpi di artiglieria, spiega Medici Senza Frontiere (Medecins Sans Frontieres, o MSF).

“I membri dello staff di MSF possono sentire bombe e pesanti colpi di arma da fuoco vicino a Nasser”, ha detto martedì il gruppo in un post sui social media. “Al momento non sono in grado di evacuare insieme alle migliaia di persone ricoverate nell’ospedale, tra cui 850 pazienti, a causa delle strade da e per l’edificio inaccessibili o troppo pericolose”.

Lo scenario riportato si delinea drammaticamente analogo all’assedio e aggressione militare dell’ospedale Al Shifa, avvenuto lo scorso novembre. A causa degli intensi bombardamenti nelle vicinanze, nell’area dell’ospedale Nasser si trovano un gran numero di feriti, secondo le informazioni rilasciate del Ministero della Salute. Nessuno può entrare o uscire dalla struttura. Il personale sanitario starebbe scavando tombe nell’area ospedaliera, in previsione di numerose vittime.

Gravissima la situazione dell’ospedale Al Amal, sede centrale della Mezzaluna Rossa palestinese, che mercoledì mattina ha denunciato l’uccisione di tre sfollati e due feriti, colpiti all’ingresso della struttura dal fuoco israeliano. Non è specificato se si tratta di colpi diretti o di “danni collaterali”.

Il giorno prima le forze israeliane, dopo aver circondato il deposito centrale delle ambulanze di Khan Younis, hanno fatto irruzione nell’ospedale Al Amal arrestando il personale medico. I pazienti, i feriti e circa 13.000 sfollati, che hanno trovato rifugio nell’ospedale Al Amal e nel quartier generale della PRCS, non sono riusciti ad andare via. Secondo l’OCHA, gli abitanti dell’area sono stati privati dell’assistenza medica, dopo che l’accesso alla struttura è stato negato.

Il commissario generale dell’UNRWA, Philippe Lazzarini, ha denunciato il bombardamento di dei più grandi rifugi dell’agenzia, il Centro di formazione Khan Younis, che ospita circa 40mila persone, provocando almeno sei vittime tra gli sfollati.

Questa mattina Israele ha colpito una scuola che ospita centinaia di sfollati, provocando almeno 8 feriti.

Secondo il ministero della Salute di Gaza, il bilancio delle vittime dei raid israeliani sfiora 25.500 morti, tra cui almeno 10.000 bambini e 8.000 dispersi sotto le macerie. Il numero dei feriti supera quota 63.000 mentre gli sfollati sono 1,7 milioni. Più dell’1% della popolazione è stata uccisa dall’esercito israeliano.

In due mesi di guerra, fino a dicembre 2023, Israele ha sferrato 212 attacchi contro gli ospedali. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ( OMS ), solo 15 dei 36 ospedali di Gaza sono parzialmente funzionanti: nove nel sud e sei nel nord…

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Israele uccide decine di accademici e distrugge tutte le università di Gaza – Maktoob

L’esercito israeliano ha ucciso 94 docenti universitari, insieme a centinaia di insegnanti e migliaia di studenti, come parte della sua Guerra Genocida contro i palestinesi nella Striscia di Gaza

L’esercito israeliano ha ucciso 94 docenti universitari, insieme a centinaia di insegnanti e migliaia di studenti, come parte della sua Guerra Genocida contro i palestinesi nella Striscia di Gaza, in corso dal 7 ottobre 2023, ha affermato l’Osservatorio Euro-Mediterraneo per i Diritti Umani in una dichiarazione rilasciata sabato.

Secondo l’Osservatorio Euro-Mediterraneo, l’esercito israeliano ha preso di mira personalità accademiche, scientifiche e intellettuali della Striscia con bombardamenti aerei deliberati e specifici sulle loro abitazioni,senza preavviso.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani con sede a Ginevra, i primi dati indicano che non vi è alcuna giustificazione o ragione chiara dietro il fatto di prendere di mira queste persone.

Tra le persone uccise figurano 17 persone con titoli di professore, 59 con dottorato e 18 con laurea, ha affermato il gruppo per i diritti umani. A causa dei problemi con la documentazione causati dalle difficoltà di movimento, dall’interruzione delle comunicazioni e di Internet e dall’esistenza di migliaia di persone scomparse/disperse, le stime dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo suggeriscono che ci sono numerosi ulteriori accademici, compresi quelli con specializzazioni, le cui morti non sono state conteggiate.

Gli accademici presi di mira hanno studiato e insegnato in diverse discipline accademiche e molte delle loro idee sono servite da pietre miliari della ricerca accademica nelle università della Striscia di Gaza. Il gruppo per i diritti umani ha aggiunto che, data la distruzione sistematica e diffusa di edifici culturali, comprese istituzioni di grande importanza storica, da parte delle forze israeliane, è molto probabile che Israele stia intenzionalmente prendendo di mira ogni aspetto della vita a Gaza.

Israele ha sistematicamente distrutto tutte le università della Striscia di Gaza in più fasi durante gli oltre 100 giorni di attacco. La prima fase prevedeva il bombardamento delle università islamiche e di Al-Azhar. Le altre università hanno subito attacchi simili; alcune, come l’Università Al-Israa nel Sud di Gaza, sono state distrutte dopo essere state inizialmente utilizzate come caserme militari. I media israeliani hanno diffuso un video mercoledì 17 gennaio, che mostrava l’esplosione di Al-Israa. L’esplosione è avvenuta 70 giorni dopo che l’esercito israeliano aveva trasformato la scuola in una caserma e, successivamente, in una struttura di detenzione temporanea.

Secondo le stime preliminari, gli attacchi israeliani in corso nella Striscia di Gaza hanno provocato la morte di centinaia di studenti universitari. Il gruppo per i diritti umani ha sottolineato che la distruzione delle università e l’uccisione di accademici e studenti renderà più difficile la ripresa della vita universitaria e accademica una volta terminato il Genocidio, affermando che potrebbero volerci anni prima che gli studi possano riprendere in un ambiente che è stato distrutto.

Secondo il Ministero dell’Istruzione palestinese, 4.327 studenti sono stati uccisi e 7.819 altri feriti, in aggiunta a 231 insegnanti e amministratori uccisi e 756 feriti durante gli attacchi in corso. Nel frattempo, 281 scuole statali e 65 scuole gestite dall’UNRWA nella Striscia di Gaza sono state completamente o parzialmente distrutte.

Il 90% delle scuole statali ha subito danni diretti o indiretti e circa il 29% degli edifici scolastici rimane fuori servizio perché completamente distrutti o gravemente danneggiati. Altre 133 scuole vengono utilizzate come centri di accoglienza nella Striscia.

La diffusa e intenzionale distruzione da parte di Israele delle proprietà culturali e storiche palestinesi, comprese università, scuole, biblioteche e archivi, dimostra la sua apparente politica di rendere la Striscia di Gaza inabitabile, ha avvertito l’Osservatorio Euro-Mediterraneo. Gli attacchi stanno creando un ambiente privo di servizi e necessità di base e potrebbero alla fine costringere la popolazione della Striscia a emigrare.

L’Osservatorio Euro-Mediterraneo per i Diritti Umani ha sottolineato che il prendere di mira obiettivi civili da parte delle forze armate, in particolare quelli che sono manufatti storici o culturali protetti da leggi speciali, non costituisce solo una grave violazione del diritto internazionale umanitario e un Crimine di Guerra ai sensi dello Statuto di Roma del Corte Penale Internazionale, ma rientra nella competenza del reato di Genocidio.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Gaza sarà la tomba dell’Ordine Mondiale guidato dall’Occidente – Saul J. Takahashi

Sostenendo le atrocità di Israele a Gaza, l’Occidente ha distrutto ciò che resta della sua credibilità e ha portato l’Ordine Mondiale ‘basato su regole’ che pretende di condurre, al punto di non ritorno.

Non importa come si concluderà, la causa del Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia, secondo la quale Israele ha violato la Convenzione sul Genocidio, passerà alla storia. Sarà ricordata come il primo passo per ritenere finalmente uno Stato canaglia responsabile di ripetute e durature violazioni del diritto internazionale; o come l’ultimo respiro di un sistema internazionale disfunzionale guidato dall’Occidente.

Perché l’ipocrisia dei governi occidentali (e dell’élite politica occidentale nel suo complesso) ha di fatto portato il cosiddetto “ordine mondiale basato su regole”, che pretendono di guidare, ad un punto di non ritorno. Il pieno sostegno occidentale alla furia genocida di Israele a Gaza ha veramente messo in luce i doppi criteri dell’Occidente per quanto riguarda i diritti umani e il diritto internazionale. Non si può tornare indietro e l’Occidente può incolpare solo la propria arroganza.

La trafila di Crimini di Guerra e Crimini contro l’Umanità commessi da Israele a Gaza è chiara come la luce del giorno per chiunque abbia accesso a uno smartphone. Le sezioni notizie dei social media sono traboccanti di filmati di ospedali e scuole bombardati, di padri che estraggono i corpi senza vita dei loro figli da sotto gli edifici distrutti, di madri che piangono sui cadaveri dei loro bambini. Eppure, la reazione dei governi occidentali, oltre al sostegno militare e politico apparentemente illimitato, è stata quella di etichettare qualsiasi critica rivolta a Israele come antisemitismo e tentare di vietare completamente qualsiasi espressione di solidarietà con il popolo palestinese.

Nonostante questa oppressione, decine di migliaia di persone scendono in strada giorno dopo giorno esprimendo il loro disgusto per le atrocità israeliane e la complicità occidentale. Nel disperato tentativo di riconquistare una parvenza di credibilità, i governi occidentali (compresi gli Stati Uniti) hanno recentemente iniziato a criticare marginalmente gli attacchi israeliani. Ma è troppo poco e troppo tardi. La credibilità occidentale è stata distrutta irrevocabilmente.

Naturalmente, l’ipocrisia occidentale non è una novità. Secondo i governi occidentali, il mondo dovrebbe essere infuriato per l’aggressione russa, ma dovrebbe essere perfettamente soddisfatto della brutalità israeliana e del disprezzo delle norme internazionali. Gli ucraini che lanciano bottiglie incendiarie contro le forze di occupazione russe sono eroi e combattenti per la libertà, mentre i palestinesi (e altri) che osano denunciare l’Apartheid israeliano sono terroristi. I rifugiati dalla pelle bianca provenienti dall’Ucraina sono più che benvenuti, mentre i rifugiati dalla pelle nera e dalla pelle scura provenienti dai conflitti in Medio Oriente, Asia e Africa (la maggior parte dei quali è arretrata rispetto all’Occidente) possono affondare del Mediterraneo. L’atteggiamento occidentale è stato davvero: regole per te, non per me.

La posizione occidentale nei confronti della Cina mostra la stessa insincerità. La Cina è praticamente circondata da basi militari americane e alleate, superarmate. Eppure è la Cina ad essere colpevole, ma di cosa? Incapaci di indicare alcuna infrazione concreta, i governi e i media occidentali possono solo accusare la Cina di “maggiore assertività”, cioè di non conoscere il posto di sottomissione assegnatole nell’ordine egemonico occidentale.

La giustizia internazionale è diventata una farsa. Se la Corte Penale Internazionale (CPI) funzionasse in modo efficace, i leader israeliani sarebbero sotto processo proprio mentre parliamo, e non ci sarebbe stato bisogno che il Sudafrica si rivolgesse alla Corte Internazionale di Giustizia. Allo stato attuale, tuttavia, la CPI ha incriminato solo gli africani fino al 2022, quando ha annunciato un’indagine sull’invasione russa dell’Ucraina meno di una settimana dopo il suo inizio. La CPI ha emesso accuse, anche nei confronti del Presidente russo Vladimir Putin, in meno di un anno. Al contrario, ci sono voluti più di sei anni perché la CPI aprisse un’indagine sulla situazione in Palestina, e anche adesso, a distanza di anni, non sono ancora state intraprese azioni significative. Mentre Israele continuava la sua orgia di violenza contro il popolo di Gaza, Karim Khan, il Procuratore Capo britannico della CPI, ha visitato Israele e ha sottolineato la necessità che i crimini di Hamas siano perseguiti, pur essendo tenero con i crimini israeliani. Non c’è da stupirsi che molte organizzazioni della società civile chiedano il suo licenziamento.

Certo, l’ipocrisia occidentale non è una novità. Fin dall’inizio, le norme giuridiche internazionali erano destinate ad applicarsi solo ai cosiddetti popoli “civili”, si legge bianchi. Gli indigeni non contavano e i potenti Stati occidentali potevano, e lo facevano, fare di loro ciò che volevano. I nativi certamente non “possedevano” terre o risorse naturali, e le potenze coloniali erano libere di rubarle e sfruttarle come desideravano. Anche il sionismo si fondava su tali atteggiamenti razzisti, atteggiamenti che rimangono ancora oggi al centro delle politiche israeliane…

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Se siete rimasti sorpresi dal commento di Netanyahu: “Dal fiume al mare”, allora non avevate prestato attenzione – Jonathan Ofir

Benjamin Netanyahu non ha mai nascosto di essere contrario alla creazione di uno Stato Palestinese e di insistere sul totale controllo israeliano del “territorio ad ovest del fiume Giordano”.

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha fatto scalpore durante un’intervista a i24 quando ha dichiarato che “con o senza un accordo, lo Stato di Israele deve avere il controllo di sicurezza sull’intero territorio a ovest del fiume Giordano”. In altre parole, Israele deve essere l’unico sovrano sulla Palestina “dal fiume al mare”. Ma ciò non significa che la Palestina sarà libera.

L’Occidente è confuso su cosa fare con questo. Come può esistere l’illusione dei Due Stati accanto a tali dichiarazioni inequivocabili?

In una dichiarazione lontana dalla realtà, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca John Kirby ha cercato di rassicurare i giornalisti a bordo dell’Aereo Presidenziale americano poco dopo il discorso di Netanyahu che “ci sarà una Gaza post-conflitto”, e “nessuna rioccupazione di Gaza”. C’è da aspettarsi che lui e gli altri burattini continuino a seguire la linea ufficiale, perché cos’altro dovrebbero fare?

Il Portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller ha detto la stessa cosa:

“Non c’è modo di risolvere le sfide a lungo termine di Israele per garantire una sicurezza duratura, e non c’è modo di risolvere le sfide a breve termine della ricostruzione di Gaza, dell’instaurazione di un governo a Gaza e della sicurezza a Gaza, senza l’istituzione di uno Stato palestinese”.

Queste sono solo parole. Se Israele riceve solo più armi e nessuna sanzione, continuerà a sentirsi incoraggiato a dire, e fare, ciò che vuole.

Ma l’idea che i commenti di Netanyahu siano una sorpresa per chiunque è davvero meritevole di disprezzo perché non è la prima volta che il Primo Ministro mostra un tale candore nel rifiutare uno Stato Palestinese. Nel luglio 2014, ha detto: “Penso che il popolo israeliano ora capisca quello che dico sempre: non può esserci una situazione, in base a nessun accordo, in cui rinunciamo al controllo di sicurezza del territorio a ovest del fiume Giordano”.

Abbiamo prestato attenzione?

Allo stesso modo, non è nemmeno controverso affermare che queste rivendicazioni territoriali massimaliste fanno parte del programma del Partito Likud dal 1999, che afferma: “Il governo di Israele rifiuta categoricamente la creazione di uno Stato Arabo Palestinese ad ovest del fiume Giordano”.

Questa affermazione risale a una generazione fa e non è mai stata annullata o rivista. Non abbiamo prestato attenzione? Persino Hamas ha rivisto il suo programma del 1988, presentandone uno nuovo nel 2017 che accettava uno Stato palestinese sui confini del 1967:

“Hamas considera l’istituzione di uno Stato Palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale, sui confini del 4 giugno 1967, con il ritorno dei profughi e degli sfollati alle loro case dalle quali sono stati espulsi, come un formula del consenso nazionale”.

Si potrebbe dire che le parole sulla carta e la politica reale siano due cose diverse, ma almeno c’è scritto nel programma di Hamas, a dimostrazione di una volontà pubblica di impegno politico e diplomatico che Israele ha ripetutamente ignorato. Fa parte di ciò che Jacobin sottolinea come “l’incapacità congenita di Israele di accettare e dare un sì come risposta”.

Alcuni potrebbero essere tentati di spiegare la recente dichiarazione di Netanyahu dicendo che sta semplicemente esagerando: è così che la maggior parte dei difensori di Israele ha attribuito il sostegno al Genocidio di numerosi ministri israeliani, esemplificato in modo più perverso dall’affermazione di Fania Oz-Salzberger secondo cui l’incitamento al Genocidio dei funzionari israeliani è solo una “accesa libera espressione”.

Ci cascheremo di nuovo? Oppure inizieremo finalmente a prendere sul serio il fatto che nessun governo israeliano, nessuno, nemmeno sotto Rabin nel 1995, ha mai avuto intenzione di consentire l’esistenza di uno Stato palestinese?

Jonathan Ofir è un direttore d’orchestra, musicista, scrittore e blogger israelo-danese, che scrive regolarmente per Mondoweiss.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

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Le intenzioni genocide di Israele non si fermano a Gaza – 

Se l’ideologia del sionismo viene lasciata senza controllo, esiste la minaccia reale che Israele estenda la sua guerra genocida alla Cisgiordania e al Libano.

Ci sono diversi modi per stabilire un intento genocida. Può essere un incitamento verbale esplicito, come le molte dichiarazioni fatte da Israele negli ultimi tre mesi.

Ma ciò può anche essere dedotto dal sistematico attacco fisico contro un gruppo specifico di persone e le loro proprietà, dal tipo di armi utilizzate e persino dal modo metodico in cui l’uccisione viene eseguita.

I continui attacchi di Israele contro i civili di Gaza che hanno ucciso più di 24.000 palestinesi, lo sfollamento forzato della maggior parte di loro, la creazione intenzionale di una grave crisi umanitaria e le oltre 500 ignobili dichiarazioni di funzionari e figure chiave israeliane indicano tutti un intento genocida ai sensi della Convenzione sul Genocidio.

Il progetto coloniale di Israele non si ferma a Gaza.

Anche se non si trattasse di un Genocidio, Israele ha dichiarato da tempo la sua intenzione di annettere tutta la Cisgiordania, con il Ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich che all’inizio di quest’anno ha chiesto che i villaggi palestinesi vengano “cancellati”.

Con gli attacchi di Israele in Libano e il crescente coinvolgimento di Hezbollah negli scambi militari in risposta all’attacco di Gaza, anche la retorica genocida di Israele ha assunto un carattere transfrontaliero.

Il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha minacciato che l’esercito estenderà l’esperienza di Gaza a Beirut: “Se Hezbollah commette errori di questo tipo, a pagarne il prezzo saranno innanzitutto i cittadini libanesi. Ciò che stiamo facendo a Gaza possiamo farlo a Beirut”.

Non è una novità. Il Capo di Stato Maggiore dell’esercito Aviv Kohavi aveva avvertito all’inizio del 2023 che se fosse scoppiata una guerra con Hezbollah, “Israele manderebbe il Libano indietro di 50 anni” attraverso quelle che ha definito “ondate di potenza di fuoco”. Allo stesso modo, l’allora Ministro dell’Istruzione di Netanyahu, Naftali Bennett, avvertì nel 2017 che Israele “avrebbe rimandato il Libano al Medioevo”.

Nel 2015, l’esercito israeliano immaginava una nuova strategia, denominata Dottrina Dahiya, per prendere di mira intenzionalmente i civili per vantaggi militari tattici.

Infatti, è stato durante la guerra Israele-Hezbollah del 2006 che Israele ha perfezionato la sua strategia di prendere di mira intenzionalmente i civili e le infrastrutture civili per ottenere un vantaggio militare, soprannominata Dottrina Dahiya dal nome di un quartiere nel Sud di Beirut.

Nel conflitto durato 34 giorni furono uccisi 1.200 civili libanesi. Ora, con la ridistribuzione significativamente più ampia della dottrina a Gaza, si può concordare che Israele non solo è capace ma è disposto a scatenare una campagna genocida anche contro il Libano.

Il Sudafrica ha puntato su tale intento genocida, legalmente e concettualmente, per presentare accuse di Genocidio contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia.

Israele ha risposto alle accuse con il rifiuto, la negazione e le minacce dettate dal panico. I funzionari israeliani, così come la squadra legale israeliana presente al processo, sono ricorsi alla prima regola del manuale Hasbara: ribaltare la realtà e accusare le vittime israeliane delle stesse accuse rivolte allo Stato sionista.

Non importa che una potenza occupante non possa rivendicare con forza l’intento genocida da parte delle stesse persone che occupa e contro le quali esercita abitualmente la Pulizia Etnica. Ciò non solo è giuridicamente e moralmente indifendibile, ma anche praticamente impossibile.

Al di là di queste distorsioni, si resta particolarmente colpiti dalla facilità con cui i funzionari israeliani esprimono intenzioni genocide. Questa pratica è stata così diffusa che ha spinto un gruppo di personaggi pubblici israeliani a inviare una lettera al Procuratore Generale dello Stato, chiedendogli di agire contro la normalizzazione delle minacce di Genocidio.

C’è una logica dietro questa illogicità, dicono alcuni. Il 7 ottobre ha sicuramente distrutto il già fragile senso di sicurezza della maggior parte degli ebrei-israeliani, che hanno visto il loro “esercito invincibile” sgretolarsi davanti a una milizia. Tutto ciò si è tradotto in isteria, poi in una serie di cieche vendette e omicidi di massa, in nome dell’autodifesa.

Inserendo la Shoah (Olocausto) in tutto questo, sia emotivamente che strategicamente (tuttavia, irrealisticamente), ha dato alle uccisioni di massa un senso di legittimità storica. E, in questo contesto apparentemente esistenziale, la sproporzionalità, la criminalità su larga scala e la natura degli obiettivi sono diventati irrilevanti.

Questa contestualizzazione ristretta, o meglio decontestualizzazione, non riesce a spiegare la portata delle uccisioni e della distruzione. Non si adatta ad alcuna logica strategia militare né soddisfa alcuna regola d’ingaggio conosciuta.

Le reazioni genocide non avvengono dall’oggi al domani. Sono precedute da un lungo processo di profondo indottrinamento dei potenziali autori e di disumanizzazione delle potenziali vittime.

Nel percorso verso la Soluzione Finale, ad esempio, la Germania Nazista diffuse messaggi propagandistici abbastanza frequentemente da giustificare la persecuzione degli ebrei, in seguito la Shoah, come risposta accettabile al percepito problema ebraico.

Una feroce campagna di propaganda anti-musulmana e di disumanizzazione aprì la strada al massacro di Srebrenica negli anni ’90. Il Genocidio del Ruanda ha seguito un processo simile.

Fin dalla sua nascita alla fine del diciannovesimo secolo, il movimento sionista si è proposto di pulire etnicamente la Palestina dalla sua popolazione nativa. Israele non sarebbe nato se non fosse stato per il massacro e l’espulsione di massa dei palestinesi nel 1948.

Ciò è stato sostenuto “moralmente” dalla creazione e dalla normalizzazione di narrazioni unilaterali che legittimano gli obiettivi coloniali sionisti.

Tra le altre cose, classificando falsamente la Palestina come una terra senza popolo; uno Stato ebraico in Palestina come giustizia storica o redenzione per le vittime ebree della Shoah; e collegare il Paese ai miti biblici come fatti storici.

Ogni mito in ogni fase del progetto colonialista sionista richiedeva la cancellazione del passato, della presenza, dell’azione e del merito dei palestinesi per i diritti umani fondamentali.

La disumanizzazione ha fatto sì che gli ebrei israeliani mantenessero la loro immagine positiva ed elevata di sé come vittime perpetue anche con diritti e prerogative di gran lunga superiori. Una sfida a tale visione del mondo, principalmente da parte dei “palestinesi inferiori”, è stata ridotta a una sfida al diritto all’esistenza degli ebrei, all’antisemitismo o al terrorismo.

Ha consentito di inquadrare ogni guerra israeliana come ein breira (non scelta) e ha giustificato il dispiegamento di violenza estrema, persino omicidi di massa. L’alternativa, dicono, sarebbe un’altra Shoah. Il contesto e le leggi della causalità non si applicano qui.

Con questo profondo e lungo indottrinamento, le tendenze genocide sioniste non sono certo un fenomeno marginale.

In un sondaggio condotto a un mese dall’attuale attacco a Gaza, il 57,5% degli ebrei israeliani ha affermato che l’esercito ha utilizzato troppo poca potenza di fuoco; Il 36,6% ritiene che la risposta sia adeguata; e solo l’1,8% ha detto che era sproporzionata.

Parallelamente, centinaia di parlamentari, personaggi pubblici, rabbini, leader di comunità, professori e giornalisti israeliani hanno firmato un documento che chiede la fine degli aiuti umanitari a Gaza. Di fatto, un appello alla fame di massa, un lento Genocidio.

Per Gideon Levy, editorialista israeliano di Haaretz, la brutalità di questa guerra di Gaza (e gli incitamenti contro il Libano) non incontra quasi nessuna critica da parte del pubblico. Sembra che ci sia un accordo consensuale sugli omicidi di massa, e la minoranza delle voci dissidenti viene solitamente repressa…

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Roma, pubblica post pro-Palestina: perquisito dalla polizia e sospeso dal lavoro – Stefano Baudino

Si è visto entrare nella sua camera da letto i poliziotti del Nucleo Antiterrorismo per una “perquisizione urgente”, dunque senza mandato da parte della magistratura, alla ricerca di armi ed esplosivi, seppur fosse del tutto incensurato. La perquisizione ha dato esito negativo, ma è stato comunque portato in Questura, dove ha dovuto mostrare il suo cellulare ai poliziotti, che hanno visionato le sue conversazioni private, la sua galleria fotografica e una serie di post da lui pubblicati. Una volta tornato a casa, ha ricevuto una telefonata dal suo capo – il preside della scuola per cui lavora come assistente educativo a Roma -, il quale gli ha comunicato di non recarsi più nell’istituto, perché la polizia gli avrebbe chiesto di tenerlo lontano per “motivi di sicurezza”. È quanto accaduto a Yussef, algerino trapiantato in Italia dal 2003, completamente incensurato, che in quella scuola ci lavora da ben nove anni. Eppure, da un giorno all’altro e senza nessun apparente motivo, è arrivato un fulmine a ciel sereno che sembra avergli cambiato la vita. Può sembrare un fatto assurdo, ma lo pubblichiamo dopo aver fatto tutte le verifiche del caso, avendo parlato col diretto interessato, con la scuola, ed avendo potuto visionare il referto di perquisizione redatto dalla polizia.

Yussef non è il suo vero nome, e l’utilizzo di uno pseudonimo è dato dalla nostra volontà di proteggerlo da ogni possibile ulteriore conseguenza. L’importante, per il lettore, è la vicenda, che è stata verificata.

Mercoledì mattina, Yussef è a casa a riposare nel suo giorno libero dal lavoro. Ad un tratto suona il campanello e il suo coinquilino va ad aprire. Nell’abitazione fanno ingresso i poliziotti della Divisione Investigazioni Generali Operazioni Speciali della sezione Terrorismo, che entrano nella camera da letto di Yussef per una perquisizione. Lui si mostra gentile e cooperativo, perché sa di non avere nulla da nascondere, ma chiede ai poliziotti di mostrare il mandato di perquisizione. Loro gli rispondono che non serve. Ai sensi dell’art. 41 del T.U.L.P.S., infatti, si può evitare di chiedere la preventiva autorizzazione da parte del pm ove sussistano “particolare necessità ed urgenza”. Il poliziotto gli si rivolge: «Hai delle armi o degli esplosivi?». Yussef comincia a ridere. Non ha mai commesso reati né in Algeria, da dove è arrivato come rifugiato politico, né in Italia; il suo casellario giudiziario è vuoto e non fa parte di gruppi o organizzazioni di nessun tipo. La perquisizione, infatti, dà esito negativo. I poliziotti dicono a Yussef di seguirli in Questura. Lì gli chiedono di mostrare i contenuti del suo telefonino, perché vogliono controllare il suo Whatsapp, il suo Instagram, le sue conversazioni e la sua galleria fotografica. Lui è impietrito e glieli fa vedere. «Quando mi hanno chiesto di aprire il mio telefonino e di fare vedere tutto ero sotto shock, altrimenti non lo avrei fatto, ma tengo a dire che mi hanno riferito che, se non l’avessi fatto, loro avrebbero sequestrato il cellulare», racconta Yussef a L’Indipendente. Ad ogni modo, i poliziotti trovano sulle sue stories di Instagram una foto dei bambini palestinesi morti nei massacri a Gaza, con la scritta “fino a oggi 10.000 bambini morti”. «Perché l’hai scritto?», gli chiede uno di loro. «Perché è la verità», risponde lui. Per due giorni, nel suo stato Whatsapp, Yussef ha tenuto pubblicata la foto del leader di Hamas. «Ho detto loro che, secondo quello che penso, Hamas non è un’organizzazione terroristica ma un gruppo che sta facendo la resistenza: d’altronde, i miei antenati in Algeria, ai tempi del colonialismo, sono stati chiamati ‘terroristi’, ma oggi sono ricordati come grandi figure della storia». Condivisibili o meno, queste sono le sue idee. I poliziotti lo lasciano andare. Non prima di aver scattato tre foto ad alcuni contenuti trovati nel cellulare: l’immagine dei bambini palestinesi morti, quella del capo di Hamas e una fotografia di Ursula Von der Leyen. Il capitolo peggiore di questa storia, almeno per l’impatto che ha avuto sulla vita di Yussef, si apre però quando l’uomo riceve la chiamata del preside della scuola in cui lavora, il quale gli dice di aver saputo dei suoi «problemi con la polizia» e gli comunica che la stessa polizia avrebbe chiesto alla direzione dell’istituto di vietare a Yussef di tornare al lavoro «per motivi di sicurezza». E il preside ha deciso di dare seguito a quella richiesta, che suona tanto come un ordine. In un colpo solo, dunque, due diritti costituzionalmente garantiti – quello alla libertà della manifestazione di pensiero e quello al lavoro – sono stati calpestati.

«Sono un rifugiato politico da 10 anni e lavoro in questa scuola da 9 anni, da 6 anni con contratto indeterminato. Sono completamente incensurato, sia qua che in Algeria. Non ho mai avuto a che fare con organizzazioni terroristiche. Penso, però, di avere il sacrosanto diritto di manifestare il mio pensiero», ci racconta Yussef, che dice di avere anche ricevuto una telefonata di Moni Ovadia, che gli ha espresso solidarietà per quanto accaduto. «Hanno violato la mia intimità a casa e sul mio telefonino – denuncia Yussef -. Penso che se fossi stato un europeo o un italiano non avrei subito lo stesso trattamento. Sono algerino, musulmano, extracomunitario e rifugiato politico, ma ciò non vuol dire che ho scritto in fronte ‘sono una persona sospetta’. La mia reputazione è già stata scalfita da questa storia nel mio ambiente di lavoro, infatti ho voluto spiegare sul gruppo Whatsapp a cui partecipo con i miei colleghi tutto l’accaduto». Yussef esprime alcune perplessità in merito a una circostanza capitatagli il giorno successivo a quello della perquisizione: «Su Instagram accetto soltanto contatti fidati e persone che conosco. Giovedì mi è arrivata una richiesta di amicizia sulla piattaforma da parte di un utente con nome arabo e con una foto profilo che raffigura una bandiera nera, con scritte in lingua araba. La tipica immagine che usano i terroristi. Ciò mi è parso molto sospetto». Chiediamo a Yussef per quale motivo abbia voluto rendere pubblica questa storia, con tutte le imprevedibili conseguenze del caso: «L’ho fatto perché non voglio che questa vicenda passi inosservata. L’ho fatto perché non voglio che altre persone che hanno avuto l’unica colpa di esprimere liberamente il loro pensiero si trovino a subire le stesse ingiustizie che ho subito io». Abbiamo provato a contattare la scuola per cui Yussef lavora al fine di ottenere il punto di vista della direzione su questa storia. Ci hanno comunicato che, per il momento, non sono intenzionati a rilasciare nessuna dichiarazione.

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Gaza tra nuove colonie e appelli all’atomica – Michele Giorgio

In Israele c’è un ministro che vorrebbe cancellare Gaza dalla faccia della terra con la bomba atomica e altri ministri che chiedono di cacciare via i suoi abitanti per ricostruirvi gli insediamenti coloniali. Sullo sfondo, si fa per dire, ci sono le «armi convenzionali» delle forze armate israeliane che da tre mesi e mezzo proseguono la demolizione della Striscia provocando ogni giorno decine se non centinaia di morti e feriti. Ieri 14 sfollati palestinesi, tra cui 8 donne e bambini, sono stati uccisi ed altri 75 feriti quando due cannonate hanno colpito un centro di formazione dell’agenzia dei profughi Unrwa che le Nazioni Unite avevano designato come rifugio a Khan Younis. A denunciarlo è stato il direttore dell’Unrwa a Gaza, Thomas White, che ha parlato di numerose vittime, edifici in fiamme e persone intrappolate dentro il centro che ospitava circa 800 civili palestinesi.

Sfidando apertamente la Corte internazionale di Giustizia dell’Aiam che domani comunicherà una sua prima decisione riguardo la denuncia per «genocidio a Gaza» rivolta dal Sudafrica a Israele, Amichai Eliyahu, ministro israeliano per gli affari e il patrimonio di Gerusalemme, ha detto che andrebbe sganciata una bomba nucleare su Gaza. Eliyahu è andato persino oltre le dichiarazioni già fatte a novembre quando aveva parlato di «opzione bomba atomica» contro la Striscia prendendosi poi il rimprovero del premier Netanyahu, forse più per aver confermato indirettamente il possesso da parte di Israele di ordigni atomici.

La Corte dell’Aia «conosce le mie posizioni» ha detto spavaldo Eliyahu. Invece, non chiedono di distruggere Gaza con una bomba nucleare, ma di renderla disponibile di nuovo alla colonizzazione ebraica i due ministri del governo Netanyahu che hanno annunciato per il 28 gennaio a Gerusalemme una ampia conferenza su questo tema ormai parte del dibattito politico in Israele.  Haim Katz, ministro del Turismo, e Miki Zohar, ministro dello Sport e della Cultura, entrambi del partito Likud del primo ministro, affermano che solo la colonizzazione di Gaza potrà impedire altri attacchi come quello fatto il 7 ottobre da Hamas nel sud di Israele e la creazione di uno Stato palestinese. L’iniziativa non è del governo, ma i suoi promotori sono dei ministri e ciò illustra bene i desideri che animano la maggioranza di destra. Alla conferenza prenderanno parte altri esponenti del Likud, ministri e deputati di Potere ebraico e Sionismo religioso e naturalmente i leader di organizzazioni dei coloni e del Movimento per gli insediamenti ebraici «Nachala».

Khan Yunis resta accerchiata dall’esercito israeliano. I carri armati hanno isolato l’ospedale Nasser e la sede della Mezzaluna Rossa, un edificio di otto piani in cui si trovano migliaia di sfollati. La strage continua. Tra i 210 morti in 24 ore – in totale dal 7 ottobre sono 25.700 – e circa 400 feriti riferiti dal ministero della Sanità a Gaza, c’è anche l’accademico Fadel Abu Hein, docente da oltre venti anni di psicologia all’Università Al-Aqsa, colpito a morte da un cecchino. Abu Hein era considerato un esperto nel trattamento dei traumi mentali derivanti dalla guerra, specie nei bambini. Israele ha ucciso almeno 94 accademici a Gaza, denunciano i palestinesi…

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Il Sudafrica ha coraggio. L’Occidente invece mente – Elena Basile

Una delle poche buone notizie che abbiamo avuto in questi mesi di oscurantismo politico ed etico è costituita dall’azione intrapresa dal Sudafrica per rianimare una istituzione dell’Onu, la Corte Internazionale di Giustizia, affinché giudici indipendenti valutino l’azione criminale del governo di Netanyahu a Gaza e denuncino, se del caso, l’intento genocida. Il Sudafrica è consapevole che l’eroica storia di liberazione dal regime di apartheid è stata possibile grazie alla solidarietà internazionale. Combattere l’apartheid in ogni sua forma è nei cromosomi del popolo sudafricano. Capetown non dimentica l’appoggio dato da Tel Aviv al regime sudafricano con cui ha condiviso la tecnologia, anche nucleare.

Abbiamo ascoltato le arringhe degli avvocati sudafricani con l’incredulità di chi ogni giorno vede il diritto, l’etica e la verità seppelliti dallo spazio politico-mediatico occidentale e ha perso la speranza in una politica in grado di perseguire la composizione degli interessi per il bene comune. Il ministro degli Esteri Tajani, scimmiottando Blinken, si è sostituito ai giudici della Corte, ne ha usurpato titolo e ruolo, per assicurare che Israele è innocente. Ha poi rivolto un appello a Tel Aviv affinché faccia attenzione e non massacri troppi civili. Questo è lo spettacolo surreale a cui abbiamo fatto l’abitudine.

Qualcosa tuttavia sta cambiando con Gaza. Il risveglio della società civile, la pietas e l’indignazione di fronte alle stragi di innocenti non possono essere a lungo ignorate, purché la mobilitazione per il cessate il fuoco continui. Gli anglo-americani, pur sapendo che l’operazione militare è inefficace in quanto gli Houthi sono un gruppo di resistenza armata sopravvissuto ad anni di bombardamenti sauditi, paragonato per la resilienza da alcuni ai Vietcong, alimentano le tensioni, sperando che infine vi sia l’opportunità di una guerra all’Iran. La difesa della libertà di commercio non è l’obiettivo dei bombardamenti (contro il diritto internazionale) dello Yemen, ma lo è l’escalation le cui conseguenze negative di breve periodo sono state già tenute in conto. I popoli europei e il loro benessere economico sono allegramente sacrificati per strategie che ci trascendono, essendo a vantaggio delle oligarchie delle armi e dell’energia. Non sarei sorpresa se si stesse tentando contro l’Iran quel che è fallito contro la Russia.

Zelensky, personaggio tragicomico, che incarna il grottesco di un Occidente che ha perso l’anima, si aggira per Davos distribuendo abbracci ai suoi aguzzini, i leader dei Paesi Nato che, dopo averlo spinto a una guerra insensata contro l’invasore russo, al fallimento del Paese e alla decimazione di una generazione, lo guardano con malcelata compassione, convinti che verrà presto il momento di abbandonarlo. Per ora l’Europa continua a inviare armi e finanziamenti, mai sazia di sangue. Non si può perdere la faccia e bisogna salvare il soldato Biden. I politici e i commentatori che hanno sbagliato tutti i calcoli in relazione alla resistenza del regime di Putin e alle risorse economiche e di potenza della Russia, invece di chiedere scusa all’opinione pubblica occidentale e a inginocchiarsi di fronte alle madri ucraine che hanno perso i figli, continuano a pontificare. Stoltenberg ci spiega che possiamo vincere e che siamo riusciti a evitare la marcia di Putin su Kiev. Una nuova propaganda è alimentata sui giornali principali: la Russia mirerebbe ai Baltici e perché no, alla Svezia. Non esiste alcuna prova di queste intenzioni attribuite a Mosca: al contrario i politologi e gli analisti seri, da Baud a Mearsheimer e a Sachs, hanno illustrato come la Russia non abbia mobilitato nel 2022 le forze che avrebbero potuto giustificare l’intenzione di prendere Kiev. L’unico obiettivo era il Donbass, regione ricca di risorse naturali e la cui popolazione è filorussa. Oggi, dopo due anni di guerra, dato che le proposte di mediazione russe sono state respinte dall’Occidente, Putin punta a Odessa.

La Russia non costituisce una minaccia all’Europa, a meno che la nostra espansione strategica non minacci direttamente la sua stessa sopravvivenza. In tal caso, secondo la dottrina militare russa, Mosca potrebbe utilizzare le armi nucleari come estrema difesa. Di fatto Putin giudica e condanna le discriminazioni oggettive cui vanno incontro i russofoni nei Paesi baltici, in particolare in Lettonia. I principi basilari di protezione delle minoranze linguistiche sono da anni violati contro le popolazioni filorusse, con la piena complicità delle classi dirigenti europee.

Si mente come si mentiva sul Vietnam. La propaganda di guerra sarà nota alla prossima generazione come oggi si conoscono le stragi di civili, i 20 milioni di morti causati dal 1945 in poi dagli Stati Uniti, nell’èra chiamata paradossalmente “dopoguerra”, come lo studio di James A. Lucas ha dimostrato.

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La guerra di Gaza: un percorso per la secondaria di primo grado – Katia Trombetta

Da dove partire?

Nella drammatica storia della regione mediorientale l’attuale evoluzione del conflitto israelo-palestinese nell’operazione unilaterale “Spade di Ferro” si configura ormai come qualcosa di assolutamente inedito. Ciò vale a ben guardare anche per l’attentato terroristico di Hamas del 7 ottobre — che chiunque, almeno dal fronte dell’opinione pubblica occidentale, avrebbe considerato irrealizzabile, sia per la ferocia che lo ha caratterizzato, sia per le modalità operative con cui è stato attuato — e vale ancor di più, come detto, per la reazione (che è termine da usare con cautela in questo contesto) di Israele, poiché la violenza che si sta perpetrando nei confronti della popolazione civile, come è ormai opinione diffusa perfino nel dibattito pubblico italiano, eccede di gran lunga la misura della logica di guerra più crudele e perversa. Al 20 gennaio 2024 il numero delle vittime palestinesi a Gaza è arrivato a 24.927 (fonte: La Stampa). Per dare la proporzione di quanto sta accadendo si può incidentalmente ricordare che le vittime palestinesi della prima Intifada furono circa  1.100. Più ancora oggi, pur non essendo certo una novità lo spostamento coattivo della popolazione palestinese, le recenti notizie relative alle presunte trattative segrete tra Israele e il Congo (ma non solo) per il trasferimento dei profughi palestinesi, di là dalle smentite ufficiali del governo israeliano, tradiscono intenzioni tanto inquietanti quanto inequivocabili. Di fronte al quadro, che subito ha iniziato a delinearsi nella sua gravità, la decisione di portare questo tema in classe, all’attenzione di persone in crescita, anche molto giovani — nel caso specifico alunni della classe terza della secondaria di primo grado — apre innumerevoli interrogativi rispetto ai quali, nell’illustrazione di questo percorso didattico, si tenterà di elaborare possibili risposte, per quanto inevitabilmente manchevoli. Il primo interrogativo riguarda proprio l’opportunità di affrontare il tema, o per meglio dire la stessa praticabilità di un percorso sulla questione israelo-palestinese oggi. Possibilità messa a rischio da una molteplicità di fattori. In primo luogo la complessità della questione, i tratti inediti di cui si è detto, e il fatto di affrontarla, inevitabilmente, da un punto di vista non solo parziale, ma esterno e occidentale. La situazione attuale pone inoltre un problema ulteriore, che riguarda la trattazione del conflitto da parte dei mezzi di comunicazione di massa, con tutte le distorsioni e parzialità del caso, distorsioni che, sotto alcuni aspetti, rispetto all’attività di classe, rappresentano delle vere e proprie interferenze, con le quali si deve mettere in conto di avere a che fare. Anzi, la proposta didattica può funzionare solo se la comprensione degli attuali limiti dell’informazione giornalistica rispetto a quanto sta accadendo diventa essa stessa obiettivo del percorso. Come è già stato messo in evidenza in questo blog si tratta di rispondere a un’istanza etica, che riguarda non solo l’insegnante, la sua storia, la sua sensibilità, la sua stessa idea di insegnamento, ma un principio basilare di umanità. L’impossibilità di tacere. Eppure, paradossalmente, è vero anche il contrario, e cioè che di fronte all’immanità di ciò che si sta consumando parlarne, senza sentirsi parte in causa e fortemente implicati, potrebbe suonare oltremodo irriguardoso. Dunque che fare? Alla fine, nonostante le perplessità, ho deciso di aprire il discorso in classe — tanto più che ho sempre diffusamente affrontato in terza media la questione israelo-palestinese — a patto però di dedicare al tema il tempo che naturalmente si sarebbe imposto come necessario.

Carte alla mano

Il percorso è iniziato nei giorni immediatamente seguenti l’attentato del 7 ottobre. Si è iniziato ricostruendo la cronaca dell’attentato, cercando di chiarire cosa distingue un’azione militare da un attacco terroristico e spiegando ai ragazzi che l’attentato di Hamas è un episodio efferato da inserire nella lunga storia di un conflitto ormai secolare. La classe aveva già avuto un inquadramento della regione con l’insegnante di geografia, ma non conosceva nel dettaglio la storia della costituzione dello stato di Israele, né la situazione dei territori mediorientali durante il mandato britannico. Nella ricostruzione storica ho deciso quindi di partire da qui, utilizzando le carte elaborate dalla rivista Limes, non per inquadrare la questione in un’ottica geopolitica (ottica che pure ha un suo peso ma che non è certo adatta ad alunni di terza media), ma perché essendo ben realizzate e leggibili, sia pure con qualche sforzo, risultano visivamente molto efficaci. La prima carta utilizzata mette a confronto la situazione territoriale della regione durante il mandato britannico, con il piano di partizione Onu del 1947 e, infine, con la situazione nel 1949, all’indomani della prima guerra arabo-israeliana. La carta consente di verificare l’ampliamento dei territori israeliani rispetto a quanto previsto dalla risoluzione 181, con il contestuale passaggio della Cisgiordania alla Transgiordania e di Gaza all’Egitto. La seconda carta utilizzata mostra l’evoluzione territoriale della regione dalla Guerra dei sei giorni alla pace di Camp David, con la conseguente occupazione israeliana di Gaza e Cisgiordania. Sono state poi utilizzate due carte più recenti, di Gaza e della Cisgiordania. La prima carta mostra la situazione della Striscia i valichi praticabili, i muri di protezione attorno e il limite di pesca per i palestinesi fissato a 20 miglia nel 1995, limite di fatto mai concesso da Israele. La seconda carta illustra la situazione interna della Cisgiordania e di Gerusalemme, distinguendo chiaramente in legenda gli sparuti territori sotto il controllo diretto palestinese, quelli sotto occupazione di Israele, quelle a controllo misto, le aree di annessione isaeliana e gli insediamenti coloniali, restituendo l’immagine plastica di un territorio polverizzato. Le carte, che sono tracciate tenendo conto dei principali eventi bellici della regione, sono state messe in relazione con i fatti politici più significativi: la genesi del movimento sionista; la costituzione dell’OLP; la prima Intifada; la nascita di Hamas; l’avvido del processo di pace e gli accordi di Oslo; l’assassinio di Rabin; la seconda Intifada. La classe è poi stata divisa in coppie che per alcune lezioni hanno lavorato all’elaborazione di un testo di riepilogo, condividendo gli appunti e utilizzando le carte proiettate e che sono state condivise anche su Classroom. Ogni testo è stato da me revisionato e sono stati segnalati tutti i punti incongrui o manchevoli di informazioni essenziali dopo di che ciascuna coppia ha rielaborato il proprio testo con la mia consulenza e utilizzando una cronologia essenziale dei fatti da me fornita.

Due storie per continuare… 

La conoscenza, per quanto inevitabilmente sommaria, dei principali fatti storici della regione rappresenta senza dubbio un momento obbligato, che tuttavia non conduce di per sé al cuore del problema sul piano didattico. Trattandosi di alunni tredicenni è stato essenziale fornire loro delle storie — verosimili ma non vere — che dessero forma concreta ai termini del conflitto, attraverso situazioni, sentimenti, emozioni, stati d’animo in qualche modo processabili, riportando a una misura umana, per quanto drammaticamente umana, fatti altrimenti comunicabili solo come freddi accadimenti. Del resto il problema della spersonalizzazione del popolo palestinese è un dramma psicologico nel dramma. Da ultimo, mentre molti tra i tg nazionali ricostruiscono giustamente le biografie degli ostaggi israeliani, definendone origine e identità, niente di simile accade per le vittime palestinesi. Dare a entrambe le parti la consistenza di esseri umani, come pure ai luoghi quella dei paesaggi, mi è sembrato fondamentale. Non mi sono posta il problema della provenienza degli autori, quanto quello della loro onestà intellettuale e soprattutto dell’utilità didattica delle storie nell’ambito del percorso. Ho iniziato con la visione del film Il figlio dell’altra, di Lorraine Lévy, regista francese di origini ebraiche (del cast e della troupe facevano parte palestinesi, israeliani e francesi). Il film racconta la storia di due ragazzi, Yacine palestinese e Joseph israeliano, che a causa della caduta di un missile sull’ospedale in cui hanno partorito le rispettive madri, sono stati scambiati quando erano neonati e si sono quindi trovati a vivere ciascuno la vita dell’altro, fino a che Joseph non deve partire per il servizio di leva obbligatorio. Dalle analisi del sangue, il suo gruppo sanguigno non risulta compatibile con quello dei genitori. Di lì gli approfondimenti che svelano l’errore. È l’inizio di un percorso difficile, non solo per i ragazzi, la cui vita è minata nella propria identità — «Sono il mio peggior nemico ma devo volermi bene lo stesso» dice Yacine a Joseph — ma anche per le rispettive famiglie, in particolare per i padri che si misurano con l’impossibilità di accettare la situazione. Anche se non si tratta di un documentario il film, ambientato negli anni della seconda Intifada, restituisce anche con grande efficacia la sproporzione che esiste tra le condizioni di vita di Tel-Aviv e la Cisgiordania e le limitazioni della libertà cui è sottoposta la popolazione palestinese, situazione oggi ulteriormente degenerata anche in Cisgiordania rispetto al perido di ambientazione del film. Il secondo materiale utilizzato è stato il libro per ragazzi Una bottiglia nel mare di Gaza, della scrittrice francese Valeri Zenatti. Tal, una ragazza israeliana, decide di indirizzare una lettera a una ragazza palestinese di Gaza. Figlia di due israeliani pacifisti, vuole a tutti i costi dimostrare a sé stessa che è possibile costruire un dialogo tra i due popoli. Chiude la lettera in una bottiglia e chiede al fratello, che sta svolgendo il servizio militare proprio a Gaza, di gettarla in mare. Il fratello l’abbandona sulla spiaggia, dove la trova però un ragazzo, Naïm, che risponde in modo sarcastico e provocatorio alla lettera. Inizia così uno scambio di mail, i cui toni duri pian piano lasciano il posto a un confronto intimo e profondo, in cui i ragazzi si raccontano la loro vita quotidiana, inesorabilmente segnata dal conflitto, le loro ragioni, la loro stanchezza. Siamo anche qui negli anni della seconda Intifada, Tal è testimone di un attentato terroristico a un autobus, Naïm subisce il peso insostenibile dell’occupazione militare di Gaza. Entrambe le storie, quella del film e quella del libro, consentono di osservare il conflitto da entrambi i punti di vista, le conseguenze concrete sulla vita delle persone, pongono i personaggi specularmente l’uno di fronte all’altro. Mi è sembrato questo, e cioè il reciproco riconoscimento, un altro passaggio obbligato del percorso, specie perché in entrambi i casi le storie si concludono con la costruzione di un legame affettivo tra i protagonisti. Il dialogo e la pace come orizzonte di senso, come unica possibilità di vita vera.

Tornare alla realtà

Questa fase del lavoro si è conclusa con attività di scrittura nell’ambito delle quali i ragazzi hanno assunto via via il punto di vista dei personaggi delle storie, componendo pagine di diario e lettere. Successivamente si è riaperto il tema del confronto con la stretta attualità e ho chiesto quindi ai ragazzi di guardare i tg o di informarsi attraverso testate giornalistiche sull’evoluzione della situazione. Ho volutamente deciso di non dare indicazioni su quale mezzo di informazione consultare ma ho ampiamente avvertito rispetto alla possibilità di imbattersi in ricostruzioni faziose. Mi ha confortato constatare che in alcuni casi i ragazzi lo hanno riconosciuto da soli. Due volte a settimana due volontari a rotazione hanno relazionato sul telegiornale. Era richiesto loro di saper connettere quanto ascoltato ai tg o letto online ai dati di contesto affrontati in apertura del percorso e alle vicende narrate nel film e nel libro. È stata questa la parte più ostica, a dimostrazione della difficoltà di orientarsi per ragazzi così giovani in un quadro tanto complesso. Ho deciso quindi di strutturare meglio l’attività e di prendermi ancora del tempo, chiedendo a tutti, e non solo a coloro che dovevano relazionare, di documentarsi nei giorni prefissati, in modo da arricchire il confronto. Nel frattempo, nell’ambito di una verifica, ho raccolto le opinioni dei ragazzi sul conflitto. La consegna chiedeva di spiegare per quale motivo a loro avviso il conflitto israelo-palestinese non si risolve e quale soluzione sarebbero loro in grado di prospettare. Le opinioni sono state esposte talvolta in modo rozzo e superficiale, constatazione che ha quindi imposto di proseguire con l’attività del telegiornale, soprattutto in ragione del fatto che il conflitto si è presto trasformato in un’azione militare unilaterale di proporzioni gigantesche. In tal senso, le stesse categorie o i dati di riferimento forniti nella parte iniziale del percorso sono parsi via via insufficienti. Dalle opinioni degli alunni, infatti, è emerso prevalentemente un atteggiamento di equidistanza, in cui anche se confusamente si riconoscevano le ragioni di ciascuna parte, ma non si individuavano con chiarezza le responsabilità. Ho quindi riportato su Classroom, riorganizzandole dopo averne parlato con gli alunni, quattro delle opinioni espresse nella verifica:

1) il conflitto israelo-palestinese al momento appare irrisolvibile. Entrambe le parti sono accecate dall’odio. Hamas continua a compiere attentati terroristici e Israele continua a rispondere bombardando i territori palestinesi. L’unico modo per risolvere la questione è che sia affrontata a tavolino da parte di persone che sono veramente intenzionate a collaborare per la pace;

2) il conflitto israelo-palestinese non si risolve perché questi due popoli sono divisi per ragioni culturali e religiose dalla notte dei tempi. Dal momento che finora si sono uccisi a vicenda, una soluzione potrebbe essere quella di consentire ai palestinesi di studiare e lavorare più agevolmente in Israele in modo che i due popoli possano conoscersi meglio e costruire una fiducia reciproca che gli consenta di vivere insieme in un unico stato;

3) il conflitto israelo-palestinese non si risolve perché i palestinesi in pratica sono chiusi dentro dei recinti e trattati come animali. Non possono spostarsi, non possono uscire senza il permesso di Israele. Una soluzione potrebbe essere quella che i palestinesi cedano i territori che interessano a Israele e Israele ceda i territori che interessano ai palestinesi;

4) il conflitto israelo-palestinese non si risolve perché Israele occupa le terre che spettavano ai palestinesi e perché dopo l’assassinio di Rabin il processo di pace si è fermato. L’unica soluzione è la creazione di uno stato palestinese.

Nel file di Classroom ho segnato in rosso, per ogni opinione, i punti di debolezza del ragionamento, quelli palesemente infondati o i luoghi comuni, segnalando quali informazioni cercare per eliminarli. Ad esempio nell’opinione 2) ho segnalato l’affermazione «questi due popoli sono divisi per ragioni culturali e religiose dalla notte dei tempi» e ho chiesto di cercare informazioni in merito alla convivenza tra i due popoli prima e durante il mandato britannico. Ciascun alunno della classe, infine, ha dovuto scegliere una delle quattro opinioni e cercare materiali e dati a sostegno e, come detto, materiali che consentano di ridimensionare i punti di debolezza. Al termine di questa attività si sono costituiti quattro gruppi che hanno lavorato internamente per argomentare la propria opinione. Successivamente i gruppi si dovranno confrontare con gli altri.

Conclusioni

Gli esiti di questo percorso, per forza di cose in divenire, sono ancora tutti da verificare, in primo luogo perché è estremamente difficile restituire alla classe la salienza di quanto sta accadendo in un panorama globale periodicamente funestato da conflitti e catastrofi. Per questo ho ritenuto che in conclusione un’attività di ricerca orientata dall’insegnante ma in certa misura libera possa essere la chiave, almeno per gli alunni che affronteranno il compito seriamente, per ridefinire opinioni troppo genericamente critiche nei confronti della guerra, consentendo loro di uscire dalla retorica e di prendere posizione sulla base dei fatti e della storia.

da qui

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

Un commento

  • Nel giorno della memoria.
    Cinquecentomila “zingari” furono uccisi nei campi di concentramento nazifascisti. Ma nessuno stato rom, che d’altronde nessuno ha mai rivendicato, bombarda in nome loro nessun campo profughi, nessuna scuola, nessun ospedale. Cinquecentomila “zingari” furono uccisi nei campi di concentramento nazifascisti. Qualche volta i loro diretti nipoti, che non si sono nominati loro eredi morali, rubano nelle case degli eredi diretti dei loro sterminatori. Ma non è considerata una giusta riappropriazione, nemmeno una pallida ragione. E quando nei bar si parla male degli “zingari”, nessuno ritiene quei discorsi eredi diretti del pensiero nazista. Cinquecentomila “zingari” furono uccisi nei campi di concentramento nazifascisti. Ma qualcuno siede in parlamento sui loro cadaveri, insultando quella stirpe, perseguitandola pure nel giorno della memoria.
    Alessio Lega sulla sua pagina FB

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