L’Alfabeto brasileiro di Angelo d’Orsi

di David Lifodi

“Recatomi in Brasile per un soggiorno di studio, ne sono stato affascinato”, scrive Angelo d’Orsi nella prefazione del suo volumetto Alfabeto brasileiro – 26 parole per riflettere sulla nostra e l’altrui civiltà. Al tempo stesso, parafrasando le parole del docente torinese, posso dire di essere stato davvero attratto dal suo libro, che si legge tutto d’un fiato e rappresenta un utile strumento per comprendere il Brasile dal punto di vista storico, economico, politico e sociale.

Non si tratta, però, di un saggio accademico, e nemmeno di una sorta di Lonely Planet per il turista che vuole conoscere usi e costumi del paese per calarsi nella realtà brasiliana, quanto di una serie di riflessioni a voce alta, tramite un linguaggio semplice e scorrevole, che stimolano il dibattito su quello che è universalmente conosciuto come il gigante dell’America Latina, arricchito inoltre da un interessante foto-reportage della figlia Eloisa in occasione di un suo viaggio risalente al 2003, quando doveva svolgere la sua tesi di dottorato. Pubblicato a puntate tra agosto e settembre 2012 per il quotidiano il manifesto, l’Alfabeto brasileiro parte dalla A di água per spiegare che nel nord-est del paese la seca non è un problema, ma il problema. Da qui, come nelle successive venticinque lettere, ciascuna corrispondente ad una parola, il professore di Storia del pensiero politico dell’Università di Torino traccia una serie di riflessioni di carattere storico, antropologico e sociale. Emerge qui, come in molte altre pagine del libro, lo squilibrio tra il Brasile del primo mondo e quello costretto ad arrabattarsi con meno di un dollaro al giorno, a partire dai “bimbi che si tuffano allegri nelle piscine dei tetti di San Paolo e i bimbi che nel Maranhão non riescono a lavarsi per mancanza di acqua”. Alla lettera G, quella dedicata alla guerrilha, c’è spazio per ricordare i militanti che durante il buco nero della democrazia brasiliana, il lungo ventennio che vide il governo dei militari tra il 1964 e il 1985, provarono a cambiare lo stato delle cose per un Brasile meno iniquo, ad esempio il comandante dell’Ação Libertadora Nacional, Carlos Eugênio Paz: “Guerrigliero non è solo quando sei con un’arma in mano. È quasi come una concezione di vita”. Eppure, nonostante la denuncia degli enormi squilibri economici, del mastodontico progetto della diga di Belo Monte, che inonderà le comunità indigene, contadine e dei ribeirinhos e delle tante contraddizioni sociali che caratterizzano il Brasile, il libro del professor d’Orsi non è catalogabile come un libro militante in senso stretto, quanto, piuttosto, come uno strumento che aiuta il lettore a districarsi nella complessità brasiliana, a partire da una serie di riferimenti precisi e puntuali alla storia e alla cultura del paese. Si viene a sapere, quindi, che Pedro Álvares Cabral, al momento della scoperta del Brasile, il 22 aprile 1500, denominò il paese “Terra di Vera Cruz, e che l’origine del termine Brasile deriva molto probabilmente da una lingua parlata da una popolazione india (forse la lingua brasis) o “da un tipo di legno della foresta atlantica, utile per fare la brace”. Sorse allora una prima ondata di avventurieri giunti in Brasile per depredarlo delle proprie risorse naturali, allora come oggi, e per sottomettere le comunità che già da tempo abitavano su quelle terre: è da qui che nasce quella che d’Orsi definisce come una miscigenação di etnie, da cui però deriverà la costante, e purtroppo ancora attuale, persecuzione degli afrodiscendenti, che il professore racconta bene alle lettere Q di quilombo e Z di Zumbi, lo schiavo ribelle che combatté i portoghesi, ma anche alla M di mulheres,  dove si parla di Francisca da Silva, “schiava mulatta che nel secolo XVIII diventò donna di potere: icona di riscatto per le donne di origine africana”. Non mancano, anzi, rappresentano una costante lungo tutto il volume, i riferimenti all’attualità e alla vita sociale dei brasiliani, sempre da un punto di vista non solo di costume, ma soprattutto attraverso un occhio attento che analizza la società brasiliana e i suoi stili di vita, come alla lettera R di rodoviária, la stazione degli autobus. In un Brasile in cui la rete ferroviaria lascia molto desiderare, annota d’Orsi, gli ônibus rivestono un’importanza fondamentale perché permettono di collegare le varie città del paese e, contrariamente ai bus di linea urbani, assai scomodi e spartani, sono dotati di tutti i comfort. Anche in questo caso, d’Orsi non si limita a descrivere la mobilità brasiliana, ma coglie l’occasione per costruire una riflessione interessante, soprattutto a livello antropologico, sul sistema di trasporto. La rodoviária, scrive il docente, “è multietnica, e, accanto al portoghese-brasiliano e alle lingue europee dei turisti, si percepiscono dialetti indios… . Se il Brasile è mestiçagem, la rodoviária lo rappresenta perfettamente”. Capita quindi, di veder salire sugli ônibus uno spaccato della società brasiliana, dal professionista che lavora con il suo inseparabile portatile agli studenti che raggiungono le sedi universitarie all’inizio della settimana per tornare a casa nel weekend, suonatori con i loro strumenti sotto braccio, suore e sacerdoti ecc… .Il meticciato, osserva d’Orsi, rappresenta una caratteristica fondamentale del Brasile, almeno dalla rivolta di Joaquim José da Silva Xavier, più noto come Tiradentes, che nel 1792 guidò una sommossa contro i portoghesi nel segno di una ribellione coloniale che avrebbe dovuto liberare dall’oppressione i neri e gli indigeni, ma fu arrestato, processato e impiccato. Da qui si dipana uno dei tanti fili rossi di d’Orsi, alla lettera L di liberdade. La libertà è quella di cui si fa promotore il pedagogista Paulo Freire quando propugna la pedagogia degli oppressi, ma anche quella della Teologia della Liberazione, che in Brasile vanta esponenti di primo piano, a partire da monsignor Helder Camara, dom Paulo Evaristo Arns (voci profetiche a fianco degli ultimi e in antitesi alla dittatura militare) e Leonard Boff, costretto a lasciare l’abito nel 1992 a seguito della “teologia della restaurazione” promossa da papa Wojtyla. Meritano un accenno anche le lettere O e P, alle voci Ordem e Progresso, che campeggiano sulla bandiera nazionale brasiliana. Il motto, spiega d’Orsi, “sembra cogliere una predisposizione  e insieme un bisogno, come mille indicatori mostrano, se si cammina lungo i viali delle megalopoli come nelle straduzze delle cittadine”. Per quanto “Ordem e Progresso” sia ispirato ad una frase del padre del positivismo Auguste Comte, è innegabile anche l’influsso del presidente brasiliano Juscelino Kubitschek, che, all’insegna della parola d’ordine Desenvolvimento e Ordem, lanciata a metà degli anni Cinquanta, fu il promotore della costruzione dell’attuale capitale del paese, Brasilia, sorta nel giro di pochissimi anni. Al tempo stesso, il progresso, espresso a partire dallo sviluppismo del presidente Getulio Vargas e ripreso nell’ambito di una crescita economica senza pari, rappresenta al giorno d’oggi anche una discutibile modernizzazione, ad esempio quella che vuole imporre a tutti i costi la costruzione delle centrali idroelettriche ed un’urbanizzazione selvaggia, fatta passare sotto il nome di riqualificazione urbana, che in vista degli imminenti mondiali di calcio finirà con lo sgomberare migliaia di persone dai loro quartieri: gli sgomberi violenti ai danni dei sem teto, nota con preoccupazione d’Orsi, sono già cominciati da tempo.

Il merito di Angelo d’Orsi e del suo libro risiedono nella capacità di averci condotto per mano attraverso un viaggio nell’anima della società brasiliana riflettendo al tempo stesso, secondo le parole del professore “sui mali e sui pericoli della civiltà contemporanea”: per questo, credo che dobbiamo essergliene grati.

Alfabeto brasileiro

di Angelo d’Orsi

Ediesse s.r.l., 2013, Roma

Pagg. 239

 

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