L’attualità di don Abbondio

(Il sistema don Abbondio ai tempi dei Salvini e delle Meloni)

di Natalino Piras

Nico Orunesu, acquerello e inchiostro, 1981

Ritorna sempre. In tutte le storie. Ogni qualvolta riprendo questo pezzo mi rendo conto che con don Abbondio ci si deve sempre fare i conti. Don Abbondio è tutto fuorché metafora. E’ persona del reale.

Chi è don Abbondio?

Ne abbiamo scritto più volte. Don Abbondio, curato di campagna, è personaggio importante nei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni. La scena iniziale del romanzo dice di don Abbondio che va incontro ai bravi di don Rodrigo. I due sgherri sanno già di che stoffa è fatto don Abbondio. Gli intimano, per conto del loro padrone, che non s’ha da fare il matrimonio tra Renzo e Lucia. Da lì, da don Abbondio, prete dominato dalla paura che obbedisce per terrore a don Rodrigo, dipartono tutte le trame e le traversie dei protagonisti di una vicenda ambientata nel Seicento ma che sembra oggi.

Su don Abbondio ha scritto spesso anche Leonardo Sciascia. Dice il maestro di Racalmuto che don Abbondio è un “personaggio perfettamente refrattario alla Grazia”. Addirittura si considera creditore della Provvidenza, motore di tutto nel romanzo manzoniano.

C’è un libro, pubblicato da Angelandrea Zottoli nel 1933 che si intitola “Il sistema di don Abbondio” che Sciascia considera “la migliore introduzione alla lettura dei Promessi sposi”. Zottoli (1879-1956), salernitano, impiegato nel ministero della pubblica istruzione, poco compare, “naturalmente”, “nelle storie e antologie della critica italiana, nei libri che la scuola impone o consiglia, nei corsi universitari si trovano sparutissime tracce, o nessuna”. Eppure scrisse anche “altri notevoli saggi su “Umili e potenti nella poetica del Manzoni”, su Boiardo, su Casanova, su Leopardi”. Non fosse che “la nostra storia civile, anche la nostra storia letteraria è fatta di dimenticanze, omissioni e disguidi”.

Don Abbondio: “Figura circospetta e meditativa”, così lo dipinge Zottoli. Il termine di paragone è “Adelchi”, altra tragedia manzoniana rappresentativa della ruina italica. Adelchi, sconfitto, cade. Don Abbondio invece resta a galla. Il curato apprende e fa sua la logica che “una feroce forza il mondo possiede e che loco a gentile, ad innocente opra non v’è: non resta che far torto o patirlo”. La risaputa storia del vaso di coccio tra vasi di ferro.

Tempo di bravi. Tempo di grida. Tempo di furfanti. Don Abbondio si adegua. È uno che il coraggio non gli nasce dentro. Mica se lo può dare, come lui stesso ammette davanti al cardinale Federigo Borromeo. È sempre di umor nero. Ma il suo non è un pessimismo della ragione. Dice Sciascia che “questa visione della vita, questo pessimismo, è per don Abbondio un riparo e un alibi: don Abbondio è forte, è il più forte di tutti, è colui che effettualmente vince, è colui per il quale veramente il ‘lieto fine’ del romanzo” – il riferimento è sempre ai Promessi sposi – “è un ‘lieto fine’”. Comparandolo con i personaggi locali e tipi universali, sardi, siciliani, padani e diversa gente del villaggio elettronico, don Abbondio si trova a suo agio tra crejasticos, paurosi e farisei che frequentano e ruotano intorno alla rifrazione di molteplici parrocchie. Abolita la figura classica del parroco come mediatore tra alta e bassa cultura, che fu una importante funzione storica, don Abbondio media invece tra lo status-palude degli “ominicchi” e il bastone retto come uno scettro dai capi. Sta a galla, per riprendere don Mariano Arena del “Giorno della civetta”, in una palude di quaquaraqua, di “devoti per impotenza”, di baciapile, bigotti e altri deboli con i forti e forti con i deboli. Don Abbondio rappresenta questa gente a diversi gradi. È pervaso di ipocrisia gesuitica, sepolcro imbiancato e fariseo per il tanto che gli permette, sempre e comunque, l’affermazione del suo potere. A differenza di altri che periscono e affogano quaquaraqua nella palude ma pure naufraghi-cannibali nella “Zattera di Gericault”, don Abbondio si salva sempre: dai bravi di don Rodrigo, dalle ire di Renzo, dagli “inganni” di Agnese, dall’Innominato, dai lanzichenecchi, dalla peste. Sostiene Sciascia: “Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato, ma scelto e perseguito da una posizione di forza, da una posizione di indipendenza, qual era quella di un prete nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile”. Quella Lombardia del Seicento somiglia all’Italia nostra contemporanea. “L’uomo del Guicciardini, l’uomo del ‘particulare’ contro cui tuonò il De Sanctis, perviene con don Abbondio alla sua miserevole ma duratura apoteosi. Ed è dietro questa sua apoteosi, in funzione della sua apoteosi, che Manzoni delinea – accorato, ansioso, ammonitore – un disperato ritratto delle cose d’Italia: l’Italia delle grida, l’Italia dei padri provinciali e dei conte-zio, l’Italia dei Ferrer italiani dal doppio linguaggio, l’Italia della mafia, degli azzeccagarbugli, degli sbirri che portan rispetto ai prepotenti, delle coscienze che facilmente si acquietano”. L’Italia dei Salvini, aggiungiamo, degli eredi del berlusconismo, della revanche del fascismo, l’Italia del governo Meloni, l’Italia della maggioranza rumorosa, mediocre, dominata dal terrore e dall’opportunismo, dall’ossequenza al più forte, dal mutimene come malattia. Un’Italia di bastonati e delatori, sempre la maggioranza. Su tutto questo trionfano don Abbondio e il suo sistema. “Sta lì, nelle ultime pagine del romanzo, vivo, vegeto, su tutto e su tutti vittorioso e trionfante: su Renzo e Lucia, su Perpetua e i suoi pareri, su don Rodrigo, sul cardinale arcivescovo. Il suo sistema è uscito dalla vicenda collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo. Ne saggiamo la resistenza anche noi, oggi: a tre secoli e mezzo dagli anni in cui il romanzo si svolge, a un secolo e mezzo dagli anni in cui Alessandro Manzoni lo scrisse”.

Così è il sistema don Abbondio, quanto comanda.

Natalino Piras   16.03.2024 

https://www.facebook.com/natalino.piras

Immagini: Nico Orunesu

 

 

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