Il Nicaragua è un satellite della Luna

La storia di José Leonel Rugama Rugama e molto altro.

di Bái Qiú’ēn

Nunca contestó nadie porque los héroes no dijeron que morían por la patria sino que murieron (José Leonel Rugama, 1969).

Eroi, eroi, che fate voi? Ponziamo il poi (Giuseppe Giusti, 1844).

Nel pomeriggio di giovedì 15 gennaio 1970, nei pressi del Cimitero Orientale di Managua, cade combattendo contro un intero battaglione della Guardia Nacional somozista (GN) il giovane poeta Jisá Lainal Rufepe. Così si firma un ventenne ex seminarista diventato guerrigliero, utilizzando un gergo oggi totalmente scomparso dal Nicaragua. Del quale restano soltanto alcune parole usate nella conversazione quotidiana e popolare, ma delle quali ormai pochissimi conoscono l’origine: tuani, pofi, peli, brete

Una trentina di anni fa ci capitò di chiacchierare a lungo con un pintor, a tutti gli effetti un imbianchino orgoglioso del proprio mestiere proletario, del quale abbiamo purtroppo scordato il nome. Era uno dei pochi che sapeva ancora parlare questo strano gergo. Per un intero pomeriggio, tra una bottiglia di Victoria e l’altra, ce ne spiegò il funzionamento, dimostrandoci che tuani non solo significa «bueno», ma che sono le medesime lettere sostituite da altre. La spagnola Real Academia de la Lengua, che Rubén Darío definiva «la Santa Sede del idioma», riconosce tuani come vocabolo in uso sia in El Salvador sia in Nicaragua: «Dicho de una cosa, de excelente calidad».

Qualche nicaraguense tira a indovinare l’origine, affermando, con la sicurezza di chi non sa nulla, che deriva dall’inglese too nice nella accezione di «troppo buono». Allo stesso modo, alcuni nostri connazionali dotati di fervida fantasia ritengono che il milanese «minga» derivi da mink’a, nonostante che nell’idioma quechua indichi il lavoro comune in beneficio della collettività. L’è minga vera, pirlèta: a tutti gli effetti, come la famosa michetta, ha origine dal latino «mica» che significa briciola o pezzo di pane, con un probabile adattamento dallo spagnolo «miga», mollica (o «migaja», briciola).

Pofi, no seas tan peli y echáme un manito pa’ qu’ este brete salga bien tuani. Se è comune l’uso di peli per significare «malo», nel corso del tempo, alcune parole hanno subìto delle lievi variazioni, per cui epofi, usato per indicare l’«amigo», è diventato semplicemente pofi; mentre brete, apocope di breteji, indica il «trabajo» (Guillermo Bendaña, «Presencia del malespín en el habla nicaragüense», La Prensa Literaria, 1° novembre 1984).

Forse qualche lettore di una certa età ricorda che da ragazzi ci si divertiva a storpiare le parole, inserendo dopo ogni sillaba una «p» seguita dalla corrispondente vocale (Italia: Ipitapalipiapa), riuscendo a parlare con una velocità impressionante. In Messico esiste l’escaliche, in Brasile il giria, in Perù il replana, in Cile il coa, in Argentina il lunfardo e via dicendo. In Nicaragua c’è il malespín o malespino (Alfonso Valle, Diccionario del habla nicaragüense, 1948).

Il quasi quarantenne generale salvadoregno di tendenze spiccatamente conservatrici Francisco Malespín Herrera diviene il Direttore Supremo (Presidente) del Pulgarcito de América dal 7 febbraio 1844 al 15 febbraio 1845, comportandosi come un vero tiranno secondo le cronache, tanto che è considerato il primo caudillo del piccolo Paese centroamericano. Nel corso delle interminabili guerre fratricide fra i liberali e i conservatori che si verificano in tutti i Paesi dell’area centroamericana fin dal giorno della Indipendenza dalla Spagna, nell’ottobre del 1844 lascia momentaneamente la presidenza e interviene militarmente in Nicaragua alla testa di un esercito composto da salvadoregni e dagli alleati honduregni (Ejército Protector de la Paz). Fra i vari obiettivi della spedizione, il sostegno al conservatore granadino Silvestre Selva contro il legittimo presidente liberale leonese Emiliano Madriz. Il 21 novembre Malespín si accampa nella gola di Barranca de San Antonio e alle 3 del mattino del 27 attacca la roccaforte dei liberali: Santiago de León de los Caballeros. Dopo una lunga e feroce serie di battaglie, che proseguono un paio di mesi, riesce a occuparla, a saccheggiarla e a incendiarla. Non contento, compie le tradizionali vendette del vincitore contro il perdente e il 24 gennaio 1845 fa fucilare tutti coloro che ricoprono alte cariche cittadine, compreso Madriz (oggi ricordato nel nome di un departamento al confine con l’Honduras).

Per comunicare sia oralmente sia per iscritto con le proprie truppe utilizza uno strano spagnolo, che solo i suoi uomini comprendono. Si basa su un codice assai semplice, costituito dalla inversione di un certo numero di lettere: a↔e, i↔o, b↔t, f↔g y p↔m (alcuni aggiungono pure c↔s, compreso il giovane seminarista, ma non è storicamente comprovato). È proprio in uno scenario di estrema barbarie bellica che avviene l’introduzione in Nicaragua di questo codice linguistico, inizialmente utilizzato per nascondere le comunicazioni militari. Con l’inversione di quattro vocali e di sei consonanti è possibile deformare e cifrare qualsiasi messaggio, in modo tale che il nemico non possa comprenderne il contenuto (Róger Matus Lazo, Estudios sobre el español nicaragüense, 2002). Del tutto incomprensibile quando è parlato normalmente.

In tal modo, infatti, Malespín cambia in Pelasmón, León diventa Laín, Managua è Penefue e Nicaragua si trasforma in Nocerefue. Con queste indicazioni e con un piccolo sforzo, riuscireste a “tradurre” Talle coei?

Il docente universitario Julián Corrales Munguía, che dà rifugio in casa sua a Carlos Fonseca Amador ricercato dalla Guardia Nacional, in El lenguaje de los bajos fondos: la germanía, già nel 1972 afferma che la chiave del malespín è quasi del tutto dimenticata, per quanto vi siano alcune persone che la ricordano perfettamente.

Nonostante alcune ricerche, parecchi anni fa, non siamo riusciti a ricostruire come abbia fatto a diffondersi in Nicaragua, dato il tempo assai limitato di permanenza del generale salvadoregno e del suo esercito. Si sa che alcuni dei suoi uomini, sia della truppa sia capi intermedi, non rientrano in El Salvador, disperdendosi nella regione di Las Segovias, territorio che fornisce un ottimo rifugio grazie alla sua topografia e alla vicinanza con l’Honduras, trasformandosi in veri e propri assaltatori e saccheggiatori. Evento non sufficiente per diffonderlo in un’area così vasta come l’intero Paese (e arrivare fino al Costa Rica). Secondo alcuni, è l’elevato tasso di analfabetismo dell’epoca a contribuire alla sua diffusione fra le masse popolari. È comunque accertato che, in seguito e specialmente nei primi decenni del Novecento, è l’argot utilizzato dai malavitosi nicaraguensi, los malechores (Regino Carvajal, Jerga del hampa en Nicaragua, 1929; Carlos Mántica, El habla nicaragüense, 1973). Qualcosa di simile al patuà (o patois), gergo un tempo parlato a Milano negli ambienti della ligèra, la malavita, ma anche dai partigiani meneghini durante la lotta antifascista. Pure questo ormai in disuso, tanto che si dice che uno degli ultimi a conoscerlo e a parlarlo fosse l’attore Gino Bramieri.

Se è comune l’uso di termini nati chissà come (tengo que comosellamear el turulo de la burrundanga), tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo millennio, le pandillas giovanili utilizzano un linguaggio che taluni ritengono derivato dal malespín («El inglés y el malespín en el lenguaje pandillero», La Prensa, 5 giugno 2005). In realtà si tratta di tutt’altro, totalmente avulso dal codice del generale salvadoregno, derivando solo parzialmente dal lunfardo argentino. «¡Guindeáte flash que te pedorrean!» significa, più o meno: scappa più in fretta che puoi perché la polizia in moto ti sta inseguendo (Róger Matus Lazo, El lenguaje del pandillero en Nicaragua, 1997). Basterebbe l’inglese «flash» per capire che le due gergalità non hanno nulla in comune, se non sono sufficienti gli altri vocaboli decisamente spagnoli.

Del resto, nel nicaraguense di tutti i giorni, oltre a un buon 40% di parole derivate dal náhuatl (azteco) e talune dal maya, vi sono parecchi termini inglesi spagnolizzati (fulear, bisnear, tanque, raid), come pure dal quechua (guaca, tesoro nascosto), dal lunfardo (charpa, a sua volta dall’italiano «sciarpa» che gli argentini chiamano echarpe), dal francese (pitipuá, piselli) fino alla imbarcazione denominata panga (dal filippino banka) e via dicendo…

Se uno spagnolo leggesse Cosmapa di José Román Orozco (1944), farebbe davvero fatica a comprendere questo racconto sulla vida campesina. Figurarsi chi non è di madrelingua…

Tornando al nostro giovane poeta, nasce il 27 marzo 1949 nel Valle de Matapalos, nei pressi di Estelí, e viene registrato all’anagrafe con il nome di José Leonel Rugama Rugama. Sempre sorridente, Lainal è solito dire che il suo luogo di nascita è Asbaló, Nocerefue. Nel 1966 abbandona il seminario, forse anche in relazione con il sacrificio del sacerdote colombiano Camilo Torres Restrepo, e manifesta in varie occasioni la volontà di recarsi sull’isola di Solentiname, nella appena costituita comunità evangelica di Ernesto Cardenal Martínez. Nello stesso periodo riesce a pubblicare alcuni dei suoi primi versi, caratterizzati da una forte impronta anti-somozista, sulle colonne di La Prensa Literaria diretta da PAC, Pablo Antonio Cuadra. Persino l’inserto domenicale del quotidiano del dittatore Novedades Cultural, all’epoca diretto dal poeta Roberto Cuadra López (dal 1965 al 1969), il 24 dicembre 1967 pubblica cinque brevi poesie, meno impegnate politicamente. In una delle più note scrive: «Beati i poveri perché loro sarà la luna» (La Tierra es un satélite de la Luna). Nel frattempo, a León, partecipa alle lotte studentesche alla fine degli anni Sessanta con lo pseudonimo «Francisco». «Leonel poneva la domanda sull’essere uomo, ma non nel senso di macho, bensì dell’uomo che acquisisce una responsabilità storica, un impegno verso gli altri, che dà tutto sé stesso per la felicità degli altri» (Omar Cabezas, La montaña es algo más que una inmensa estepa verde, 1982). All’inizio del 1969 scrive a PAC, il quale “frequenta” suo malgrado le carceri somoziste sia nel 1937 sia nel 1956: «ho assunto una seria responsabilità, poiché, a mio avviso, credo che così debba essere, ogni uomo ha il dovere di confermare con i fatti ogni parola che usa». In un’altra occasione gli confida di essere un militante sandinista.

Appassionato degli scacchi e dei giochi di parole come «corruttore di bozze» o «lenti a contatto sessuale» (altri sono intraducibili per le diversità linguistiche), legge tutto ciò che gli capita fra le mani, da Sartre a Camus, da Hugo a Papini a Dante… con una lista di quasi duecento libri letti già nel 1967. Fra quelli tuttora conservati, uno è del canadese nato a Budapest John Kosa (1914-1973) intitolato El hombre soviético (1964), nel quale sottolinea frasi come: «El deseo natural de expresarse libremente, proprio del hombre, ha sido sofocado», [i dirigenti] «Disfrutan de todos aquellos lujos de la vida que están fuera del alcance de las masas trabajadoras» e [del partito] «nos proporcionan varios cálculos de militantes, y afirman que de un 5 a un 33 por ciento de los miembros eran fieles; del 1 al 10 por ciento indiferentes; y el resto oportunistas». Doppia sottolineatura sotto «y el resto oportunistas». Mai avrebbe potuto pensare che tutto ciò si sarebbe replicato in Nicaragua con l’orteguismo, nel terzo millennio.

Il 10 ottobre 1967 legge su La Prensa: «Creen que el Che pereció en combate» e il giorno successivo: «Confirmado: el Che ha muerto». Leonel, a questo punto, «cometió el atroz delito de agarrar la vida en serio»: rinunciando alla tonaca (che comunque indossa raramente), a soli diciotto anni, entra in contatto con il Frente Sandinista, trasformandosi da seminarista in guerrigliero e partecipando attivamente alla runga (parola di origine cubana). Portando con sé, sempre e dovunque, la sua calibro 45 e la Bibbia, che forse chiama Tottoe. Un giorno Ricardo Morales Avilés, prima di essere arrestato alla fine del 1968 «por delitos de terrorismo y por atentar contra la Constitución política del Estado», dice alla sua compagna Doris Tijerino Haslam che, nonostante la sua forte miopia, Leonel ha una ottima mira. Non solo utilizza il malespín in alcune poesie, ma lo introduce fra i combattenti anti-somozisti per le comunicazioni. Guerrigliero urbano prima a León poi a Managua, definisce catacumbas la situazione di clandestinità nella quale opera, paragonandola a quella dei primi cristiani perseguitati dall’Impero romano. Ahora vamos a vivir como los santos.

Mentre in tutto il mondo le giovani generazioni si ribellano contro il sistema economico-politico imperante e contro la guerra nel Vietnam, dalla romana Valle Giulia ai boulevards parigini alla università californiana di Berkley, nel settembre del 1968 scrive il saggio El estudiante y la Revolución, nel quale afferma che «Terminata la prima fase [la lotta armata], il terreno è pronto per il mutamento. Nella fase di costruzione è però necessario sconfiggere due forze che cercano di ostacolare l’avanzata della rivoluzione. La prima è costituita dai costruttori di ciò che è stato distrutto, personaggi che soddisfacevano solo i loro bisogni e lussi personali. La seconda è costituita dagli opportunisti che, vedendo il terreno preparato, cercano di usurparlo per raggiungere il loro benessere».

Si veste di solito con una camicia bianca e i jeans, che i nicaraguensi chiamano azulones (i colori della bandiera nazionale, che dal 2018 non si può sventolare se non rischiando l’arresto), calzando scarpe da tennis. Oltre che nelle librerie della capitale, lo si vede spesso nella redazione di La Prensa o al Café de Indias o alla gelateria Eskimo. Passando da una casa de seguridad all’altra, fra le poche che all’epoca ha l’ancora non molto organizzato Frente Sandinista, o nelle abitazioni di amici universitari come Rogelio Ramírez Mercado (fratello del romanziere Sergio). Sotto l’ascella, ripiegato, ha sempre un giornale. All’interno è nascosto il revolver.

La Oficina de Seguridad Nacional (OSN) della Guardia, in seguito a una spiata, individua un gruppo guerrigliero. Quel pomeriggio, tre ragazzi poco più che adolescenti stanno probabilmente pianificando una azione e non si rendono conto di ciò che accade all’esterno. Proprio nelle ore della siesta, verso le due e un quarto arriva un paio di veicoli militari che si fermano a una certa distanza dalla casa dipinta in celeste. Una signora ormai vedova che ha il figlio Santos (Medina) in carcere per motivi politici, Zoila Esperanza Rodríguez, con un grido li avverte che sono circondati. Dall’interno parte un colpo che uccide l’agente della sicurezza Luis Navarrete, mentre i militari arrestano la donna e i suoi figli, María, Félix, Efrén e Níger di appena tre mesi. Fin dalle tre pomeridiane di quel 15 gennaio 1970, asserragliato in una casa de seguridad del barrio El Edén assieme a due ragazzi più giovani di lui, Róger Núñez Dávila (18 anni) e Mauricio Hernández Baldizón (19 anni), Leonel intona Salve a tí Nicaragua, l’inno nazionale, e combatte per un paio di ore. Se potesse, di certo sventolerebbe pure la bandiera nazionale. A volte grida «¡Viva Julio Buitrago!», l’organizzatore della resistenza urbana caduto combattendo il 15 luglio 1969 nel barrio di Managua popolarmente noto come Las Delicias del Volga, per via di una famosa birreria della zona (in realtà barrio Frixione, oggi Julio Buitrago).

Esattamente sei mesi dopo, in un altro barrio della capitale con una denominazione altrettanto pittoresca, «Folle di persone assistevano all’evento nelle strade di Managua dove stava avvenendo la tragedia. Costoro vedevano le guardie di Somoza sparare contro una comune costruzione di un solo piano, ma nessuno di loro sapeva chi c’era all’interno. Sentivano il ruggito di centinaia di armi, fucili, mitragliatrici, granate, persino il cannone di un carro armato e un piccolo aereo che perforava la casa dall’alto con rapidi passaggi. Guardavano, attoniti, mentre la casa veniva demolita dai colpi» (Teófilo Cabestrero, El delito de tomar la vida en serio, 1989).

Avvertito di ciò che sta accadendo nel quartiere limitrofo, il parroco della chiesa «La Merced» del barrio Larreynaga, Francisco Mejía Mejía, con la sua Fiat rossiccia si reca sul luogo dello scontro armato, implorando la Guardia di rispettare cristianamente le vite dei guerriglieri. Non sa chi siano i ragazzi dentro la casa, ma è un buon amico di Leonel, con il quale frequenta il seminario, e in seguito racconta: «Mi ricordo che durante le vacanze fra il terzo e il quarto anno si accorse che stavo scrivendo cambiando alcune lettere delle parole. Gli piacque un sacco e vi si appassionò. Lo chiamavamo “malespín”. Lo imparavamo a scuola, fra studenti, da uno all’altro: era come un gioco».

Però, il gioco studentesco è ormai terminato. Probabilmente perché non indossa la tonaca, questo giovane sacerdote legato alla neonata Teologia della liberazione e in contatto con Uriel Molina Oliú, il parroco del poco distante barrio Riguero, è immediatamente arrestato. Condotto al carcere El Hormiguero situato nella allora denominata Avenida Roosevelt, è rinchiuso nella cella estremamente angusta nota come «La Chiquita» e torturato nelle ore notturne fra il 15 e il 16 gennaio. Non sa chi ci sia all’interno della casa ed è la prima volta che un sacerdote si interpone fra la Guardia e i guerriglieri, tanto che monsignor Carlos Borge Castrillo e monsignor Donaldo Chávez Núñez, in modo alquanto sibillino, disapprovando che fosse in borghese, giustificano il trattamento riservato al giovane prete (altri prelati, fra i quali Miguel Obando y Bravo, all’epoca vescovo ausiliare di Matagalpa, sostengono invece la sua iniziativa). Il 17 gennaio La Prensa scrive: «Una persona que salió libre dijo que el Padre Mejía había sido maltratado físicamente y que en horas de la madrugada se le llevó al hospital para curarle las heridas».

Il giorno precedente, venerdì 16 gennaio, il quotidiano del dittatore Novedades titola in prima pagina: «Extremistas no quisieron entregarse». Versione ufficiale, corredata con le foto dei tre ragazzi massacrati dalle pallottole. Altri due titoli completano l’edizione del portavoce somozista che va a ruba: «Eliminada otra célula sandinista» e, spudoratamente, «GN trató de evitar derramamiento de sangre». Nessun articolo dice che, terminato l’impari combattimento, nella casa de seguridad la Guardia sequestra più libri che armi. Compresa la Bibbia di Leonel.

Per il giornale della dittatura, popolarmente denominato «No verdades», il giorno seguente esistono solo il cadavere del guardia Navarrete e il suo funerale: «Dolor del pueblo nicaragüense»… «Tranquilidad y paz cristiana, contra el comunismo que siembra el terror»… Il precedente 4 novembre 1967, sempre agli ordini di Alesio Gutiérrez, questo soggetto poco raccomandabile collabora alla cattura e all’uccisione di quattro guerriglieri, fra i quali Casimiro Sotelo.

Il 18 gennaio La Prensa riesce a pubblicare solamente una breve informazione: «La famiglia in lutto non ha potuto invitare i propri amici ai funerali di Leonel Rugama, ucciso in combattimento fra elementi estremisti e Guardia Nacional nel pomeriggio di giovedì 15 gennaio, nel settore orientale di Managua. Il cadavere di Rugama fu prelevato dalla capitale e portato subito, alle sette di sera, con la jeep del Capo Politico al cimitero locale di Estelí».

Negli stessi giorni, attraverso i microfoni di Radio Corporación, Carlos Arturo Mejía Godoy, nipote del giovane parroco di Larreynaga, canta Yo no puedo callar: «No puedo pasar indiferente. Ante el dolor de tanta gente yo no puedo callar. Me van a perdonar amigos míos, pero yo tengo ahora un compromiso y tengo que cantar la realidad».

Il barrio El Edén prende il nome dalla grande tenuta agricola di Sofonías Salvatierra Borge, buon amico di Sandino, ministro del Lavoro di Juan Bautista Sacasa e zio di Tomás Borge Martínez. Questa sua proprietà, nella notte del 21 febbraio 1934, è assaltata dalla Guardia Nacional che fucila alcuni collaboratori del Generale degli Uomini Liberi fra i quali il suo fratellastro Sócrates, ospiti di Salvatierra. Al giornalista basco dal cognome impronunciabile Ramón de Belausteguigoitia, poco tempo prima il guerrigliero dice: «tendiamo a fare della vita non un momento passeggero, ma una eternità attraverso le molte sfaccettature del transitorio» (Con Sandino en Nicaragua, 1933). Trentasei anni dopo, tre ragazzi combattono una impari battaglia contro lo stesso esercito mercenario, forse a poca distanza dal luogo di quella esecuzione. Pochi mesi prima, Leonel scrive una lettera alla madre Cándida, doña Candidita: «La morte è nient’altro che la vita».

Nella speranza che possa servire come monito, il dittatore fa trasmettere in diretta televisiva e radiofonica lo scontro a fuoco, nel corso del quale resta ferito pure un soldato semplice. Dalla casa de seguridad color celeste, che tempo prima è una pensione della quale resta ancora l’insegna appena leggibile «Hospedaje Marriot», nei pressi della «Barbería Acapulco» le cui vetrate sono distrutte dalle pallottole, i tre ragazzi sparano da varie finestre e gli oltre trecento militari del battaglione della famigerata BECAT (Brigada Especial Contra Acciones Terroristas), unità militare urbana creata pochi anni prima e ispirata alla statunitense SWAT (Special Weapons and Tactics), sono convinti che si tratti di un gruppo numeroso di guerriglieri. Le telecamere trasmettono l’immagine del generale Samuel Genie Lacayo che con il megafono intima più volte la resa a Leonel, ormai l’unico in vita: «¡Ríndanse, que están cercados!»

Alan Téfel, un cronista di La Prensa, annota minuto per minuto gli avvenimenti. Verso le cinque, dall’interno della casa de seguridad non partono più spari e i militari entrano. Trovano Leonel ferito e incosciente, agonizzante, ma ancora vivo. Il capitano Dimas Alesio Gutiérrez Vega, soprannominato con sarcasmo «Mamá Dolores», gli spara il colpo di grazia, forse pensando alla classica frase di John Wayne davanti al cavallo azzoppato: «I must do». Sia come sia, in pochi anni questo criminale congenito sale nella gerarchia militare fino al grado di colonnello di fanteria e il 1° luglio del 1977 è posto a capo della polizia della capitale, restandovi fino al trionfo della Rivoluzione popolare (Richard Millett, Guardianes de la dinastía, 1979). Pochi mesi dopo la nomina, La Prensa informa: «Un plan elaborado por elementos del FSLN para matar al Comandante de Policía de Managua, Alesio Gutiérrez Vega, fue frustrado por las autoridades militares y tres individuos que tomarían acción en el atentado se encuentran detenidos. […] El atentado terrorista develado por las autoridades, estaba planeado para ser realizado en horas de la mañana del 13 de septiembre, cuando el Coronel Gutiérrez saliera de su casa para su trabajo» (18 settembre 1977).

A una delle ultime intimazioni alla resa, Leonel-Lainal risponde: «¡Qué se rinda tu madre, ‘juelagranmilputa!» Scrivendo nell’aria i suoi ultimi versi. Ci piace considerarli patrimonio morale dell’umanità, senza copyright di un singolo o di un gruppo.

NOTA DELLA BOTTEGA

Cfr Nicaragua: in memoria di Leonel Rugama, poeta guerrigliero. Sulla poesia La Tierra es un satélite de la Luna vedi La Luna, Porto Marghera, gli infiniti mondi

Redazione
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