INTERVISTA DI NATALE – di Mark Adin

Dalla terrazza si vedono i tetti, e il vento spiffera con cattiveria, aumentando la percezione del freddo-umido padano. La cartolina retroversa, il disvelamento di Matrix con i suoi fumi, le sue sedimentate bruttezze, le spoglie di attività abbandonate, sta tutto dalla parte diametralmente opposta alla città oleografica, al centro della quale si stagliano l’erezione Antonelliana, “pantheon aereo”, e le linee romaniche del duomo, sincopate dallo stesso architetto neoclassico e massone. Lo skyline si disegna con pochi tratti che la fissano in cartolina.

Basta dunque girare sui tacchi, a centottanta gradi, e quello che ci appare è una realtà diversa, modificata ad ogni istante, aggiornata ad ogni battere di ciglia. Come dovevano apparire, nelle prime città che meritarono questo nome nell’era industriale, le periferie urbane? Probabilmente così come ci appare il quartiere di S.Agabio, con un abitante su cinque che non è nato su questo suolo, ma proviene da una quarantina di nazioni diverse. Quale sia la città vera è difficile dirlo.

Proviamo a ragionarne con EmmePì, scrittore ctonio (underground) e rapper privo di consolle (sconsolato).

“Ci sono nato proprio nel mezzo” dice guardando verso la torre dell’orologio “All’angolo delle ore. Abitavo lì, in una casa di ringhiera. Questa città ha visto, nel dopoguerra, l’insediamento successivo di profughi dalmati, a seguire quello dei “Rascòn” scappati dal Polesine a causa dell’alluvione del 1951, poi Bresciani e Bergamaschi delle valli, infine i Terroni: calabresi, campani, siciliani, pugliesi. I miei genitori provenivano da Parigi, che era stata la loro ultima tappa di un viaggio iniziato a S.Daniele del Friuli; vi si erano fermati alla fine degli anni Trenta, poco prima della guerra. Friulani, ovvero Terroni del nord. Una volta, S.Agabio era lì, intendo dire che la città si teneva “in pancia” i nuovi arrivi, in pieno centro storico. Ora non è più così. Ora l’immigrazione multietnica risiede in prevalenza nel vecchio quartiere operaio posto in periferia, e il centro è abitato, per quel poco di residenzialità rimasta, dalla “middle upper class” e dai più noti e importanti blasoni cittadini.

Vidi la prima persona di colore all’inizio dei Settanta, commesso di un farmacista dal cognome altisonante: Agnelli. Si chiamava Ahmed, italianizzato nel savoiardo Amedeo, non ricordo la nazione africana di provenienza. Diceva di essere un ex-militare. Ci vollero gli anni per accorgermi di altri stranieri: un campione coloured di boxe, tesserato presso la scuderia locale, qualche spilungone del basket, una minuscola compagine di giapponesi specializzati nella separazione per genere dei pulcini appena nati, i cosiddetti “sessatori”, una comunità di nomadi polacchi. E questo, per molto tempo, fu tutto.

Poi iniziarono i Vucumprà maghrebini: accendini bic e cianfrusaglie. E le file dei migranti via via si ingrossarono: nel piccolo commercio, nell’edilizia, in agricoltura. Oggi sono circa il dieci per cento degli abitanti di Novara, in parte già di seconda generazione. Complessivamente, il computo dei cittadini rimane sorprendentemente stazionario come saldo, da anni e anni: circa centomila persone. Nonostante i goffi e soprattutto vani tentativi di resistere alla venuta dei migranti, i cinesi, i sikh, i pakistani e i peruviani, i rumeni e gli albanesi, gli algerini i filippini e i Ghanesi mandano i loro figli a scuola insieme ai nostri. E’ l’iniezione che fortifica la razza, intendo la “razza umana”, l’unica esistente anche per Albert Einstein. Però a quell’altra città, quella da cartolina, rode.”

Conosco EmmePì da una vita, si può dire siamo cresciuti insieme, e so che ama la sua città, si vede da come la guarda, dall’alto della terrazza, sembra che la accarezzi con lo sguardo fatto di delicatezza e di rabbia. Parliamo della rabbia?

“Sono molto incazzato con Novara.”

EmmePì parla lentamente, con la sua voce profonda mixata a insolenti urla di motorini e  sferragliamenti di treni e rotaie. Parla dopo una lunga pausa, gli occhi tenuti a terra

“Sono incazzato con questa parte sempre meno vera.”

Alza gli occhi e con un ampio gesto mi indica lo skyline, l’immagine della Cupola, la cartolina.

“Ce l’ho con la città senza memoria, che non concede nulla, che è attenta al centro ma dimentica le periferie. Ce l’ho con la solidarietà dimenticata, con gli happy hour e i Suv sui marciapiedi, con l’arroganza dei partiti, persino con me, con quella parte di me che mi trattiene qui. No, non sputo nel piatto dove mangio, dal momento che mangio solo grazie al mio lavoro e non metto il muso nella greppia. E’ solo un po’ dell’effetto Kriptonyte.”

Ride…  

“Semplicemente vorrei che il Terrone il quale, faticando, si è comprato la casetta al prezzo di grandi sacrifici, non chiamasse Negro di merda il bengalese o il Senegalese. Vorrei che il Furlàn conoscesse il Pashtùn.”

Tossisce, guizzando occhiate affilate.

“Cominciamo pure dalle piccole cose. Questa è la città che ha accolto i miei genitori, che ha accolto gli amici istriani come quelli napoletani, che ha fatto i conti con l’inevitabile piccola delinquenza nata attorno alle case di ringhiera prima e popolari dopo, con la disoccupazione e la necessità di sopravvivere, con il dolore e la disperazione di cui ci siamo già dimenticati. Che ha portato voti, rastrellati da chi ha amministrato la cosa pubblica solo per costruirsi carriere e opportunità. Voglio credere che la città che ho conosciuto ci sia ancora e si proclami aperta, pur in un momento di fatica generalizzato.”

EmmePì  sorride ancora, nascosto dai baffi, e mi guarda negli occhi:

“Vedi, Mark, nelle giornate piuttosto rare di sole e buona visibilità, da questa terrazza si vede tutto ciò che serve a capire un tratto di Padania. L’arco delle Alpi con il Monte Rosa, là in fondo il Monviso, dalla parte opposta il Resegone. Si può distinguere la centrale atomica abbandonata di Trino Vercellese, si intuisce Malpensa, vedi le zone industriali fumanti nuvole di veleno, le risaie. La Cupola di S.Gaudenzio e un buon numero di chiese e campanili, un moncone di torre duecentesca, qualche palazzo del Ventennio, tante banche. Ma è qui…”

Gira su sé stesso e indica il panorama opposto:

“…che bisogna guardare per immaginare come sarà domani la mia città, dove i curdi si mescolano agli algerini e ai pakistani, ai figli dei Veneti di Porto Tolle e delle mondariso di Brescello e di Suzzara, ai portatori di cognomi calabresi. Proprio questi, i Calabresi di Limbadi, sono talmente numerosi da aver voluto il festeggiamento del loro San Pantaleone, la cui statua fu portata in elicottero dal paese fin su, a Novara. Che c’è di differente con il festeggiamento del capodanno cinese? Con la proclamazione del Ramadan?Una comunità chiede uno spazio per la sua devozione, per le sue credenze, per una festa che li faccia sentire comunità. Sino a quando diventerà essa stessa comunità di tutti, e allora si festeggerà insieme. Certo a nessuno è venuto in mente di sputazzare l’effigie del Santo, ma qualcuno si è preso la briga di spandere piscio di porco davanti a un vecchio magazzino trasformato in moschea. Perché insultare? Nessuno volle la chiusura delle numerose pizzerie che aprirono negli anni Sessanta, ma oggi si rende la vita difficile ai venditori di Kebap. Tanto per fare un esempio. E tu dovresti saperlo, Mark Adin, sei tu il “corrispondente dalla Padania”, no?”

Non riconosco più EmmePì, oggi non capisco la sua ironia. Dopo essere entrato nella seconda metà degli anni, non ci crede più, non spera più che possa cambiare qualcosa, sembra una molla arrugginita che non scatta, che si corrode perdendo elasticità.

“Mi aspetto che non cambino le cose, anzi, che  peggiorino con la crisi. E qui non si tratta di essere profeti di sventure. La durezza delle condizioni di vita, senza riferimenti, senza utopia, produce odio tra i più poveri, e cannibalismo, e divisioni fra quelli in bilico tra povertà e miseria, tra chi ha poco e chi niente. E’ la latitanza delle grandi idee di riscatto sociale che impedisce di vedere un futuro possibile. Sono spariti orizzonti. Questo manca, nella insipienza e nell’immobilismo di Istituzioni che potrebbero, a volte vorrebbero anche intervenire, ma non “sanno” farlo. Manifestando una incapacità che è figlia di un grande vuoto ideologico e organizzativo, e dalla conseguente mancanza di coraggio, necessario a immaginare nuove prospettive.”

Ci salutiamo osservando dall’alto della terrazza, ancora una volta, insieme, il quartiere che ha accolto la più recente immigrazione: probabilmente stiamo guardando la città del futuro. Ieri era la Giornata del Migrante e l’impressione, mia e di EmmePì,  è di vedere un cielo gravido di nubi.

Il vostro corrispondente dalla Padania, salutando alla moda di Ruggero Orlando, dalla terrazza.

Mark Adin

In memoria di Joy Dirisu, prostituta nigeriana ventunenne, i cui funerali si svolgono, oggi, a Novara. Joy è stata uccisa, probabilmente da un cliente, e il suo corpo gettato nell’Agogna, il fiume che bagna la città.

Mi ha molto colpito che, a seguito dei fatti che hanno insanguinato Firenze, nei quali due commercianti senegalesi hanno perso la vita, il sindaco Renzi si sia premurato da subito e più volte di dichiarare che l’assassino “veniva da fuori”.

Forse scopriremo che anche chi ha ucciso Joy “veniva da fuori”, e anche il sindaco di Novara, neoeletto nelle file del PD e ammiratore di Renzi, potrebbe darsi si affretti ad emularlo facendo questo tipo di affermazione.

Spero di no, perché certe parole hanno un sapore davvero sinistro, e non devono assolvere nessuno. La comunità dove avvengono simili fatti non può essere considerata, mai, del tutto innocente.  E neppure le sue Istituzioni.

Redazione
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2 commenti

  • Caro EmmePi, (oppure Mark, fai tu), come te sono nato in una casa di ringhiera nel decumano novarese, e quanto racconti l’ho vissuto pari pari. Anche i miei erano immigrati, seppure da paesi del Piemonte. Si viveva in una casa di ringhiera e sullo stesso balcone, in porte adiacenti c’era una famiglia polesana ed una calabra. Sarà forse merito delle medesime condizioni di vita stenta, o della promiscuità forzata di quel tipo di abitazione, il fatto è che sono cresciuto insieme ai loro figli, considerando la loro come la mia casa, e viceversa, le loro famiglie come la mia. Sono stati per me più che parenti, e anche se ora siamo sparsi qua e là, i nostri vecchi sono morti e ci si vede di rado, quando ci si rivede è come ritrovarsi tra fratelli. Bellissime le foto.

  • Gli assassini vengono sempre da fuori, lo dimostra il fatto che le donne italiane in casa sono sempre al sicuro ,che nessuno fa loro del male. La caccia al diverso è lo sport preferito nei tempi di crisi: forti con i deboli e deboli con i forti. Facile eh! Meno male che c’ è ancora il cielo e queste nuvole e questa luce.

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