Le donne saudite contro il “guardiano”

di Chiara Cruciati (*)

 

Ma tu ce l’hai un permesso per vivere? Nel regno saudita, le donne devono ottenere dal proprio “guardiano” – il marito, il padre, il fratello e, nel caso delle vedove, il figlio – un permesso per fare qualsiasi cosa. Serve per uscire dal paese ma anche per ricevere cure mediche, per sposarsi, lavorare, studiare, chiedere il passaporto e addirittura per uscire di prigione alla fine di una pena. Soltanto lo scorso anno la petromonarchia ha votato una legge che riconosce alle donne il diritto di voto ma, nel primo test, le donne hanno potuto votare solo se accompagnate da un uomo e in seggi separati, infatti alle urne sono andate solo 130mila su un milione e mezzo. Da due mesi, tuttavia, va avanti una tenace campagna per eliminare il sistema di tutela maschile: su Twitter e in una petizione, migliaia di donne hanno trovato il coraggio per affermare il loro diritto a vivere la propria vita

 

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12 dicembre 2015, le donne dell’Arabia Saudita votano per la prima volta

  Una campagna senza precedenti, una pioggia di firme e di tweet che non cessa. A quasi di due mesi dal lancio, senza che il governo di Riyadh abbia dato alcuna risposta, la mobilitazione online viene ripresa quotidianamente: le donne saudite vogliono la fine del sistema di tutela maschile, del cosiddetto “guardiano”. La petizione, che ha superato le 14.600 firme, è stata inviata un mese fa a re Salman. A lanciarla era stata l’attivista e ricercatrice Hala Aldosari e aveva subito ottenuto il sostegno di organizzazioni, associazioni di base e singoli cittadini.Il sistema in questione rientra a pieno titolo nella legislazione della petromonarchia, fondata su un’interpretazione conservatrice e fanatica dell’Islam, quel wahhabismo che della casa regnante di Riyadh è pietra angolare e fondatrice. Non è un caso che moltissimi religiosi, teologi e giurisprudenti musulmani considerino la nozione della tutela maschile un’interpretazione patriarcale che non trova riscontro nel Corano.

Secondo tale sistema, la donna è costretta ad ottenere dal proprio “guardiano”, che può essere il marito, il padre, il fratello e nel caso delle vedove il figlio, il permesso per vivere la propria vita: uscire dal Paese, ricevere cure mediche, sposarsi, lavorare, studiare, chiedere l’emissione del passaporto e di qualsiasi altro documento di identità, addirittura uscire di prigione alla fine della pena.

 

Campagna contro i maltrattamenti

Sia nel 2009 che nel 2013 il governo saudita, sotto pressione del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, promise di abolirlo. Ma lo ha mantenuto facendo passare qualche riforma, mero maquillage. Una prigione sociale che arriva fino alla partecipazione politica: solo lo scorso anno la petromonarchia ha votato la legge che riconosce alle donne di votare. Ma il primo test elettorale ha mostrato tutti i suoi limiti: le donne che sono riuscite a infilare la scheda nell’urna hanno potuto farlo solo se accompagnate da un uomo, in seggi ovviamente separati da quelli maschili, circostanza che spiega perché hanno votato meno del 10% delle aventi diritto, 130mila donne su un milione e mezzo.

«Le donne qui sono in trappola – dice una donna saudita, in condizione di anonimato, alla Cnn – Non possono fare nulla, tutto dipende dal guardiano. Se è un brav’uomo ti lascia lavorare, o studiare, che è un diritto fondamentale. Se non lo è, te lo impedisce». Un destino che lega tutte le donne, a prescindere dall’estrazione sociale, dalle condizioni economiche o da quelle educative.

Cittadine a metà, cittadine di serie B, che oggi ricorrono ai social media per sponsorizzare la propria causa: i due hashtag più popolari di settembre e ottobre – #IamMyOwnGuardian (nato dopo la pubblicazione del rapporto della scorsa estate di Human Rights Watch) e #StopEnslavingSaudiWomen – hanno attirato l’attenzione di chi il cambiamento non lo vuole: a settembre, a causa delle numerose segnalazioni contro gli account di organizzazioni che hanno rilanciato la campagna, Twitter li ha unilateralmente sospesi generando non poche proteste: il secondo azionista della società californiana è il principe al-Waleed al Bin Talab Bin Abdulaziz Al Saud, con il 5,2% delle azioni. Che hanno funzionato: Twitter ha poi riattivato gli account dell’ong finita nel mirino, S.A.F.E Movement, e del suo direttore Isaac Cohen.

Ma è nel Paese che le resistenze sono più forti: il gran mufti Abdulaziz al-Sheikh, la più alta autorità sunnita in Arabia Saudita, già noto per aver emesso fatwa che definire controverse è poco, poche settimane fa ha aspramente criticato qualsiasi tentativo di modificare il sistema del guardiano, etichettando le campagne su Twitter come «un crimine contro l’Islam e una minaccia esistenziale alla società saudita»: «Si tratta di un appello diabolico che va contro la Shari’a e le indicazioni del profeta».

(*) ripreso da Comune info che indica come fonte Nena News

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