RWM: le “armi” della CGIL

L’ambigua posizione del sindacato CGIL sulla questione della produzione di armi a Domusnovas.

 

La mossa di Landini di portare la CGIL ad organizzare lo sciopero generale del 3 ottobre, in solidarietà con la Global Sumud Flotilla, assieme ai sindacati di base (seppur tardivo, e seppur “convinto” dal fallimento sostanziale dello sciopero del 19 settembre, quando la CGIL invece di aderire allo sciopero già proclamato da USB e altri sindacati di base per il 22 settembre successivo aveva deciso di andare per conto proprio), ha comunque rappresentato uno strappo rispetto agli altri sindacati confederali, per quel che ne rimane, e probabilmente rincuorato molti suoi militanti insofferenti alle scelte del maggior sindacato italiano sulle questioni legate alle guerre e alla produzione di armamenti.

Ma anni, decenni, di adattamento al compromesso e alla messa in soffitta di buona parte dei valori fondanti e delle tradizioni storiche dello storico sindacato della sinistra, hanno ovviamente formato dei quadri sindacali che non riescono a sintonizzarsi con valori che hanno messo da parte per tanto, troppo tempo.

Capita così che, di fronte ad una questione sempre più discriminante quale quella della guerra, del boicottaggio dell’industria degli armamenti e delle conseguenti scelte produttive, quadri intermedi ricaschino nelle solite logiche di difesa del posto di lavoro a qualsiasi costo, mettendo da parte qualsiasi problema etico.

È successo ancora una volta a proposito della ”Valutazione d’Impatto Ambientale” che deve esprimere la Regione Autonoma della Sardegna a proposito del progetto di ampliamento della fabbrica di bombe di Rheinmetall, nei territori comunali di Iglesias e Domusnovas.

Progetto all’attenzione anche del Ministero delle Imprese e del Made in Italy.

Nel 2017 il gruppo tedesco Rheinmetall aveva annunciato un investimento di 40 milioni di euro nella fabbrica di Domusnovas. Negli anni successivi sono stati presentati decine di piccoli progetti riguardanti l’ampliamento o la manutenzione dello stabilimento, in parte su terreni del Comune di Iglesias, spezzettati in maniera tale da aggirare le valutazioni ambientali. Questo sino alla sentenza del Consiglio di Stato del 2021.

Lo racconta Arnaldo Scarpa qui cittanuova.it/rwm-triplicare-la-produzione-di-bombe

Anche in Bottega abbiamo parlato varie volte di RWM:  bombe-sullorlo-di-una-crisi-idrogeologica

assolta-la-rwm-la-fabbrica-di-bombe 

Nasce-il-comitato-insieme-per-la-pace-disarmata

CGIL 1 e 2

Hanno suscitato un dibattito, e anche sdegno e condanne, le dichiarazioni in proposito rilasciate ad un quotidiano on-line sardo, del segretario della Filctem-Cgil del Sulcis-Iglesiente Emanuele Madeddu.

Riprendiamo l’intervista al sindacalista della CGIL da Sardegnanotizie24, e la risposta di un’area programmatica di minoranza della CGIL, “Le radici del sindacato – Sardegna

In coda un comunicato di Arnaldo Scarpa (della Rete Warfree- Liberu dae sa gherra e storico attivista pacifista da sempre impegnato contro la presenza della RWM.)

lo stabilimento RWM di Domusnovas, da Cagliari today

https://sardegnanotizie24.it/la-pace-e-le-armi-la-cgil-davanti-al-caso-della-fabbrica-rwm-di-domusnovas/

La pace e le armi: la Cgil davanti al caso della fabbrica Rwm di Domusnovas

Intervista al segretario della Filctem-Cgil del Sulcis-Iglesiente, Emanuele Madeddu

La RWM Italia, controllata dal gruppo tedesco Rheinmetall, produce bombe e componenti per ordigni aerei nello stabilimento di Domusnovas, nel Sulcis-Iglesiente. Nata nel 2010, dà lavoro a circa 300 persone tra diretti e indotto, in un’area colpita da anni di crisi industriale.

Negli ultimi anni la fabbrica è finita al centro di inchieste e campagne pacifiste per le presunte esportazioni di armi verso Paesi in guerra, in particolare Yemen e Israele. Dopo la sospensione temporanea delle licenze nel 2019, la produzione è ripresa e oggi la RWM chiede un ampliamento dell’impianto, definito “raddoppio”, sottoposto a Valutazione d’Impatto Ambientale regionale.

Nel territorio la questione divide: per alcuni è un presidio occupazionale, per altri un simbolo della contraddizione tra economia e responsabilità etica. In questa linea di confine si colloca la Cgil, storicamente legata ai movimenti per la pace ma sulla Rwm di Domusnovas dice in maniera molto chiara di essere più orientata a un principio di legalità e neutralità che alla contestazione: nessuna opposizione se le procedure risultano legittime.

A esprimere questa posizione è Emanuele Madeddu, segretario della Filctem-Cgil del Sulcis-Iglesiente, che rappresenta i lavoratori della fabbrica. Madeddu parla del rapporto fra pace, lavoro e armi nel cuore della Sardegna.

La Cgil ha posto anche nelle sedi ufficiali il tema dei sospetti di vendita di armi della Rwm a Israele. Avete avuto risposte dal Ministero?

Sì, ne abbiamo parlato anche in riunioni ufficiali. Siamo in attesa di una risposta. Il Ministero, da quanto abbiamo letto, tende a ridimensionare la questione, ma i sospetti restano concreti.Rwm-Sardegna-Bombe da ilfatto.it

Se il Ministero dovesse escludere qualsiasi esportazione di armi verso Israele, qual è la posizione della Cgil?

Il nostro campo di appartenenza è quello della legalità. Quando il governo sospese le licenze, noi rispettammo quella decisione. Così abbiamo fatto anche in seguito, attenendoci alle sentenze. Se il Ministero dirà che non ci sono vendite, prenderemo atto.

Quindi non un giudizio politico, ma un principio di rispetto istituzionale?

Esatto. Per noi il punto fermo è il rispetto delle decisioni assunte. Se emergessero elementi diversi, li affronteremmo, ma sempre all’interno del quadro legale.

Mentre sul raddoppio dello stabilimento Rwm qual è la vostra posizione?

Dobbiamo distinguere tra la questione etica e la procedura tecnica. Esiste una valutazione d’impatto ambientale e una competenza della Regione. È la Giunta che deve decidere, sulla base degli elementi tecnici, se autorizzare o meno.

Quindi la Cgil non si esprime nel merito?

Noi chiediamo che la Regione concluda la procedura in tempi normali e con trasparenza. È una questione tecnica, non politica.

La deputata Francesca Ghirra, dei Progressisti, ha parlato di un possibile “trasferimento di forza lavoro” dalla chimica alla fabbrica d’armi, dalla “fabbrica di pace” alla “fabbrica di guerra”. Condivide questa lettura?

Pensare di risolvere la crisi del polo di Portovesme spostando duecento persone non affronta il problema vero. Può attenuare una tensione sociale, potrebbe calmierare. Forse. Ma non sarebbe certo una risposta industriale. Portovesme ha bisogno di un piano di rilancio complessivo. Inoltre, non è detto che quelle duecento persone abbiano le competenze richieste: servono professionalità specifiche.

Rwm-Bombe da ilfatto.it

La Cgil ha una tradizione pacifista. Come si concilia con l’eventuale ampliamento di una fabbrica d’armi?

Noi non sosteniamo nessuna procedura di tipo tecnico. Le istituzioni devono valutare se un’attività può essere svolta o no. Se la legge lo consente, si può fare; se non lo consente, non si fa. È così che ci comportiamo da sempre.

Ma quando c’è da prendere una posizione, di solito la Cgil non si tira indietro. Anche e soprattutto se ci sono questioni etiche da considerare. Qui non c’è una questione etica? Una linea rossa che un sindacato come la Cgil non dovrebbe oltrepassare?

L’etica per noi è quella della legalità. Non siamo noi a stabilire se una fabbrica debba esistere o meno. Noi rispettiamo le procedure, i vincoli e le leggi.

Eppure la Cgil si è mobilitata per la pace, ha aderito a manifestazioni e appelli contro la guerra. Non è una contraddizione?

No. Il nostro impegno per la pace è reale e continua, non mettiamo certo la testa sotto la sabbia. Ma la pace passa da processi politici e internazionali, non da una singola fabbrica. Noi lavoriamo per la pace perché crediamo che la pace porti al disarmo. È un percorso complesso.

Il raddoppio di una fabbrica delle armi va nella direzione opposta al disarmo.

Non è questione di dove si producano le armi. Se le guerre continuano, non serve che le armi si facciano altrove. La battaglia vera è perché le guerre finiscano.

Quindi lei dice: il problema non è la fabbrica, ma il contesto globale.

Esatto. Non serve spostare la produzione in un’altra parte del mondo, non basterebbe e non mi accontenterei. Serve cambiare il mondo, evitare che ci siano guerre.

Ma allora, in concreto, come si traduce l’impegno per la pace della Cgil in Sardegna, dove le fabbriche d’armi sono una realtà?

Noi continuiamo a lavorare perché ci sia la pace nel mondo. Ma non è da qui che si decide la pace. Si decide altrove, a livello politico e internazionale.

Quindi, se la Regione approverà la Valutazione d’Impatto Ambientale, la Cgil cosa farà?

Noi prenderemo atto della decisione. Non è compito del sindacato stabilire la legittimità di una procedura amministrativa.”

da qui  sardegnanotizie24.it

fotogramma dal documentario “La fabbrica sarda della morte” di Lisa Camillo

Risposta di “Le radici del sindacato”

Comunicato di “Le radici del Sindacato – Sardegna”, area programmatica i minoranza CGIL

LA COERENZA CHE NON C‘É

L’intervista rilasciata da Emanuele Madeddu sulla fabbrica RWM di Domusnovas non è solo un commento locale: è una questione che riguarda l’identità e la coerenza della CGIL. Quando un dirigente sindacale afferma che “l’etica per noi è la legalità” e che “la pace si decide altrove”, non sta semplicemente esprimendo prudenza istituzionale. Si sta ridefinendo, in modo sostanziale, il ruolo del sindacato in rapporto alla giustizia, alla pace e alla dignità del lavoro.

La CGIL è nata per dare voce al lavoro e ai diritti, ma anche per affermare un’idea di società fondata sulla solidarietà, sull’uguaglianza e sul rifiuto della guerra. Nella nostra storia, la legalità non è mai stata un fine in sé: è sempre stata una condizione minima da cui partire per rendere possibile la giustizia. Confondere le due cose significa smarrire la funzione critica del sindacato e consegnarsi all’amministrazione passiva dell’esistente.

Dire che “l’etica è la legalità” equivale a dire che tutto ciò che la legge consente è accettabile. Ma la CGIL ha sempre saputo che molte conquiste sono nate proprio dal conflitto con leggi ingiuste: dai contratti collettivi conquistati contro la repressione padronale, ai diritti civili ottenuti contro norme discriminatorie. Non è stato il rispetto della legge a far avanzare la democrazia, ma il coraggio di metterla in discussione quando negava la dignità delle persone. Anche oggi, una produzione che genera strumenti di morte può essere legale, ma non è per questo giusta. Il nostro compito non è limitarci a rispettare le regole, ma lottare per cambiarle quando tradiscono i principi di pace e umanità.

Il sindacato non può essere neutrale di fronte alla guerra. Ogni volta che si sceglie di non scegliere, si prende comunque posizione: a favore dello status quo. La neutralità, in un contesto in cui l’Italia e l’Europa partecipano alla corsa al riarmo, diventa una forma di complicità passiva. La CGIL ha sempre considerato la pace una parte essenziale della giustizia sociale, non un tema “internazionale” separato dal lavoro. Le guerre colpiscono sempre i lavoratori: li privano del salario, dei servizi, della sicurezza, e sopratutto della vita. Difendere la pace significa difendere il lavoro, la scuola,la sanità, il futuro.

Quando si sostiene che la questione RWM sia “tecnica” o “amministrativa”, si rinuncia a leggere la realtà per ciò che è: una scelta politica, industriale e morale. Nessuna valutazione di impatto ambientale potrà cancellare il fatto che quella fabbrica produce ordigni. Chiamarla “questione tecnica” significa depoliticizzare un conflitto che è invece pienamente politico. Il lavoro non è neutro, e il sindacato non può esserlo. La CGIL non è un ufficio di certificazione: è una forza di cambiamento. Se accettiamo che tutto ciò che da occupazione sia legittimo, allo dovremmo smettere di parlare di riconversione ecologica, di diritti, di transizione giusta. Dovremmo accettare che ogni posto di lavoro, anche il più distruttivo, sia in sé un bene. Ma non lo è.

Il Sulcis è un territorio che conosce la sofferenza, la disoccupazione e la precarietà. É comprensibile che una fabbrica che da lavoro a 300 persone venga vista come un presidio di sopravvivenza. Ma la sopravvivenza non è sviluppo, e un’economia che si regge sulla produzione di armi è un’economia di emergenza, non di futuro. Il sindacato dovrebbe pretendere investimenti pubblici, ricerca, riconversione industriale, formazione, energie rinnovabili, cooperazione civile. Dovrebbe chiedere che nessuno sia costretto a scegliere tra il lavoro e la coscienza. Difendere il lavoro non può voler dire giustificare qualsiasi lavoro.

C’è una contraddizione evidente tra la posizione espressa nell’intervista e la linea ufficiale della Confederazione. La CGIL ha aderito alle mobilitazioni per la pace, ha denunciato il piano europeo di riarmo, ha chiesto che le risorse vengano destinate a welfare, istruzione, sanità, transizione ecologica. Ha affermato che la pace è una condizione strategica del lavoro e della democrazia. Non possiamo dire una cosa a Roma e il suo contrario a Domusnovas. La coerenza non è un lusso morale, è la sostanza della credibilità sindacale.

Rifiutiamo l’idea che “la pace si decide altrove”. La pace si decide anche qui, ogni volta che accettiamo o rifiutiamo la logica della guerra. Si decide quando un sindacato difende il diritto a lavorare per vivere, non per distruggere; quando rivendica il disarmo come politica industriale; quando sostiene la riconversione produttiva delle fabbriche d’armi; quando difende il diritto dei lavoratori all’obiezione di coscienza. La pace non è un evento diplomatico: è un processo quotidiano di giustizia sociale.

La CGIL ha nella sua memoria momenti in cui ha saputo dire di no: alla guerra del Vietnam, ai missili a Comiso all’invasione dell’Iraq. Ogni volta ha pagato un prezzo politico, ma ha guadagnato autorevolezza morale. Oggi non possiamo arretrare. Non si tratta di attaccare i lavoratori della RWM, che vanno difesi, ma di dire con chiarezza che la soluzione non è la fabbrica di armi: è la riconversione. È un piano di politica industriale orientato alla pace, sostenuto da fondi pubblici, con garanzie occupazionali, formazione e nuove produzioni civili. È il compito che spetta a chi, come noi, crede che la sicurezza non nasca dagli arsenali, ma dai diritti.

Riteniamo che la linea espressa da Madeddu rappresenti una pericolosa riduzione della missione sindacale. Trasforma il sindacato in un soggetto che che gestisce le procedure invece di guidare i processi. Parla il linguaggio dell’amministrazione, non quello del cambiamento. Ma la CGIL non è un organo tecnico: è una comunità politica e sociale, con un patrimonio di valori che la obbligano a prendere posizione. La pace, la giustizia, la solidarietà internazionale non sono slogan: sono la sostanza della nostra identità.

Come area “Le Radici del Sindacato” ribadiamo che il sindacato deve tornare a essere forza di orientamento e di proposta. Chiediamo che la CGIL a tutti i livelli promuova una piattaforma nazionale per la riconversione delle industrie belliche e per la creazione di lavoro civile e sostenibile. Chiediamo che venga garantita la libertà di coscienza dei lavoratori del settore. Chiediamo che la Confederazione torni a dire con chiarezza che la guerra è nemica del lavoro e della democrazia, e che non può esserci pace senza giustizia sociale, né giustizia sociale senza disarmo, trovando coerenza nei pronunciamenti e nelle azioni delle categoria.

Il sindacato non può scegliere tra occupazione e coscienza: deve creare le condizioni perché le due cose coincidano. Questa è la CGI che vogliamo: una CGIL coerente con la sua storia, fedele ai suoi valori, capace di dire no alla guerra anche quando è scomodo, capace di dire sì al lavoro che costruisce, non al lavoro che distrugge.  Il coordinamento regionale

La risposta di Arnaldo Scarpa

E invece no, caro Emanuele Madeddu, lo dovresti sapere bene che il compito del sindacato non è semplicemente quello di adeguarsi alle norme esistenti, ma semmai consiste nel migliorarle. Se fosse come dici tu, quando le leggi permettevano certe nefandezze, come il lavoro minorile, la paga ridotta alle donne, gli orari da schiavi, ecc., ecc., il sindacato non avrebbe avuto nulla da dire e invece, lo sai meglio di me, i lavoratori e le lavoratrici di allora hanno pagato perfino con la vita certe lotte, per il bene di tutti.

Il lavoro non è solo una merce di scambio, è il modo in cui ogni cittadino contribuisce al progresso materiale e spirituale della società con la propria fatica (cfr. art. 4 Cost.It.).

E risulta appagante o avvilente non solo in base al guadagno che produce, ma anche per i valori umani che promuove o che calpesta. Il lavoratore che non può godere di ciò che produce, neppure nella misura in cui l’oggetto della sua produzione incrementa i beni comuni, è un lavoratore alienato. E’ questo il nostro caso.

La produzione del dipendente Rwm ingrassa il padrone (Rheinmetall nel nostro caso) e svuota di senso la sua vita, anzi, la appesantisce, nel caso specifico, di un fardello insopportabile: ciò che produce uccide altri lavoratori e lavoratrici insieme ai loro figli, tutti innocenti, e quando non uccide aumenta l’insicurezza del mondo e rende il nostro territorio un bersaglio, in caso di guerra.

È inconcepibile che la tua struttura sindacale non si adoperi senza indugi per sottrarre i dipendenti delle fabbriche di armi da questo peso sulla coscienza, e tutti noi dai rischi che quella fabbrica comporta, promuovendo un processo di riconversione e/o di ricollocazione teso a salvare ogni posto di lavoro riqualificandolo. E non venirmi a dire che i dipendenti non lo desiderano e perciò ritenete di non potervene occupare. Chi è, o si sente, costretto a fare un certo lavoro, pur di portare a casa uno stipendio, non è una persona libera. Non possiamo aspettare che siano i dipendenti di Rwm a chiedere di uscire dal sistema che gli garantisce la sopravvivenza, dobbiamo pretendere a gran voce un lavoro degno dalla proprietà e dalle istituzioni democratiche.

Stai certo, caro Emanuele, che se si applicasse veramente la legge, a partire dagli articoli 11 e 41 della Costituzione, passando per la 185/90, quella fabbrica non potrebbe esistere. Tralasciando per ora le leggi ambientali. L’Italia che “ripudia la guerra” non può rifornire di bombe l’Arabia Saudita o l’Egitto, o Israele, come invece lascia fare alle fabbrica di morte che ipocritamente vengono chiamate “della Difesa”. Difesa da che? Da chi? Quando a causa di quelle fabbriche stanno morendo migliaia e migliaia di persone. Per rispettare la legge, nel 2019, il governo Conte aveva bloccato le esportazioni verso l’Arabia Saudita e voi avevate difeso la fabbrica proponendo addirittura che lo stesso quantitativo di bombe lo acquistasse l’Italia per sopperire ai mancati guadagni del gruppo Rheinmetall, altro che difesa dei lavoratori! Non vi rendete conto che così difendete i mercanti di morte che godono dell’allargarsi dei conflitti armati vedendo i loro bilanci crescere in maniera esponenziale?

Dovete invece pretendere soluzioni per i lavoratori e le lavoratrici di quella fabbrica. Soluzioni che tutelino il loro diritto al lavoro, che non significa “diritto a fare qualsiasi lavoro”, soluzioni che tutelino il loro diritto alla vita, ma nel contempo, il diritto alla vita di tutti, anche di quelle mamme, di quei bambini, di quei papà che altrimenti continueranno a morire, sempre di più, sotto le “loro” bombe.

Arnaldo Scarpa, da qui https://www.facebook.com/ArnaldoScarpa

Redazione
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2 commenti

  • La guerra del futuro si fabbricherà in Sardegna: Rheinmetall avvia la produzione di “Munizioni circuitanti”
    Mentre in Europa si discute animatamente di difesa comune e autonomia strategica, c’è chi, senza troppi giri di parole, passa alla produzione di massa. E lo fa in Italia. Il colosso tedesco della difesa Rheinmetall ha infatti annunciato l’avvio della produzione in serie di loitering munitions (LM), più note al grande pubblico come “droni kamikaze”, nel cuore della Sardegna. Fabio Lugano su Scenari Economici. https://scenarieconomici.it/la-guerra-del-futuro-si-fabbrichera-in-sardegna-rheinmetall-avvia-la-produzione-di-munizioni-circuitanti/

  • Riceviamo e pubblichiamo

    MEGLIO BURRO CHE CANNONI
    In questi giorni in Veneto, il ministro Urso, titolare del Mimit, in un intervento all’inaugurazione della nuova sede di FdI a Castelfranco Veneto, ha parlato della possibile acquisizione degli stabilimenti italiani della Berco da parte di Leonardo. A queste dichiarazioni si sono aggiunte quelle apertamente favorevoli della UILM di Ferrara e nazionale e della CISL. La segretaria della CGIL del Veneto, Tiziana Basso, la Fiom di Treviso e i suoi delegati nello stabilimento, hanno invece espresso la loro opposizione a questa prospettiva.
    Una posizione che non cede al ricatto occupazionale implicito nella proposta del ministro. Saltare sul carro dell’economia di guerra non è mai un buon affare per i lavoratori e le lavoratrici. Il riarmo è già un passo in avanti verso la guerra. Una miopia che, come insegna la storia europea, è stata pagata cara soprattutto dai proletari che si sono combattuti nei campi di battaglia per interessi che non erano certamente i loro.
    Ora è chiaro che la partita che si gioca attorno alla Berco ha due obiettivi.
    Il primo è quello di inserire le produzioni e il futuro industriale dell’azienda nella scia dello sviluppo dell’industria bellica italiana ed europea, con Leonardo capofila di questo piano nel nostro paese.
    Il secondo è quello di costruire un consenso di massa al riarmo giocando anche la carta del mantenimento e della creazione di posti di lavoro. Cisl e Uil che certamente rappresentano una parte importante delle lavoratrici e dei lavoratori e sostengono questa soluzione non ne fanno gli interessi.
    L’economia centrata sulla produzione di armi richiede forti investimenti pubblici, rafforza la tendenza alla guerra e riduce gli investimenti sociali, deprime i consumi interni e non risolve certamente la crisi della manifattura nel nostro paese. Le professionalità, le competenze, la storia centenaria della Berco possono trovare la loro valorizzazione in ben altri progetti, nelle produzioni ad uso civile. La Berco non può diventare una fabbrica di morte.
    Dipartimento nazionale Lavoro di Rifondazione comunista
    Segreteria regionale Prc Emilia Romagna
    Segreteria regionale Prc Veneto

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