Infibulazione: i princìpi non si negoziano

di Barbara Romagnoli
Fuggire da facili semplificazioni e cercare di restituire la complessità di un tema che dovrebbe avere maggiore attenzione. Questo è sicuramente un merito dell’ultimo libro di Carla Pasquinelli dal titolo Infibulazione. Il corpo violato (Meltemi, pag. 240, euro 19). Delle mutilazioni genitali femminili (Mgf) c’è un gran parlare a sbalzi, quando c’è qualche fatto di cronaca che provoca il solito vespaio, ma, nonostante la sensibilizzazione maggiore degli ultimi decenni, resta una questione su cui spesso l’opinione pubblica cade in preda a facili estremismi, e su cui poi, passata la tempesta, ricade il silenzio.
Con la conseguenza che le donne coinvolte, anche quando si tratta di migranti in altri Paesi, sono lasciate spesso in situazioni senza scelta. Oppure, il loro presunto assenso è solo lo specchio di una cultura dove l’ultima parola, anche sul loro corpo, resta materia di uomini.
Pasquinelli, antropologa all’Orientale di Napoli e da anni impegnata su queste tematiche, ha scelto di riparlare di Mgf partendo dalla accesa polemica che investì il caso del medico somalo dell’ospedale fiorentino di Carreggi. Omar Abdulkadir nel gennaio 2004 propose di sostituire l’infibulazione con il cosiddetto rito alternativo (sunna), ossia una piccola puntura di spillo sulla clitoride delle bambine. Nel primo capitolo ricostruisce l’accaduto e senza mezzi termini parla di trappola mediatica, nella quale sarebbero cadute le stesse somale che erano contrarie alla soluzione proposta da Abdulkadir e che invece avrebbe aumentato il protagonismo delle italiane, femministe e politiche. Niente di più probabile, ma c’è da chiedersi se non sia preferibile uno strillo anche un po’ più forte di donne native e migranti al gracchiare di uomini, giornalisti e non, che pensarono allora, come oggi, di poter dettare la linea. Pasquinelli, che giustamente ricorda l’importanza di usare i termini appropriati e di non alimentare false credenze che vorrebbero l’infibulazione come una prescrizione islamica, nella sua rilettura dei fatti ritiene che la sinistra abbia lasciato l’iniziativa legislativa in mano alla destra ed è convinta che chi fosse contrario alla “riduzione del danno” abbia attuato un «disinvestimento dai corpi per puntare tutto sul simbolico, che è stata la vera cabina di regia del dibattito, dove sin dall’inizio è prevalso il massimalismo amorale dei principi: “il corpo delle bambine non si tocca”, piuttosto lo lasciamo massacrare». Per avvalorare le sue tesi, Pasquinelli riporta nelle due appendici, sia i comunicati etici (quello della Commissione nazionale di bioetica e quello della Commissione della Regione Toscana) sia una dettagliata rassegna stampa (peccato però che questa raccolga quasi esclusivamente gli articoli usciti sulla stampa mainstream e non citi, per esempio, il dossier uscito sulla rivista Carta). Una documentazione certamente importante per riflettere e ragionare attorno alla vicenda.
Nel secondo e terzo capitolo del libro segue una accurata descrizione di cosa sono le mutilazioni genitali, con le chiare implicazioni di tipo sociale e culturale. L’antropologa riporta anche ampi stralci di una sua ricerca sul campo effettuata nel 1999-2000 per conto dell’Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo) nell’ambito del progetto “Campagna d’informazione contro le mutilazioni dei genitali delle bambine africane”.
Forse nel corso degli ultimi sette anni si può immaginare che siano cambiate un po’ le cose, ma è proprio dalla lettura di questa seconda parte, nello scorrere le parole delle protagoniste, intervistate dall’autrice, che le tante, come chi scrive, convinte di un no “senza se e senza ma” a riti simbolici di sostituzione, non riescono a persuadersi della posizione di Pasquinelli. Perché, senza nulla togliere al contesto perfettamente descritto di terre come la Somalia, dove l’instabilità politica certamente non aiuta, resta che il nodo centrale della questione è, o meglio dovrebbe essere, l’inviolabilità del corpo delle donne, la possibilità per loro di decidere autonomamente e consapevolmente della loro sessualità, eliminando false questioni estetiche o di presunte imperfezioni del genere femminile, che non possono giustificare tali atti. Come disse a suo tempo Rossana Rossanda accettare soluzioni di questo tipo significa mantenere intatto «un universo di oppressi e di oppressori. Di corpi di prima e di seconda categoria. A questo dico di no. Cercare un senso irriducibile dell’umano è difficile, può essere fin tragico, va fatto con un forte sguardo critico su di sé, ma è un punto dell'”occidente” che tengo fermo».
Soprattutto riguardo alla discussione avviata nel 2004, è più importante e urgente ragionare su come native e migranti possano concretamente lavorare assieme, qui e nei loro Paesi, per evitare che altre donne vengano segnate, fisicamente o simbolicamente, nella loro intimità. Riproducendo così modelli e costruzioni culturali che noi nate altrove, abbiamo la possibilità di rifiutare, nonostante tutto.

Pubblicato su Liberazione (www.liberazione.it) 6 giugno 2007

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