In vita di Barach Hussein Obama

L’articolo che segue è stato scritto nel periodo immediatamente successivo all’investitura del Signor Obama. I rimaneggiamenti successivi non ne hanno alterato l’impianto di fondo. Lo propongo oggi in quanto, nonostante il tempo trascorso, credo sia tutt’ora valido.

In vita di Barach Hussein Obama

C’è qualcosa di assolutamente fantastico, o meglio seducente, nel modo in cui sviluppano e inviluppano gli umori e gli equilibri interni all’umanità. Situazioni esterne spesso trascurabili producono nella coscienza collettiva effetti assolutamente sproporzionati.

Esempio, un evento sportivo, tipo i tre goal ai mondiali di Paolo Rossi, che fanno conoscere l’Italia nel mondo più che la famigerata tripletta “spaghetti-pizza-mandolino”; la tragedia umana uguale alle tante che fino a ieri lasciavano quasi indifferenti e oggi commuovono tutti; o l’elezione di un Presidente in America che muta il preoccupato punto di vista con cui si valutava fino a ieri quel paese.
Già la circostanza che se ne possa parlare in termini di umanità, pur trattandosi di aventi locali e limitati, è di per sé straordinaria. La tecnologia (tra cui primeggia l’Informatica) e l’integrazione economica mondiale hanno creato una situazione senza precedenti e di cui il ’68 è stato il primo segnale: i particolarismi nazionali tendono a attenuarsi in favore di un nuovo universalismo, il primo dopo la fine di quello che ha dominato l’Alto Medio Evo, settecento e passa anni or sono. Questo universalismo conosce molti ostacoli, anche nelle coscienze più sviluppate è ben lontano da costituire lo sfondo prevalente del pensiero; eppure avanza ogni anno, anno dopo anno (il primo a registrarne la presenza è stata proprio la Fantascienza).
Ma dicevo dei cambiamenti radicali prodotti nell’Entità Mondo da eventi locali che un tempo avrebbero pur trovato ampia eco, ma non l’influenza profonda di oggi. Fino a pochi mesi fa, prima della vittoria di Obama alle Primarie e in seguito alle elezioni, a molti l’Impero del Male appariva essere (ammetto anche al sottoscritto), proprio lo Stato che più di tutti si affannava a attribuire il termine (preso pari pari dai romanzi di Fantascienza) a coloro con cui veniva, non sempre metaforicamente, alle mani. Lo stesso Stato che abusava contro i suoi nemici nell’utilizzo del termine “stati canaglia”, insieme a accuse reiterate di violazione dei diritti umani, accuse sparse unilateralmente e a piene mani.
La iterazione quasi dissennata di tali comportamenti aveva indotto la grande maggioranza, (esclusi i politici che indegnamente ci governano) a avvertire come una minaccia le iniziative di politica estera di quello Stato, per altro militarmente di gran lunga il più forte e pertanto il più pericoloso del Mondo. Un vero incubo.
Ma ecco nel panorama planetario, ricco di figure grigie e spesso disgustose, apparire un cavaliere dalla felice figura, alto, di bell’aspetto, con un grande eloquio, nero per giunta (faccio provocatoriamente mia la sottolineatura di “nero”: il fatto che questa categoria continui a essere usata, anzi evidenziata, è testimonianza diretta del razzismo di fondo tutt’ora pervicacemente aggrappato alle nostre coscienze: chi mai si sognerebbe di precisare che Tizio è bianco, salvo che per alludere ai suoi trascorsi – e presenti di “nuovo conio” – democristiani?); capace di sfoggiare grande eleganza pur vestendo abiti “popolari” e anche parecchio usati, il quale cavaliere (un po’ meno falso di quelli di casa nostra), partendo da una condizione di semianonimità riesce in breve tempo a scalare le vette del Potere e, soprattutto, aprirsi una breccia nei cuori delle moltitudini, americane e non.
La storia di quest’uomo, che irrompe sulla scena della Storia quale comparsa e diventa rapidamente protagonista, ha qualcosa di favoloso. Di più: è l’esatta condensazione di un personaggio da romanzo fantascientifico, del miracoloso breve di cui si pregiano, a volte semplificando eccessivamente, gli autori di Fantascienza. Egli combina perfettamente il mito americano del self-made-man al carisma di tanti seminatori di speranze. Obama è uomo, fatto della medesima materia e con i medesimi limiti di tutti gli altri uomini. È vero, autentico, materiale. Lo possiamo toccare, guardare, studiare i gesti, udire la voce… nello stesso tempo è quasi un’astrazione narrativa, sostanza di vita allargata, può essere assunto così com’è e trasportato sulla pagina, senza che questo comporti alcuna difficoltà o diminuzione. Lo scrittore ordinario o quello di Fantascienza che se ne occupassero non avrebbero altra attività da svolgere che la solita da giornalista, cioè l’essere riflettore della realtà, piuttosto che creatore. Nel breve della sua avventura quest’uomo (di là sicuramente dai suoi stessi meriti, essendo stato probabilmente la leva con cui il mondo ha sollevato se stesso) è riuscito a realizzare il rovesciamento radicale degli stati di coscienza globali. Da una situazione di depressione e pessimismo nero, si è passati a una di grandi attese, grandi speranze.
Da una spaventosa visione di uno Stato che incombeva sul pianeta con la sua volontà di dominio e le conseguenti “iniziative unilaterali”, a una in cui l’ormai dimenticato principio di ricorrere alla guerra come ultima gravissima ratio si confida torni in auge; dal sospetto che venissero alimentate artatamente le frustrazioni che costituiscono il terreno di cultura per il terrorismo per giustificare le molteplici nefandezze commesse in nome del terrorismo, alla speranza che si allenti la pressione sui popoli, da cui anche un indebolimento oggettivo della causa del terrorismo; dal timore di precipitare in una crisi economica senza precedenti, a una fase, forse idilliaca, in cui si confida addirittura di poter essere salvati proprio dal paese che quella crisi ha generato. E poi maggiore giustizia nelle relazioni internazionali, un qualcosa che favorisca, una volta tanto, i ceti meno abbienti, l’indicazione di un percorso di speranza invece che di paura ecc. ecc. Non moltissimo, rispetto ai bisogni del momento, ma senz’altro troppo rispetto alle possibilità e la responsabilità dell’iniziativa di un solo uomo, del quale neppure si sa bene se queste posizioni siano effettivamente sue e quanto lo siano. Le parole di un politico di professione, anche il più sincero di questo mondo, corrispondono alla verità nella stessa misura in cui l’immagine in uno specchio deformante corrisponde alla figura che riflette. Diciamo allora che queste parole hanno fatto intendere che comunque verrà intrapreso un minimo sufficiente, quanto dovrebbe bastare per toglierci dai guai immediati; e quanto sicuramente basta a attivare le speranze di centinaia di milioni di esseri umani, oppressi dallo stato di cose esistente e che ora nel buio fitto di prospettive intravedono almeno una luce.
Obama ha parlato e alle sue parole hanno fatto eco fiumi di richieste, di speranze, d’entusiasmo.
Troppe richieste, troppe speranze, troppo entusiasmo. Troppe per un uomo solo, per quanto grande il suo potere. Si è visto subito, sin dalle prime battute, l’impossibilità di corrispondere in misura adeguata alle aperture di credito ottenute: adeguata ai bisogni del mondo, travagliato da intrecci di contraddizioni dal quale è difficilissimo districarsi. Obama ha dovuto, per evitare una disfatta, modificare le proprie posizioni sulla riforma sanitaria, piegarsi alla volontà dei reazionari sulle detassazione dei super ricchi, segnare il passo sul controllo dell’attività finanziaria e sulla lotta alla disoccupazione. Abbastanza per suscitare malcontento e sfiducia, non abbastanza per concludere che la partita è persa, e porre la parola fine. Per un motivo molto semplice, del quale ognuno che voglia può rendersi conto. Il mondo, trasportato da Bush nel selvaggio west dell’Ottocento, utilizzando la macchina del tempo dei repubblicani che viaggia di preferenza in una sola direzione (verso il passato), si è ritrovato di nuovo nell’anno duemila. Questa impresa rappresenta la linea Maginot dietro cui difendere tutte le residue speranze.
Se fallirà non sarà comunque a causa di questa inaggirabile linea Maginot. Più facile sia quale conseguenza del modalità medesime del successo di Obama (le troppe aspettative che il troppo bisogno ha scaricato sulle sue spalle). Nonostante infatti la sopraggiunta delusione, le illusioni sugli spazi di riformabilità del sistema capitalistico, alimentate da una “faccia pulita”, senza coltelli tra i denti e grugniti da cavernicolo, continuano a alimentare richieste superiori alle possibilità che un qualsiasi governo, per quanto progressista (e quello di Obama non è che lo sia tanto) ha di soddisfare. Chiunque non sia prigioniero delle chimere sulla elasticità del sistema, conosce (le conosce perché le vede) le difficoltà che incontra chiunque marci in direzione dei limiti di riformabilità ammessi dal capitale (avvicinarvisi, solo avvicinarvisi, stante l’attuale stallo dell’opposizione operaia, poi è pura utopia). Gli entusiasmi iniziali, sufficienti a condurlo, contro ogni previsione, dove ambiva andare, si sono tradotti inevitabilmente dunque, e continueranno a tradursi, proprio in ragione di questo, nel loro esatto opposto. Cioè, nel disastro politico sociale. Il massimo che da lui si può ottenere è di tenere a bada i guerrafondai e porre freni ai baccanali della finanza.
Chiedergli, ad esempio, di andare oltre aiutando seriamente il lavoro, significherebbe spingerlo verso obiettivi irraggiungibili, cioè verso il fallimento (a meno che non sia il lavoro stesso a decidere di darci un taglio e prendere alle proprie mani il compito della salvezza). Porre vincoli alla libertà di manovra di un politico borghese equivale a ucciderlo. Qualsiasi accorto operatore della politica sa che il proprio merito principale, quello che lo rende prezioso agli occhi del vero mandante la gran commedia delle “libere elezioni” (il capitale) è appunto la capacità di destreggiarsi tra molteplici spinte, diversi punti di vista e interessi pressoché sempre occulti (organicamente contrari a quelli della gran massa della popolazione) della finanza occulta. Il politico, per conto del capitale, ha bisogno cioè, di là dalle dichiarazioni di principio sull’onorare la volontà del popolo, di una grande spazio di manovra. Questo è il motivo della genericità dei programmi politici e la universale scelta della “libertà” di mandato. Nessun uomo delle istituzioni, in qualsiasi società di classe, è in grado di mantenere quel che promette (quando promette bene). Solo i più energici e onesti riescono a attuare questo o quell’aspetto (non) significativo del programma. Salvo si tratti di provvedimenti imposti dall’iniziativa delle masse, quando l’iniziativa si fa impetuosa. Oppure di provvedimenti atti a salvare l’esistente, nel qual caso, nonostante la feroce opposizione degli interessi costituiti, si può arrivare a introdurre modifiche significative nella realtà (il New Deal, ad esempio. O ancora: la legislazione sociale dell’ultra reazionario Bismarck, del quale si può dire tutto il male possibile, non che fosse inabile al ruolo di salvatore del dominio di classe che gli era stato assegnato). Troppe forze, forze formidabili, vere gli si oppongono. Troppi i condizionamenti. C’è chi lo sa e si regola di conseguenza, sopravvivendo anche a se stesso, alla propria dignità. Chi non lo sa, si illude, o lo sa male, e viene “regolato” dalle forze reali. Travolto, inevitabilmente.
Potrei sbagliare ma Obama è da catalogare tra coloro che, rari specialissimi casi, pur conoscendo i limiti della propria azione, non disperano di poterla condurre in porto. Per ottimismo d’elezione, o perché convinti che la coerenza paga. O anche perché capaci di rischiare, di scommettere sulla propria capacità di mantenere, almeno in parte (ma è sempre in parte – in piccola parte – che in politica le promesse possono essere mantenute: mai in gran parte), quel che avevano promesso. Obama ritengo sappia. È la prudenza con cui ha condotto la campagna elettorale, non sbilanciandosi mai più del minimo necessario e opportuno, che me lo fa ritenere. Prudente ancora nel presente, ma non rassegnato del tutto a cedere le armi. Anche se temo dovrà cederle.
Non si tratta solo di ciò che è chiamato a fare, di ciò che ha promesso; e che appunto risulta troppo per poter essere affrontato dalla buona volontà di un uomo solo. C’è anche da prendere in considerazione le forze (le forze reali, non quelle politiche) che remano contro, le stesse che hanno sospinto il suo predecessore in una certa direzione (forze che Bush è stato felice di assecondare). Queste forze non sono state né vinte, né neutralizzate (non con una elezione vittoriosa, né con cento che è possibile battere la poderosa forza dell’avidità e del danaro). Contro queste forze (alias i Padroni del Petrolio, il complesso industriale militare tutto, i ritardi ideologici delle masse, particolarmente forti negli USA, gli apparati di partito, che in tutte le situazioni in cui alla gestione dell’esistente occorre introdurre la trasformazione dell’esistente, costituiscono un elemento negativo; e soprattutto i responsabili dell’attuale crisi – i potentissimi istituti finanziari – che esigono di essere remunerati per averla provocata), sarà difficile combattere e vincere. Per il neo Presidente la situazione si prospetta dunque impossibile più che difficile.
Un risultato però è già riuscito a ottenerlo. A zittire i corvi di casa nostra sbigottiti dal cambiamento in atto. Sbigottiti sia perché rimangono orfani di un punto decisivo d’appoggio per loro liberismo rozzo e sfrenato, tutto teso a imporre sacrifici alla povera gente; ma soprattutto perché viene sottratto loro l’unico (debolissimo) argomento con cui solevano replicare alle critiche che all’America venivano rivolte (sentendole come critiche rivolte a se stessi). L’argomento (un non argomento, per non entrare nel merito delle questioni poste): possibile che l’America sbagli sempre? E i massimi suoi rappresentanti appaiono costantemente poco affidabili? È impossibile. Ergo, parlate per partito preso, siete solo degli sporchi Antiamericani (che strana categoria! Assurda quanto inesistente! Il substrato culturale dominante, anche in coloro che con maggiore virulenza la criticano, è proprio la cultura “democratica” americana: sono i valori derivati da essa o con essa condivisi che promuovono queste critiche). Ebbene, questi ineffabili signori sono serviti. Ecco un Dirigente d’Oltreoceano che non è inviso ai loro avversari politici; e che promette una politica che è quanto di meglio la politica mondiale possa offrire.
Si spiega allora il discreto silenzio (loro, tanto chiassosi, aggressivi e indiscreti) di questa sorta di neoGuelfi appassionati di un Papa Laico, un Re-Papa, sulle stato delle cose Americane. Si spiega con la doppia frustrazione di cui sopra; e con la tacita aspettativa che anche Obama possa deludere, per iniziare a tessere il filo del loro perenne interessato Americanismo d’accatto, acritico e ipocrita, e intensificare la loro sorda noncuranza agli argomenti e al concreto delle situazioni concrete.
Tolto questo sassolino dalla scarpa, del quale chiedo venia al lettore, torno al fenomeno Statunitense. Al suo programma, moderato fin che si vuole, ma rivoluzionario rispetto all’indirizzo che i neoconservatori avevano impresso alla politica mondiale. Un programma in cui sono fin troppo opere rispetto alle risorse disponibili. Esso prevede interventi su tutte le questioni che negli ultimi decenni, in particolare nell’ultimo, sono state trascurate o affrontate negativamente. Accelerazione nel settore delle energie rinnovabili, ricorso massiccio alla ricerca, allo studio, alla intelligenza e alle nuove tecnologie, (elementi questi che non dispiaceranno al frequentatore abituale della Fantascienza); e poi ancora la Sanità Pubblica, gli aiuti al lavoro ecc. ecc.
La risposta che offro al mio stesso interrogativo è, allora, che è impossibile prevedere gli esiti della vicenda e perciò stesso il grado di successo che il Signor Barach potrà avere. A parte le difficoltà evidenti, quelle che le forze avverse opporranno, altri ostacoli, ostacoli non conosciuti, si frappongono sul suo cammino. Nessuno è infatti in grado di prevedere quanti altri disastri finanziari si preparano, quanti altri titoli fasulli i magliari della Grande Finanza abbiano messo in circolazione. Si sa solo che le risorse economiche che essi chiedono per non mandare in malora definitivamente l’economia sono immense; che pur ricevendo soldi dallo stato sono restii a ridistribuirli prestandoli a coloro che ne hanno bisogno, per le attività economiche di cui tutti abbiamo bisogno. Non si conoscono pertanto le dimensioni degli interventi che il nuovo Presidente, nel prossimo futuro, è chiamato a configurare. E il numero di colpi di frusta che dovrò dare a chi li merita (neppure si riesce a capire se potrà e vorrà darli; e nel caso che inizi seriamente, quanto tempo occorrerà prima che gli stessi decidano di eliminarlo).
Unico elemento certo, per il quale merita l’indulgenza con cui lo considero, è che è già riuscito a fare molto pur senza aver fatto ancora nulla. Prima di iniziare dunque ha già creato l’ambiente giusto dentro il quale potersi muovere. Lui, ma anche altri dopo di lui. Dovesse fallire, cosa che non gli auguro (il giudizio positivo su di lui è l’unico elemento che mi accomuna all’infausto Segretario del PD), solo per questo lascerebbe un segno nella storia. In una sfera abitata da soli mascalzoni avrebbe introdotto il concetto di pulizia morale e di apertura a ciò che è degno e buono. In un ambito dominato dal ricatto e dalla paura introdotto l’uso della ragione e della costruttività. Dentro quell’ambiente ha portato l’eco, anche se lontana, della parola di coloro “che tirano la carretta” e in genere parola non hanno.
La parola adatta, per altro, a por termine all’incubo che ottenebra la nostra facoltà di raziocinare e farci scorgere la luce incipiente di un mattino nuovo.
Mauro Antonio Miglieruolo

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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