Il Nicaragua è un altrove già visto

I misfatti dell’attuale Inquisizione ortego-chayista.

di Bái Qiú’ēn

Ahi Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco padre!

Qualche lettore avrà di certo riconosciuto nell’epigrafe lo stile poetico di Dante, nello specifico i versi 115-117 del XIX canto dell’Inferno, quello dei simoniaci raccolti nelle Malebolge e colpevoli di commercio delle cose sacre. Il Sommo Poeta in questa terzina ci parla di quella che, secondo lui, è la causa originaria dell’avarizia all’interno della Chiesa di Roma: la donazione di Flavio Valerio Aurelio Costantino datata ipoteticamente il 30 marzo 315 (un millennio dopo, all’epoca di Dante, è ancora ritenuta autentica, tanto che lui stesso nel De monarchia [c. 1313] non ne mette in dubbio l’autenticità, bensì disquisisce sul suo valore giuridico) che, dando ai pontefici sia la Città Eterna, Caput Mundi, sia il potere temporale, instilla in loro il gusto dei piaceri terreni e soprattutto del potere, con la fondazione dello Stato Vaticano che per oltre un migliaio di anni governa su un vasto territorio della penisola italiana e che a tutt’oggi esiste, per quanto assai ridotto territorialmente.

Circa un secolo e mezzo dopo la stesura della terzina dantesca, dal 1447 l’umanista ed erudito filologo romano di famiglia piacentina Lorenzo Valla, è alla Corte pontificia fino a ricoprire la carica di segretario apostolico, ossia è uno stretto collaboratore del Pontefice. La sua profonda padronanza della lingua latina lo porta ad analizzare scrupolosamente la suddetta Donazione di Costantino, stabilendone la falsità già nel 1440 (De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio). Il testo è però stampato e reso pubblico solamente nel 1517, sessanta anni dopo la morte dell’autore, nel periodo immediatamente anteriore alla Riforma luterana, dall’umanista e teologo tedesco Ulrich von Hutten, assai critico nei confronti della Chiesa di Roma (resa evidente nella dedica provocatoria a Leone X de’ Medici). Come è scontato, nel 1559 questo testo è inserito nell’Index Librorum Prohibitorum creato da Paolo IV Carafa per evitare la diffusione di libri contrari alla fede o alla morale (proibendone sia la lettura sia il possesso), costantemente aggiornato nel corso del tempo. Meno prevedibile, ma vero, è che dal 1613 pure la Commedia rientra nell’elenco (assieme al De monarchia, nel quale Dante affronta politicamente il tema del potere temporale e di quello spirituale). Come curiosità storica, l’Index è abolito solo il 4 febbraio 1966 e (ci si può credere o meno), per quanto vi siano inseriti Alberto Moravia, Aldo Capitini, Jean-Paul Sartre e vari altri, mai si provvide a inserirvi il Mein Kampf di Hitler (1925-1926).

«Atque decernentes sancimus, ut principatum teneat tam super quattuor praecipuas sedes Antiochenam, Alexandrinam, Constantinopolitanam et Hierosolymitanam, quamque etiam super omnes in universo orbe terrarum dei ecclesias (E decretiamo che [il vescovo di Roma] detenga il principato sia sulle quattro sedi principali di Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, sia su tutte le chiese di Dio nel mondo intero)».

Tornando a Valla, che vive in un periodo storico-culturale in cui finalmente si studiano i documenti alla ricerca di prove al di là delle leggende, questo erudito dimostra con ragionamenti storici e filologici che, a causa di sviste (come l’anacronistico rifermento a Costantinopoli sopra riportato, città fondata solo nel 330, tre lustri dopo la data apposta sul documento) e altre vistose anomalie pure in ragione di alcune locuzioni latine contenenti barbarismi utilizzati solo in seguito (tipo: «feudo»), quel testo era stato redatto nell’VIII secolo (tra il 752 e il 777), ben quattrocento anni dopo la morte del primo imperatore “cristiano”, per cui Valla ne ricava che non esiste alcun diritto dei pontefici al potere temporale. Per quanto stabilisca al di là di ogni ragionevole dubbio che il Constitutum Constantini è il falso dei falsi, nel corso dei secoli la Chiesa non ne ha mai ammesso ufficialmente l’infondatezza.

Dante lamenta i danni causati da quella Donazione sulla morale della Chiesa di Roma e inveisce ferocemente sia contro Costantino sia contro il «primo ricco padre», ossia Papa Silvestro, poi santificato e festeggiato il 31 dicembre. Dal canto suo, oltre un secolo dopo, Valla accusa i vari pontefici succedutisi nel corso degli anni, da Silvestro in poi, di sostituire alla verità storica la dottrina e il dogma (non ancora l’infallibilità, la quale venne introdotta solo il 18 luglio 1870, con l’Unità d’Italia, tre mesi prima della breccia di Porta Pia), di mentire sapendo di mentire. Non meraviglia, pertanto, che entrambe le opere siano proibite dalla Controriforma, la quale provvede pure a ricoprire pudicamente le parti intime e “scandalose” delle opere d’arte, incaricando dell’operazione un certo Daniele da Volterra (all’anagrafe Daniele Ricciarelli), il quale è giustamente passato alla storia come «Il braghettone». Più di recente l’algoritmo di Facebook ha cancellato le pagine di numerosi utenti, contenenti opere d’arte ritenute “scandalose” (tipo il David di Michelangelo) in base al codice talebano stabilito da Zuckerberg e dai suoi geniali dirigenti: «presenta un’immagine con contenuto esplicitamente sessuale che mostra eccessivamente il corpo o si concentra su parti del corpo senza che sia necessario. Non è consentito l’uso di immagini o video di nudo o di scollature troppo profonde, anche se per fini artistici o educativi» (in base a questa visione puritana e pruriginosa, una buona metà delle opere d’arte dovrebbero essere distrutte, a partire da quelle “scandalose” di Egon Schiele, uno dei maggiori esponenti del primo Espressionismo viennese). Se fossero ancora tra noi, sia Dante sia Valla, rischierebbero i rigori dell’Inquisizione e il conseguente rogo poiché ciò che conta non è la verità, bensì ciò che vuole l’autorità.

Se il primo tentativo di controllo sulle letture dei fedeli risale al Concilio di Nicea nel 325, l’attuale Inquisizione ortego-chayista costringe all’esilio intellettuali come Sergio Ramírez e Gioconda Belli, togliendo loro persino la nazionalità (solo per fare un paio di nomi noti a livello internazionale). Accusati di cospirazione contro la sovranità nazionale e incitamento all’odio e alla violenza. Se mettono piede nel Paese rischiano il carcere.

L’Inquisizione ortego-chayista, dall’aprile del 2018, è andata ben oltre: ha pure proibito alla gente comune di sventolare la bandiera nazionale o di cantare Ay Nicaragua, Nicaragüita fuori dalle manifestazioni ufficiali. Chi sventola o canta per i fatti suoi, rischia il carcere con la stessa accusa sopra indicata. Non sono molto diversi gli ayatollah, con la loro assurda e medievale fobia nei confronti della capigliatura femminile da coprire accuratamente con l’ḥijāb. O dei talebani che vorrebbero vedere le donne solo con lo scafandro da palombaro.

A tutte le latitudini e in tutti i climi, l’integralismo pseudo-religioso o pseudo-ideologico si presenta con lo stesso volto e con gli stessi metodi, a prescindere se corrisponda o meno all’interpretazione dogmatica e settaria di una religione in quanto tale o a una pseudo-ideologia inventata dal Potere di turno o da un propagandista che osanna quello iraniano come «socialismo coranico»: in ogni caso esiste un fondatore da venerare (tradendolo però a ogni pie’ sospinto), una serie di scritture “canoniche” (da non seguire minimamente, ma da citare se e quando fanno comodo, possibilmente edulcorate e adattate), luoghi ed edifici sacri come meta di pellegrinaggio (che in taluni casi possono essere replicati ab libitum), sacerdoti o sacerdotesse autonominatisi tali che diffondono il verbo, riti e festività da rispettare pena la condanna eterna nella Geenna. E, naturalmente, una comunità più o meno estesa di fedeli, per quanto non tutti ottenebrati dal dogma. Tutto ciò corrisponde esclusivamente agli interessi di chi detiene il Potere. Che sia clericale o laica, «Die Religion ist das Opium des Volkes» affermò un certo Marx nel 1842-1843.

Non ci risulta che Augusto C. Sandino abbia mai avuto intenzione di creare una religione né tanto meno di essere venerato e idolatrato: «Soy trabajador de la ciudad, artesano como se dice en este país» e «Nadie tiene derecho en la tierra de ser el semidiós humano» (Manifiesto de San Albino, 1° luglio 1927). I suoi scritti corrispondevano alla situazione e alle necessità del momento, senza alcuna intenzione di trasformarli in testi sacri; la sua casa natale a Niquinohomo (replicata nel 2015 sul malecón di Managua, in pro della venerazione popolare), l’albero di espino negro a Tipitapa, la miniera San Albino, i luoghi delle numerose battaglie del suo Ejército Loco, non ha mai auspicato che fossero meta di pellegrinaggi né di celebrazioni rituali; le date della sua azione corrispondevano soltanto ai momenti della sua esistenza terrena e della sua azione liberatrice (con oltre 500 battaglie).

Nemmeno il suo scritto più “spirituale”, il Manifiesto Luz y Verdad (15 febbraio 1931) può essere letto come un’indicazione di tipo clericale.

Il teologo Vito Mancuso afferma che «il primo grande problema che incontra chi si appresta a riflettere seriamente su Gesù, [è] il fatto che il cristianesimo e Gesù non sono per nulla la stessa cosa» (I quattro maestri, 2020, p. 331). Allo stesso modo occorrerebbe riflettere seriamente sul Sandino storico e sulla deriva clerical-orteguista del suo pensiero e della sua azione.

La religio fu definita da Machiavelli instrumentum regni, e i machiavellini in sedicesimo che reggono oggi le sorti del Nicaragua hanno pensato bene di crearne una a loro uso e consumo. Il machiavellismo imperante, però, è una cosa assai diversa dalle opere del Segretario dei Dieci di Balia, che non è un autore buono per tutte le stagioni e per tutte le latitudini (sebbene questa sia un’interpretazione assai generalizzata): «Bi­sogna considerare maggiormente il Machiavelli come e­spressione necessaria del suo tempo e come strettamente legato alle condizioni e alle esigenze del tempo» (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere).

Nell’aprile del 2017 PEN Nicaragua, sezione nicaraguense di PEN Internacional (Poets, Essayists, Novelists), la cui presidentessa era Gioconda Belli, aveva realizzato un incontro-dibattito proprio su Il Principe. Dopo oltre vent’anni di attività, il 15 febbraio 2022 l’Asamblea Nacional, su indicazione di Daniel, ha deciso di chiudere questa organizzazione di scrittori. Il successivo 18 maggio la stessa sorte è toccata alla Fundación Festival Internacional de Poesía de Granada, operante dal 2003. Pochi giorni dopo ha soppresso l’Academia Nicaragüense de la Lengua. Organizzazioni “segrete” senza dubbio diffonditrici di odio e dedite alla sovversione contro il Potere costituito, tramite la letteratura, la poesia e il linguaggio. Oltre a ciò, un centinaio di giornalisti sono stati obbligati ad abbandonare il Paese dal 2018 a oggi. Nell’aprile del 2022 il musicista e compositore Leonardo Canales è stato letteralmente deportato in Costa Rica, con la scusa che è un “mezzosangue” costaricano (con doppia nazionalità). Negli stessi giorni alla cantautrice italo-nicaraguense Emilia Arienti nota come Ailime è stato intimato di lasciare il Paese entro 48 ore. Vari altri musicisti, dal 2018 a oggi, sono stati costretti a lasciare i loro Paese. In primis, i fratelli Carlos Arturo e Luis Enrique Mejía Godoy, autori della colonna sonora della Rivoluzione Popolare Sandinista. E, da noi, persino Crosetto intona Bella ciao!

In compenso, fin dalle prime ore del mattino di tutti i giorni feriali si forma una fila immensa di persone sull’Avenida Xolotlán, da dove «fue la Pepsi» sulla Carretera Norte fino all’entrata della Dirección General de Migración y Extranjería, per richiedere il passaporto o il visto per uscire dal Paese: secondo i dati ufficiali, nella settimana dall’8 al 14 ottobre scorsi ne sono stati concessi oltre settemila.

Dulcis in fundo, l’elenco dei nicaraguensi ai quali, in palese violazione dell’articolo 31 della Costituzione, è stato impedito il rientro nel Paese sarebbe decisamente troppo lungo da trascrivere. Per ordine dall’alto, nessun consolato nicaraguense è autorizzato a rinnovare il passaporto per coloro che si trovano all’estero (uno degli ultimi casi è quello dell’ex comandante guerrigliera Mónica Baltodano e dei suoi familiari esuli in Costa Rica, prima di togliere loro la nazionalità), privandoli del documento necessario per poter liberamente spostarsi in altri Paesi.

Secondo la versione ufficiale di Daniel, questa fuga sempre più massiccia sarebbe dovuta alle sanzioni imposte al Paese dal governo di Washington. Eppure, all’inizio di novembre, una missione del Fondo Monetario Internazionale ha valutato positivamente l’andamento e le prospettive macro-economiche del Nicaragua, escludendo pertanto che le sanzioni ad personam influiscano in modo negativo sulla qualità di vita dei nicas. Ma si sa, il FMI è al soldo di Washington… peccato che la stessa propaganda ortego-chayista affermi la stessa cosa.

Come sostenne a suo tempo Umberto Eco, se il nemico non c’è (esterno o interno), è necessario costruirlo, dotandolo di una perversità negativa per evidenziare, in contrasto, la nostra stessa positività: «Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro» (Costruire il nemico e altri scritti occasionali, 2011, pp. 10-11). Al contempo, è essenziale cancellare la memoria storica e persino la cronaca, nascondendo ciò che potrebbe far crollare il castello di carte artificiosamente costruito nel corso degli anni.

Gli errori e le responsabilità del Potere locale non possono essere addossate a un Impero senza dubbio deciso a ripristinare il neoliberismo e la propria diretta influenza sul Paese. Utilizzarli però come scusa per i ritardi nella costruzione del socialismo (chiamiamoli così) è assai comodo. Occorre invece dare a Cesare ciò che è di Cesare, altrimenti si rischia di analizzare la realtà con un forte strabismo, che non fa bene al vero sandinismo né allo stesso Nicaragua.

Chissà cosa potrebbe accadere a Rubén Darío, se camminasse ancora sulle strade polverose di León (donde Rubén puso sus sandalias), recitando ad alta voce le parole da lui stesso dedicate alla statua della libertà di New York? «A te prolifica, enorme, dominante. A te Nostra Signora della Libertà. A te, nei cui seni di bronzo si alimentano innumerevoli anime e cuori. A te, che stai sola e magnifica sulla tua isola, innalzando la fiaccola divina. Ti saluto mentre passa il mio piroscafo, prostrandomi davanti a tua maestà. Ave libertà, piena di forza; il Signore è con te: benedetta tu sia» (Los raros, 1896). Vendepatria, traidor, asesino!!! Vade retro!!! Al rogo!!!

Non molto diversa sarebbe la situazione di Augusto Sandino, se pure lui tornasse a calpestare il suolo del Nicaragua, ufficialmente governato in suo nome.

Un carissimo amico giornalista nicaraguense di provata fede sandinista, purtroppo non più tra noi, tanti anni fa ci disse che un giornalista degno di tale nome, deve osservare e descrivere ciò che lo circonda «con gli occhi di Marco Polo», non con quelli del dogma o del pregiudizio (ideologico, religioso o di qualsiasi altra natura).

Nell’ormai remoto 1542 il frate Diego de Landa giunse nello Yucatán e negli anni successivi si dedicò con fervore alla distruzione della cultura maya, facendo ardere sul rogo l’opera “diabolica” contenuta nei loro libri. La stessa operazione fu realizzata dal francescano Francisco de Bobadilla nel villaggio chorotega dove ora sorge Managua.

***

Non siamo a conoscenza dell’esistenza o meno nel Nicaragua attuale di un Indice dei libri proibiti, però di certo l’ultimo romanzo di Sergio Ramírez Tongolele no sabía bailar, pubblicato nell’agosto del 2021 che, con varie scuse più o meno burocratiche, è stato bloccato in dogana e non è mai arrivato sugli scaffali delle pochissime librerie ancora esistenti nel Paese.

Si tratta di un cuento policíaco, un giallo diremmo noi, il cui protagonista, «L’ispettore Dolores Morales (Managua, Nicaragua, 18 agosto 1959) è un ex guerrigliero nella lotta contro il dittatore Anastasio Somoza Debayle deposto dalla rivoluzione trionfante del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN) nel luglio 1979; è un membro della Polizia sandinista fin dalla sua fondazione (poi della Polizia Nazionale), e dopo aver ricevuto il congedo diventa un investigatore privato».

La storia di fantasia pubblicata nel 2021 dalla messicana Alfaguara, è collocata temporalmente in un periodo nel quale si realizzano rivolte popolari brutalmente represse dal Governo, sostenuto dal sinistro braccio esecutore del capo dei servizi segreti. L’investigatore Morales deve confrontarsi a distanza con questo terribile personaggio soprannominato Tongolele (nome d’arte della ballerina messico-statunitense degli anni 40 e 50, Yolanda Montes), comandante della polizia, il quale si muove con freddezza e cinismo, seguendo i consigli divinatori della madre. La trama presenta una rete occulta, piena di segretezza, tradimenti e manovre oscure che Morales deve affrontare e cercare di evitare, poiché, in un Paese sempre turbolento e rebelde, qualsiasi passo può essere sbagliato e causare la fine definitiva di chiunque decida di confrontarsi in qualsiasi modo con il potere costituito.

Pur non essendo critici letterari, ci pare che questa novela non sia alla stessa altezza artistica delle opere precedenti di Ramírez, ma probabilmente a livello politico può essere considerata come De tropeles y tropelías dell’ormai lontano 1971 (Sulle folle e sui soprusi), affabulazione su una delle figure persistenti e diaboliche dell’America Latina: il dittatore, il cui fantasma percorre a intermittenza i vari Paesi del continente.

***

L’ispettore Morales si svegliò quando sentì che il telefono gli era scivolato di mano. Si chinò e lo raccolse, e poi afferrò il suo bastone, pronto ad alzarsi in piedi. Ma prima si divertì a guardare il pomello scolpito con la forma a testa di sciacallo, con muso e orecchie a punta, come se quella testa lo stesse interrogando.

Quando Chuck Norris, il capo della stazione della DEA a Managua, fu trasferito a Kabul, gli lasciò in dono quel bastone d’ebano comprato in un mercato del Cairo. La testa di sciacallo era una rappresentazione del dio egizio Anubi, uno dei più antichi al mondo, un dio spazzino, poiché si nutre di cadaveri umani.

Questo è stato più di vent’anni fa, e Chuck Norris era stato ucciso dai talebani in un’imboscata al confine con il Pakistan, cosa che scoprì solo molto tempo dopo. Poiché ora ricordava con precisione quel lontano dio della morte, non poteva spiegarselo; e quando finalmente si alzò, si sentiva sopraffatto dallo sconforto, come se fare il prossimo passo fosse un compito troppo impegnativo per il suo corpo. […]

L’ispettore Morales si diresse quindi verso il piccolo cortile pieno di piante in vasi di coccio, dove i panni venivano stesi ad asciugare su lamine di zinco.

Era un rettangolo chiuso in alto da una griglia, come un tetto, per bloccare il passaggio dei ladri. Un’iguana panciuta, con il ventre pesante e un grande gozzo, prendeva tranquillamente il sole sul bordo del muro.

Alzò lo sguardo verso il brandello di cielo delle tre pomeridiane, grigliato tra i tondini di ferro, e il bagliore colpì i suoi occhi. Li chiuse, e come in un lampo vide Chuck Norris, in abito da lavoro, piegato sul sedile anteriore di una jeep in fiamme sul ciglio di una strada rocciosa, accanto da cui si estendeva un campo di papaveri fino a perdersi a vista d’occhio, una morbida onda rossa pettinata dal vento; e in un altro lampo vide Tongolele appoggiato a una barricata in una strada chiusa, con una corona di fuoco che ardeva sul suo collo, e nelle narici sentì l’odore della battaglia.

***

È evidente che l’ambientazione reale e dichiarata sia nel Nicaragua delle proteste spontanee di massa del 2018 per cui, tutto considerato, non meraviglia che la diffusione di questo racconto giallo sia stata impedita dal Potere, in quanto «destabilizza il Paese». Che ciò corrisponda a una visione democratica e pluralista come era quella della Rivoluzione Popolare Sandinista, abbiamo parecchi dubbi. Che ciò corrisponda al terrore che può generare la parola (detta o scritta fa poca differenza) è del tutto evidente. Se un semplice romanzo poliziesco può destabilizzare il Paese, significa che le sue basi sono assai fragili: l’ABC della politica insegna che più il Potere è forte, più esiste la libertà di espressione (e viceversa).

Gli inquilini di El Carmen, però, hanno fatto i classici conti senza il classico oste: non siamo più nel Cinquecento (neppure in altre epoche precedenti o immediatamente successive) con i roghi dei libri e il racconto di Ramírez ha circolato e circola comunque in formato PDF sui social e in rete (gratuitamente), strumenti che non esistevano all’epoca del Concilio tridentino e della Santa Inquisizione. Inoltre, essendo del tutto digiuni di storia (eccetto quella che loro stessi manipolano a loro uso e consumo), hanno sottovalutato l’attrazione fatale di tutto ciò che è vietato, esattamente come negli anni statunitensi del proibizionismo.

Al tempo stesso pensano che possa essere sufficiente un po’ di vernice bianca per cancellare non solo la scritta cubitale «Estadio Dennis Martínez», ma pure il ricordo di questo “eroe” dello sport tuttora vivente e oppositore dichiarato dell’orteguismo. Avendo dimenticato che già Arnoldo Alemán (“Gordomán”), quando era sindaco di Managua, fece cambiare numerose intitolazioni ma tutti continuarono a usare quelle della Rivoluzione.

***

Nella sua monumentale Storia della letteratura italiana (sedici volumi) l’erudito Girolamo Tiraboschi narrò una vicenda accaduta all’epoca dell’imperatore romano Augusto (regnante a cavallo tra l’avanti e il dopo Cristo) relativa all’oratore e storico Titus Labienus le cui Historiae, che denunciavano la corruzione dell’élite al Potere furono ritenute troppo repubblicane (per la violenza delle sue invettive fu soprannominato Rabienus): «Contro di lui per la prima volta fu escogitata una pena mai sentita: i suoi nemici ottennero, infatti, che tutti i suoi libri venissero dati alle fiamme» (Seneca, Controversiæ X [Præfatio 4-8]). Lo stesso Augusto obbligò infatti il Senato a decretarne il rogo [Senatus populusque romanus=El Pueblo Presidente]. In seguito a tale decisione, Labieno si suicidò, lasciandosi morire chiuso nella tomba dei propri avi: «Avea egli scritta una Storia in cui sembra che narrasse le ultime guerre civili, e in essa avea parlato con tal libertà che […] egli stesso ben dovea conoscere il pericolo a cui con ciò si esponeva; perciocché, […] leggendola egli un giorno pubblicamente, ne ommise una gran parte, e volgendosi al popolo, queste cose ch’io or tralascio, disse, si leggeranno poscia dopo la mia morte. Ma non bastò questo a sottrarlo ad ogni pericolo; perciocché divolgatesi le Storie da lui composte, furono esse ancora per pubblico ordine date alle fiamme; nella qual occasione racconta Seneca, che Cassio Severo, poiché vide arsi gli scritti di Labieno, or, disse ad alta voce, convien gittar me ancora alle fiamme, poiché io gli ho impressi nella memoria» (Niccolò Bettoni, Milano 1833, vol. I; p. 160).

L’allievo Cassio Severo aveva infatti appreso a memoria l’opera dello storico e dichiarò che per distruggerla completamente era necessario bruciare pure lui sul rogo: il Potere si limitò a deportarlo e a confinarlo, fino alla morte, prima a Creta e poi a Serifo, isole del Mar Egeo.

***

Nato nel 1821, Fëdor Michajlovič Dostoevskij, uno dei più grandi scrittori e pensatori russi, fu arrestato il 23 aprile 1849 per la sua partecipazione a una società segreta di carattere sovversivo e incarcerato in una tipica fortezza-prigione zarista. Il tribunale, sottoposto al volere politico di Nicola I, lo condannò alla fucilazione, ma, bontà sua, lo stesso Zar la commutò nei lavori forzati a tempo indeterminato, facendoglielo comunicare pochi istanti prima che il plotone ricevesse l’ordine di fare fuoco: «A chi sa di dover morire, gli ultimi cinque minuti di vita sembrano interminabili, una ricchezza enorme. In quel momento nulla è più penoso del pensiero incessante: “se potessi non morire, se potessi far tornare indietro la vita, quale infinità! E tutto questo sarebbe mio! Io allora trasformerei ogni minuto in un secolo intero, non perderei nulla, terrei conto di ogni minuto, non ne sprecherei nessuno!”» (L’idiota, 1869). Deportato in Siberia, fu liberato nel 1854 per buona condotta.

Nel gennaio-febbraio di quello stesso anno scrive una lettera a Natalija Dmietrievna Fonvizina: «Vi dirò di me che io sono un figlio del secolo, sono un figlio del dubbio e della miscredenza, fino a oggi e (lo so) finché campo. Questa sete di fede mi è costata e mi costa spaventose sofferenze, ed essa cresce nel mio animo tanto più forte quanto più in me albergano conclusioni opposte» (Lettere, Il Saggiatore, 2020).

Pure noi siamo figli del dubbio (cogito ergo sum) e non crediamo nella tutela del Potere (anche quando paternalistica e ufficialmente “buonista”), avendo invece la certezza che la libertà di pensiero e di espressione sia un bene da preservare sempre e comunque, specialmente quando si manifestano opinioni di dissenso e d’opposizione a quelle dominanti: «non esistono poteri buoi» (Fabrizio de André). Come Kant, pure noi riteniamo che sia alla base non solo della conoscenza, bensì della stessa emancipazione dell’essere umano.

Forse rifacendosi al detto latino nemo propheta in patria, nel suo ultimo romanzo (probabilmente il più noto) I fratelli Karamazov, lo stesso Dostoevskij immaginò che Gesù tornasse sulla terra, peraltro nella cattolicissima Spagna del Siglo de Oro, esattamente a Siviglia, e che l’ormai anziano cardinale a capo della Santa Inquisizione lo faccia arrestare e processare: «quando l’inquisitore termina di parlare, aspetta per un po’ di tempo che il prigioniero gli risponda. Gli pesa il silenzio di lui. Egli si è accorto di come il carcerato lo abbia ascoltato con estrema attenzione, tranquillamente, guardandolo dritto negli occhi e, in tutta evidenza, senza alcuna intenzione di replicare. Il vecchio avrebbe voluto che quello gli dicesse qualcosa, per quanto amara e tremenda potesse essere. Egli invece si avvicina lentamente al vecchio e lo bacia piano sulle esangui labbra di novantenne. Ecco, è questa tutta la sua risposta. Il vecchio sussulta. Un leggero fremito gli contrae gli angoli della bocca, egli va alla porta, la apre e gli dice: “Va’ via e non tornare più… non tornare più… mai, mai più!” E lo lascia andare “nelle scure piazze della città”. Il prigioniero scompare» (trad. di Maria Racovska e Ettore Fabietti, Milano 1931).

***

Se Sandino tornasse a passeggiare in Nicaragua con il suo sombrero Stetson in testa, i suoi stivali infangati e le sue cartuccere a tracolla, predicando che «nadie tiene derecho en la tierra a ser semidios», a El Carmen troverebbero di certo qualche appiglio per definirlo un traditore della Patria, costringendolo all’esilio e privandolo della nazionalità.

Quante volte i pronipoti dilapidano l’eredità? In questo caso non economica, bensì ideale e morale.

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *