La civiltà mette radici a Grotteria: l’amore e…

… il padre padrone.

Un racconto di Mauro Antonio Miglieruolo. In coda link per ascoltare la «Suonata a mastro Pietro» (Zampogne del Cilento)

1 La strada

Una statale, declassata recentemente a provinciale, l’attraversa; tagliandola in tre sezioni (o sono conforto?) differenziate e decisive. Crocifisso, Chiesa Madre e San Domenico fino a “u Casteju”. È su un tratto di quella strada, al tempo in cui non era nemmeno asfaltata, che si svolge il piccolo dramma che intendo raccontare.

Disegnata nell’epoca in cui delle macchine neanche si aveva sospetto, saliva ininterrottamente, girando e rigirando dentro il centro abitato, chiusa e stretta in molti punti, fino ad arrivare al sollievo “du Suncursu”, piccolo slargo che segnava in pratica la fine del paese (ancora poche case e i suoi duemilacinquecento anni di storia trovavano la fine geografica). Con uno slargo cominciava (u Santissimu Crucifissu), con uno slargo finiva (supa u suncursu).

La strada continuava, sempre girando e rigirando, tornante dietro tornante, ostinandosi nel voler raggiungere la grande, sinuosa e invitante spianata di Cruciferrata, 1000 metri circa d’altezza. Nel percorso esibiva paesaggi avvincenti, lo spazio lungo di una catena ininterrotta di monti, per trovare infine conforto, abbandonata la macchia mediterranea, nel rigoglio della foresta d’Aspromonte, sotto la protezione di grandi alberi, al fresco anche in piena estate. E continuava ancora, proseguendo per Mongiana, Fabrizia (i Prunari) e Serra San Bruno ed oltre ancora. Era (ed è) un piacere percorrerla. Un dovere al servizio del proprio piacere. Per godere, a ogni fermata, di un tuffo in un passato che non passava, l’aria fresca, la modestia di questo o quel paese, viottoli, tratturi, acqua sorgiva quasi a ogni passo; e le viste mozzafiato e il mormorio degli alberi e il riposo dello spirito. Non c’era spazio per altro, nemmeno la capacità di ringraziare.

2 – Il traffico

D’estate, nel centro abitato, non è che il paese si percorresse volentieri in macchina. Bisognava stare attenti agli orari. Tre volte al giorno (tre volte all’epoca in cui si svolgono i fatti che racconto, fatti miracolosamente non trascesi in misfatti) un pullman gigantesco portava su la gente dal mare, per riportarne giù dell’altra poco dopo. In quel su è giù capitava che il pullman incrociasse qualche altro mezzo, circostanza che in alcuni punti del paese risultava fatale. Specialmente se l’incontro avveniva tra pullman e camion. Due mezzi affiancati era impossibile. Ne risultavano faccia a faccia da “cunfruntata” religiosa che bloccava la circolazione.

Allora era tutto uno sbracciarsi, invitare gli automobilisti a fermarsi subito per cercare scampo nei pochi punti di slargo dove fosse possibile accostare; era tutto un affidarsi all’abilità dei conducenti. I quali, più efficienti e fiduciosi di Gordio, in un modo o nell’altro riuscivano a sbrogliare la matassa. Tra grida di “avanti avanti!” e “torni indietro torni indietro! Là, là vede, un po’ sul marciapide!” Finché il pullman raggiungeva l’ultima curva della Piazzetta e per alcune ore si poteva godere un po’ di pace.

3 – Mastro Pietro

In uno dei punti più stretti aveva casa un eccellentissimo, stimatissimo notissimo onestuomo, appellato universalmente “u guaiarusu” detto anche “tamba”, guallera in napoletano, per via della noia che produceva il suo pessimo carattere (due par de cojoni!); e che noi necessariamente appelleremo con il nome di fantasia “Mastro Pietro”, il cui brano musicale che porta per titolo lo stesso nome, troverete nel link che benignamente (O malignamente? Ascoltate il brano e decidete voi) inseriremo dopo la parola FINE che caratterizza i racconti (anche questo racconto). In una di queste strettoie dunque aveva casa il nostro antieroe, il quale quasi quotidianamente, almeno d’estate, quando il paese si riempiva di coloro che l’avevano abbandonato per andare a cercare fortuna altrove, assisteva ai clamori, ai trilli, all’ispessirsi del traffico, mentre l’aria, solitamente pure e fresca, si saturava di gas di scarico; e insomma alla benevolente umanità che, posta di fronte alla malevole conseguenze dei suoi atti, cercava di sopravvivere come poteva. Dall’alto, l’alto di un primo piano, Mastro Pietro s’affacciava per sprezzare il mondo, constatare l’incapacità di alcuni e stigmatizzare le goffaggini di altri. Ma non solo lui anche la figlia ventenne, meravigliosa figlia, che si faceva volentieri baciare dal sole e, la notte, carezzare dalla luna (lo vedremo).

La casa di Mastro Pietro nelle linee essenziali era uguale a tutte quelle che davano sulla carrozzabile; e parimenti condividevano il privilegio del rumore, del rombo notturno delle rare automobili (di notte, e d’inverno, erano effettivamente rare), del passeggiare perenne che costituiva il primo e ultimo svago che toccasse ai Grotteresi (da alcuni erroneamente definiti Grottarisani); salvo il breve raggrupparsi intorno ai muretti che delimitavano le salite e le discese delle vie laterali, in genere strette e pavimentate a gradoni. Ci si sedeva su quei muretti, le si sparava moderatamente grosse, si alzava la voce, spesso solo in segno di giubilo e si riprendeva l’andare per la via, su e giù interminabilmente. Salvo nel corso delle feste comandate, specialmente quella che dedicata al Santissimu Crucifissu, i primi di settembre, che era tutto un tripudio di messe, processioni, bande deambulanti e spettacolo in piazza la domenica sera. Con annesso “cavajucciu i focu”. Che completava la meravigliosa appendice dei fuochi d’artificio.

Non lo nascondo. Mastro Pietro aveva conquistato una certa agiatezza. Non a caso abitava in una casa comoda e con l’affaccio sulla via principale (ahilui!). Piccioli non gli mancavano. Si può pesino affermare fosse ricco. La sua ricchezza maggiore, quella che gli dava più soddisfazione, più della bella casa, più del fazzoletto di terra a “Castanìa” o quello che aveva in mente di acquistare a “Santa Femìa”, era l’unica figlia femmina di cui il destino l’avesse gratificato. Alla sua nascita, a differenza di molti conterranei, che storcevano la bocca (cavolo, una figlia femmina vuol dire dote, vuol dire sorveglianza continua, pericoli di ogni genere, pretendenti a frotte, attirati dalla bellezza e dalla possibilità, come si dice, di appendere il cappello). E invece lui al settimo cielo. Una figlia bella è tutto quello che si può chiedere alla vita. Specialmente se ha l’orrido difetto di somigliarti (nel carattere, intendo). Cocciuta, prepotente, come il padre, ma anche coraggiosa, allegra, di carattere aperto. Del padre aveva anche la forza d’animo. Nonché il fisico, degno d’una walkiria; mentre il padre era stato pure fabbro e del fabbro conservava l’aspetto. Torace a botte, avambracci come tronchi d’albero, d’altezza credo facesse uno e novanta. Irruente come una fiumara durante la piena.

4 – Il reduce

Avvenne che un giovinotto tornato dalla guerra afflitto da una lieve zoppia ponesse lo sguardo e con lo sguardo l’intenzione (per altro ricambiato) sulla figlia eccellentissima ed eccesiva et debordante dell’eccellentissimo Mastru Petru.

L’amore era subito sbocciato: l’amore come si faceva a quei tempi. Un amore fatto di sguardi, di sorrisi fugaci, di occhi tenuti artatamente bassi e poi sollevati al momento opportuno. Un amore nudo, aleatorio, privato persino del diritto alla parola. Non se ne scambiarono una che fosse una. Un amore, dunque, suggerito dal cuore e praticato a mezzo della speranza.

La ragazza vide nel reduce, ragazzo benvoluto da tutti, intelligente, studioso, uno “che leggeva libri”, la possibilità di affacciarsi su un mondo diverso da quello che conosceva, misterioso mondo che solo i “dottori” praticavano. Mentre il ragazzo, che sapeva meglio della donna come andassero le cose in questo nostro mondo, temette di essere per affacciarsi su un abisso di dolore. Conosceva Mastru Petru, lo rispettava, ma aveva scarsa fiducia nella sua capacità di accettare benevolmente l’intreccio di speranze e aspirazioni che si andava costituendo.

Lo stesso accettò la sfida. Voleva quella ragazza, uno splendore, avrebbe facilmente messo in gioco la vita per averla. La ragazza, da parte sua, si gettò alle spalle ogni considerazione sulla diversa condizione sociale, il sicuro conflitto che sarebbe nato anche in ragione delle idee opposte che separavano il possibile sposo dall’effettivo padre; e deliberò che quello era il suo uomo e niente nessuno aveva diritto di impedirgli di farne il compagno di vita.

Bisogna infine segnalare, fatto sorprendente, che nella vicenda e nei contrasti che ne seguirono, nessuno osò mettere sul piatto della bilancia l’handicap della lieve zoppia per negare alla coppia la possibilità di formarsi (onore ai contendenti). Nemmeno alla madre, alla quale la ragazza si confidò, specificando che nemmeno un Creso in persona, un prode Achille reincarnato, avrebbe avuto il potere di farle cambiare idea. Conoscendo la figlia, la madre le credette. Non commentò. Si limitò a annuire e sospirare. Ma non appena fu sola, la pena nascosta esplose, pianse e si “scippò tutti i capiji”. Il pretendente piaceva anche a lei, avrebbe trattato la figlia, era certa di questo, come non era stata trattate lei. Ma prevedeva tempesta, grida e soluzioni estreme.

Incoraggiato dalla ragazza, che mostrava di gradire le sue attenzioni, il reduce divenne assiduo nella frequentazione delle botteghe, dei bar e degli artigiani che operavano nei dintorni. Diventando a sua volta oggetto della perplessità di molti, che vaticinavano una fine burrascosa della storia. Mastro Pietro era Mastro Pietro. La sapevano tutti. La collettività, preoccupata del fitto passeggiare del ragazzo sotto il balcone da dove volentieri si affacciava la ragazza, si mise in allarme. Trattenne il fiato. I più amici cercando ragioni e argomenti, confabulando tra loro, in qual modo e maniera potessero dissuaderlo dal perseverare in quei pericolosi esercizi d’amore.

Ma di dissuadere il reduce, faticarono a capirlo, perché non volevano capire, a rinunciare alla speranza di scambiare con la luce dei suoi occhi uno sguardo fugace? Non se ne parlava nemmeno! Tanto più che i sguardi tendevano a mutare in sorrisi sempre più aperti, che il poveretto si affrettava a catturare, a infilare nel taschino dal lato del cuore, lasciandolo lì giacere fino alla prossima volta, quando, sperava, un sorriso più aperto fosse intervenuto a sostituirlo.

5 – La malanova (disgrazia)

Il tempo trascorse, tempo d’attesa della sicura malanova che tutti vaticinavano. Il tempo di consumare il giovane di spasimi, d’attese e deliri d’amore, tanto da costringerlo a tentare il passo successivo. Avvicinare il padre, convinto fascista e chiedergli la figlia in sposa. Udito quale fosse la questione per la quale era stata chiesta udienza, Mastro Pietro si fece di fuoco. Quasi gettava fuori di casa il disgraziato. Si frenò non si sa come, lui mangia comunisti, che aveva sempre saputo come trattarli. Ma i tempi erano cambiati. Si poteva odiarli quanto si voleva, persino più di un esattore delle tasse. Il clima culturale non concedeva più le solenni, gloriose libertà di manganellarli. Non lo concedeva più ai privati, quantomeno. Perché lo stato continuava imperterrito.

Si limitò a esplodere in una sorta di fuochi d’artificio di denigrazione e dinieghi.

Comu vi permettiti!? A me figghia? Unu com’a vui, senzarti né parti? Non mi passa mancu pi’ l’anticamera du ceriveju.”

Non gli passò neanche per l’anticamera del cervello di consultare a figghia in merito. La figlia era sua, se la gestiva lui.

A nulla valsero le parole concilianti che il reduce tirò fuori non si sa da quale fondo di saggezza. Tipo:

Sugnu lavoraturi, m’ammazzu i fatica pemmu a mantegnu bona…”

A vostra figghia ‘cì vogghiu beni assai…”

A pigghiu anche senza doti…”

Il che scatenò, ultima frase fatale, il furore scomposto del padre. Che si sentì profondamente offeso nella sua dignità, onorabilità e amore di padre.

Ma chi cazzu stati dicendu!” alzando oltremodo la voce (fuori il passeggiare dei grotteresi trovò un minuto di sosta, minuto che accompagnò un uguale tempo di fiato sospeso). “E’ sugnu omu da non indotari a me figghia! E’ sugno Mastru Petru, capiscistuvu? Mastru Petru! E ora nescitivindi da casa mia. Finché potete farlo con le vostre gambe, fatelo!”

Mentre così piacevolmente intratteneva l’ospite Mastro Pietro mise mano a nu marrugiu, gridando.

Jativindi, o quantu e veru u Signuri che…”

Non completò la frase. La completo io per voi oggi avendovi convocato per rievocare insieme i dolci bei tempi che furono. Questa la frase al completo: Andatevene, o quanto è vero Iddio che oggi io vado in galera e voi al camposanto.

Il reduce andò, masticando disdetta. Il padron di casa furore. In guerra con il mondo, la vita, l’universo intero. Un pezzettino di guerra anche dentro la casa. Mastro Pietro accorgendosi (finalmente) che l’indegno passava e ripassava davanti all’abitazione e la figlia s’affacciava al balcone per mostrarsi, diede ancor più in escandescenze. Ancor più gridò, minacciò e imprecò. Per subito sostituirsi alla figlia negli appostamenti al balcone. Non con l’intenzione di dispensare dolcezze, ma per fulminare con gli occhi il nullafacente, perditempo e figghiu i puttana! minacciadolo con l’espressione. Talché, scoraggiato il pretendente iniziò a diradare e a sollevare gli occhi da lontano, non visto, per avvicinarsi solo se s’accorgeva che era la figlia ad attenderlo. Coadiuvato in queste operazioni da pietosissimi amici. I quali, visto che non riuscivano a dissuaderlo dall’insistere, lo aiutarono nello stile delle antiche guide indiane, incaricate di parare il culo ai cavalleggeri, avvisandolo quando l’ex fabbro si allontanava di casa. Ma lo facevano sempre tenendosi a debita distanza, non si poteva mai sapere, ognuno, se poteva, evitava di compromettersi. Lo facevano lanciando sguardi significativi al giovane per fargli sapere se era il caso di proseguire o meno (siciliani e calabresi sono maestri nel comunicare con gli occhi).

Mastro Pietro verificato che le escandescenze non approdavano a nulla, assunse misure di emergenza. Proibì alla figlia di affacciarsi al balcone, proibizione che la ragazza accolse in silenzio (silenzio funesto. Avesse conosciuto un po’ meglio le donne, almeno altrettanto di quanto conoscesse l’efficacia dei suoi cazzotti, Mastro Pietro avrebbe capito che quel silenzio equivaleva a una dichiarazione di guerra). Rafforzò l’editto con la proibizione di uscire di casa, anche solo per andare a trovare i parenti: o per recarsi alla messa, cosa che gli costò l’appellativo di “scomunicato” da parte della moglie.

L’appellativo provocò un alterco apocalittico, della durata di chi dice quattro, chi dice cinque giorni; al termine del quale il marito fu costretto a dare un passo indietro. La ragazza in chiesa ci sarebbe andata, ma godendo (e soffrendo) della scorta paterna. Il che, secondo Mastro Pietro, avrebbe chiuso ogni spazio a occasioni profane, tipo occhiate furtive e occasionali nel corso della sosta in chiesa (altrimenti buffettoni); e nemmeno parole sussurrate nella vicinanza obbligata della communio (sempre buffettoni, lì, coram populo, offertorio o non offertorio. Gliel’avrebbe cantato lui l’Offertorio!); o spazio in grado di accogliere atti idonei a rinfocolare la indegna loro passione.

6 – Una vera donna

Mastro Pietro non lo sapeva, ma stava predisponendosi a combattere con i mulini a vento. Battaglia alla quale è esposto anche il più eroico degli eroi quando il suo cammino incrocia quello di una donna. D’una vera donna. Figuriamoci le possibili sconfitte, al loro cospetto, di un erculeo semplicione d’ex artigiano arricchito.

Non più di un mese durò il forzato isolamento. L’astuzia degli amanti contrastati, unita alle necessità del padre padrone si esercitare le sue funzioni di dittatore casalingo, ne incrinarono ben presto gli effetti. Vi erano compiti e faccende che, per tradizione, sono nell’obbligo e privilegio di un marito diligente esercitare. Le incombenze esterne alla dimora in primis (le donne meno uscivano di casa meglio era).

Accentratore e cieco, come sono molti che credono avere agio sulla volontà delle donne, due o tre volte la settimana era costretto ad andare per botteghe in cerca del pane (e del companatico) che per altro, nonostante emergenze fittizie e furori d’andropausa veri, continuarono a essere consumati alacremente. L’appetito non era venuto meno a nessuno. Anche alla ragazza negata che, con i suoi buoni ottanta chili di solo muscolo, rotondità e allegria, avrebbe certamente provocato nell’innamorato qualche ripensamento, l’avesse stata vista mangiare. Chiederle di stringere la cinghia, esercizio atletico nel quale aveva una certa competenza, non se ne parlava nemmeno! Non ne avrebbe avuto il cuore. Non sarebbe stato nemmeno prudente. Neanche possibile. Piuttosto si sarebbe messo lui a pane e acqua, pur di permettere a quella bellissima bocca di continuare a masticare con leggiadria e innocenza degna di una Venere appena sorta dalle acque, quelle poderose porzioni di quarti di bue (tali sembravano) che affettava con solerzia continuando a conversare come niente fosse.

Ripensamento che, con immediato negazionismo, sarebbe stato inevitabilmente ripensato a sua volta, ponendo una indebita corrispondenza tra appetito gagliardo e le esuberanze notturne. Se tanto dava tanto avrebbe avuto filo da torcere e soddisfazioni da consumare, il povero reduce.

Insomma, facciamola corta, non si trattava di avidità o appetito straordinario, ma di ottemperanza a usi e costumi. Si fosse messo a dieta normale nessuno (nessuna donna) alle spalle di Mastro Pietro avrebbe potuto pronunciare le fatali parole “è beju” (è bello), una volta che lo stesso si fosse alleggerito di quei quindici venti chili di troppo dei quali per altro si beava. Madre e figlia, pure loro, bisognava si nutrissero convenientemente per conservare l‘aspetto di prosperità, felicità e imponenza che la casata ispirava. Anzi era già motivo di scandalo, tale di indurre qualcuno a pronunciare sommessamente (molto sommessamente) l’appellativo di civetta a carico della rampolla, la quale comunque ci teneva a non andare oltre quei quattro o cinque chili in più (nei punti giusti) che rendono irresistibile la già irresistibile prestanza d’una donna. Ma non c’era pericolo. Il dinamismo della ragazza, il permanente attivismo, la casa tenuta come uno specchio, rendevano invalicabile quel limite. In verità, fanciulla permanente, anche quando seduta pareva stesse correndo, immetteva persino nelle parole una energia tale che, non fosse stato per il tono cordiale, a volte amichevolmente canzonatorio, sarebbe stata considerata temibile.

Non ebbe modo, Mastro Pietro, di starsene rintanato in casa, come voleva, la doppietta a tracolla, facendo idealmente su e giù a guardia del suo tesoro. Tuttavia non potette evitare d’uscire per, oltre che per il pane e il companatico, anche per il vestitino leggero reso necessario a causa dell’avvicinarsi dell’estate; far risuolare le scarpe fin troppo consumate; o recarsi alla vicina Piazzetta quando u bandijaturi (Banditore) annunciava l’arrivo di carne e pesce. C’era poi l’obbligo d’andare alla posta a ritirare la pensione, pagare le bollette, nonché acquistare il giornale del partito, ultimo legame con il buon tempo andato.

Uscite che cercava di rendere imprevedibili, variando orari e giorni.

Ignorava che gli amici del reduce, una combriccola di scioperati suoi pari, avevano organizzato una rete di informatori in grado di avvisare tempestivamente delle improvvise sortite del Cerbero. Zoppicando in modo vistoso, la fretta gli impediva di attenuare la zoppia, il reduce abbandonava allora ogni attività e si recava sotto il balcone della bella. Che ancora sperava potesse diventare la sua bella.

Vi rubo alcuni secondi per descriverla. Sono sicuro che non vi spiacerà. Anche se dovrò comunque rinunciar a darne un quadro completo. Era molto alta, più delle tante altre aitanti femmine del paese. Spalle larghe, camminando spedita e dritta, per nulla appesantita dal seno, adeguato al resto della persona (posso utilizzare la parola prorompente?). Cosce lunghe e cospicue (mooolto cospicue), il sorriso sempre pronto, capace di cordialità e di risposte taglienti, se qualche incauto gliele strappava di bocca. Vita sottile e fianchi poderosi, naturalmente. Che proprio non si capiva cosa avesse potuto farsene uno scricciolo quale era il reduce di una tale maestosa creatura. La quale non sembrava preoccuparsi della sproporzione fisica che includeva ambedue in differenti categorie. Pesi leggeri l’uomo, pesi massimi la donna (e pensare che non aveva nemmeno un filo di grasso in più di quello previsto!). Aveva o non aveva ragione il nostro eroe nel perseverare? Nonostante il pericolo di incorrere in una solenne schiaffiata, o un colpo di lupara proveniente da dietro qualche cespuglio, la sua era una scelta onesta e ragionevole.

La tresca comunque durò quel poco che fu sufficiente a illuderli. Il giorno fatale che il destino decide della felicità o infelicità delle persone; o quantomeno delle burrasche che dovranno attraversare; in quel giorno fatale dunque, una ragazza di belle speranze affacciata al balcone e un reduce incauto, il viso rivolto verso l’alto, in adorazione, che procedeva senza badare a dove mettesse i piedi; precipitarono ambedue nell’abisso d’ira di colui che voleva essere padre, ma padre padrone, non suocero per designazione del caso. Voleva essere lui a scegliere il genero…

Senza badare dunque dove metteva i piedi andò a sbattere contro Mastro Pietro. Che immediatamente si arraggiò e affrontò il ragazzo con le ben cattive intenzioni che si poteva immaginare. La schiaffiata imminente. Probabile. Quasi certa.

Non vi avevo forse detto di stare alla larga da mia figlia?”

Per nulla intimidito il ragazzo rispose.

Perdonate, Mastro Pietro. Sto sulla pubblica via. Non vi è dato proibirmi di percorrerla.”

Mi è dato, come dite voi, di non volere che stiate con il naso per aria a guardare la ragazza!”

Signor mio. La ragazza è bella. Come pensate di poter impedire a coloro che l’ammirano, di guardarla?”

Una risposta indisponente che avrebbe meritato una reazione. E che in altri tempi avrebbe meritato anche una lezione, data là per là. Come è, come non è, Mastru Petru decise di soprassedere. Forse perché aveva scorto un crocchio di amici del reietto che, vista la sproporzione delle forze in campo, era pure possibile decidesse di intervenire.

Entrò in casa con una rraggia tali, stava letteralmente ‘mbunnandu (schiattando), che per qualche secondo intimidì persino la figlia. Mio Dio, una di quelle donne che non hanno paura di nulla, neanche d’affrontare il demonio!

Fuori giunse il succo di tutta quella rraggia. Ululati, imprecazioni, suppellettili che volavano, insulti alla madre (alla figlia no, non osava), minacce: tanto che il povero pretendente, che ormai si considerava poverissimo, valutò persino l’opportunità di una disperata incursione in casa, per prenderle a sua volta. Poteva ormai solo confidare nel buon Dio, che vede e provvede. O la Madonna, sotto il cui manto molti cercano rifugio.

Non occorse arrivare a tanto. A cercare protezione sotto il mantello aleatorio della Madonna. Stava già per decidersi a intervenire quando la porta finestra del balcone si spalancò e la figura esagitata du mastru, fece la sua teatrale apparizione. Per il braccio trascinava la figlia, alquanto reticente, per nulla disposta a assecondarlo. Anzi anche lei a metà per decidersi di dare avvio a una guerra guerreggiata in famiglia. Alle loro spalle la madre, la disperazione dipinta sul viso, le mani giunte, pregando il diavolo ch’era diventato il marito, dato che non poteva avere soccorso dai santi, piagnucolando patetici maritu meu, maritu meu, che la fecero rassomigliare più una pecora che a una donna. Almeno non donna com’era la figlia.

Sempre strattonandola per il braccio il padre punto l’indice (una specie di salsicciotto) in direzione dell’aspirante promesso sposo.

Lo vedi quello?” gargijandu (gridando). “Lo vedi? Te lo devi scordare. Altrimenti ti taglio la testa!”

Mai minaccia fu più utile e disutile nello stesso tempo. La figlia smise di tentare di sottrarsi alla stretta. Docile agnella ebbe un sorriso perfido. Un sorriso che meravigliò e preoccupò il padre. E, bisogna ammetterlo, anche il pretendente che dalla strada assisteva impotente. Forse persino formulò qualche riserva sull’opportunità di accasarsi con una eroina ariostesca di quel livello. Eroina che docilmente, lentamente, poggiò il viso sul corrimano, come fosse il cippo del boia. Accompagnando il gesto con parole che sono rimaste famose:

E vui potiti tagliarmela puru mo (subito). Perché io solo a lui mi sposo.”

Come credete sia andata a finire?

F I N E

Suonata a Mastro Pietro (Zampogne del Cilento):

https://www.youtube.com/watch?v=vpsTqQJsZYQ

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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