Il mare, la terra e la libertà

di T. S. (*)  

È in Turchia la più grande estensione del Kurdistan, è nel Kurdistan turco che vive quasi la metà della popolazione kurda: discriminata, repressa, violata nei propri diritti umani e collettivi dalle politiche seguite dallo Stato turco. S.T. è una donna rifugiata. Ha trovato accoglienza nel progetto «Terra d’asilo» promosso dal Comune di Fidenza con altri 26 Comuni del parmense, dalla Provincia di Parma e da Ciac. Queste sono le sue parole, questo è il suo racconto

Il mare

Il mare quando lo guardo mi fa paura. Rido a dirlo, ma è così. Anche se lo vedo alla televisione, anche se non può farmi niente. Ma mi fa paura. Quando sono arrivata in Italia ero su una barca, piccola, vecchia, un po’ rotta, anzi molto rotta. Ad un certo punto ha cominciato ad entrare tanta acqua e le persone giovani correvano e cercavano di buttarla fuori, ma l’acqua continuava ad entrare. Sempre di più. Per gran parte del viaggio il mare era stato calmo, si è cominciato ad agitare quando già si vedevano le coste dell’Italia. Con le onde la barca ha cominciato ad andare su e giù, su e giù. Mi ricordo la gente che era nella barca, eravamo più di 80, che rideva e anch’io ho riso. Perché era come se dicessimo «È finita, non c’è più niente da fare». Qualcuno è svenuto, una donna con il bambino piccolo, e gli altri ridevano, come impazziti.

Io ho guardato intorno: mia madre, mio padre, i miei fratelli, il mio fratello piccolo che aveva 10 anni e gridava, ho pensato «Dio, Dio, Dio» e mi sono detta «Non puoi aiutare nessuno perché non sai nuotare» e li guardavo e non riuscivo a staccare gli occhi da loro. C’era sempre più acqua.

È arrivata un’altra barca, più grande, ma non si è fermata. Dopo però sono arrivati i motoscafi della Polizia, uno a uno ci hanno fatto uscire, mentre la barca continuava a scendere nell’acqua. Non era passata mezz’ora che è affondata. Noi eravamo tutti salvi, ma da allora, quando vedo il mare, ho paura, e mi ricordo di quelle risa e quella sensazione brutta del non poter fare niente per i miei.

La nuova terra: l’Italia

Quando arrivi in un Paese nuovo tutto sembra difficile e tu non capisci le cose che succedono. È molto difficile dirsi «Va bene, questo è il tuo nuovo Paese e ora vivrai qua». Perché è molto difficile vivere in un altro Paese. Il mio Paese è il mio Paese, e sembra un po’ di tradirlo. Mio nonno diceva che niente era più importante della sua terra. Ed è morto solo 3 mesi dopo che noi eravamo scappati. Ad esempio, io non parlerò mai un perfetto italiano. Mio fratello, quello piccolo, è fortunato, io dico così, perché va alla scuola italiana e potrà imparare a capire e farsi capire come vuole lui. Io sono arrivata già grande e continuo a pensare nel mio dialetto e capisco qualcosa sì e qualcosa no. Perché dietro le lingue ci sono cose molto grandi e tu puoi capire solo quelle della tua lingua.

Quando ero arrivata qua da poco, mi sembrava che tutti mi guardassero male. E molti lo facevano. E ogni volta quegli sguardi mi facevano venire in mente di quando sono sbarcata. Di quando siamo scesi a terra e io mi vergognavo perché i Carabinieri si tenevano la maglia premuta contro il naso perché puzzavamo tanto e i vestiti erano sporchi e fradici. Ci hanno messo, tutti e 80, in un campo da basket. Perché di fianco c’erano gli spogliatoi e noi dovevamo lavarci. Ora ci ridiamo, con mia madre e mio padre, ma allora, dopo due settimane chiusi un una nave, non pensavamo a ridere. Ci hanno fatto tante domande, ma noi non capivamo una parola di italiano. Ho capito solo quando hanno detto «Turchia»; allora io ho detto, finalmente,«No, Kurdistan».

Perché sono qua

Me lo chiedo spesso. Sangue, lacrime, dolore e guerra, c’è dentro tutto. Sino a che ero là non potevo dire «Io sono kurda». Se non dici niente e stai zitta non ci sono problemi, è quando dici «Io sono kurda» che cominciano i problemi. Mi dico spesso, da sola, «Dai! Vedrai che le cose, qui in Italia, andranno bene, per tutti, per i tuoi genitori e per i tuoi fratelli», ma ci sono delle volte, quando sono sola, nel mio letto, che penso una sola cosa: «Perché». Un perché dopo l’altro, mi chiedo perché sono dovuta scappare, e mi dico «Perché io sono kurda», perché non c’è un’altra risposta. A me sembra una risposta assurda, ma è l’unica vera. «Perché c’è la guerra, nel mio Paese», dico anche, e non sono solo i kurdi a venire in Italia, ma anche gli africani, e altre persone ancora, perché si scappa dalla guerra, dai dolori. Mi dico anche che sono fortunata, che siamo partiti tutti insieme, genitori e figli, fratelli e sorella, cioè io, e che tutti siamo vivi. Siamo partiti tutti insieme ma con dolore, siamo partiti tutti insieme altrimenti ci avrebbero perseguitato uno alla volta e se qualcuno di noi fosse rimasto avrebbe pagato, da solo e ancora più debole. E poi mi chiedo «Perché» non potevo parlare la mia lingua, mi chiedo perché io e il mio fratello più grande abbiamo dovuto abbandonare la scuola, perché mio padre non riusciva a trovare lavoro, mi chiedo perché sulla mia terra che è ricca e fertile, la Mesopotamia, noi viviamo in povertà. Mi chiedo perché non ci sono scuole e perché non ci sono ospedali, fabbriche e pace. Molti perché, cui so rispondere solo così: «Perchè siamo kurdi, perché sono kurda».

La terra e la libertà

Quando penso alla mia terra mi viene da sentire il suo profumo, da vedere il colore del cielo ma poi è come se sotto quel cielo ci fosse una gabbia immensa. Allora prima la terra e la libertà. Perché quando entro nella mia casa voglio dormire tranquilla, non pensare che qualcuno verrà nel cuore della notte e farà irruzione in casa. In Kurdistan non dormi mai tranquilla perché entrano in casa. Mi ricordo che i soldati contavano i bicchieri sul tavolo e se ce n’era uno in più dicevano: «Dov’è il partigiano che tenete nascosto?». O che non puoi comprare più di tanta farina o tanto zucchero. Se ne tieni o ne compri di più, la stessa accusa: «State nascondendo qualcuno». Lungo la strada ci sono sempre controlli e i militari possono rimandarti indietro quando vogliono. Mi ricordo che hanno bruciato la casa dei miei nonni. Insieme ad altre 20 case, a Tunceli, e hanno ucciso tutti gli animali e bruciato le scorte. Mi ricordo a Istanbul dove non dovevamo farci sentire parlare la nostra lingua perché altrimenti vicini di casa, compagni di scuola e “amici” lo dicono alla Polizia. Mi ricordo che, ero bambina, i miei genitori ci hanno sempre protetto e non ci hanno mai spiegato bene bene cosa stava succedendo, e che in casa venivano ragazzi e ragazze, uomini e donne, e i miei ci dicevano «Sono amici» e di notte parlavano e facevano riunioni. Mi ricordo anche quando è stato il momento di fare il militare, per i miei fratelli. Ma non sarebbero andati nell’esercito ad uccidere i loro fratelli, perché abbiamo deciso di scappare e venire in Italia. Io con loro. Spero che i nostri nipoti tornino a casa in un Paese libero dove possano dire chi sono e da dove vengono. Magari avvenisse, lo spero per loro perché io non so se io potrò vederlo quel giorno.  

(*) Il testo mi è arrivato ieri sera da un’amica, accompagnato da questo messaggio: «domani sarà la giornata mondiale dedicata ai rifugiati, immagino, però, che pochi ne parleranno; per questo, pensando a domani e anche agli eventi di queste ultime settimane – la degna lotta in Turchia, i gommoni che arrivano col loro carico di giovani vite, di speranze per un domani migliore – sono andata a rileggere questa storia, che parla al cuore… la condivido con voi».

 

Redazione
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  • Questo bellissimo articolo lo dedico alla mia amica Ruken, donna curda tosta e coraggiosa che sta sostenendo gli esami di maturità. E lo diffondo nelle pagine FB di docenti ” incazzati” e del coordinamento insegnanti di Cagliari. GRAZIE.

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