Leonard Peltier, la galera per sempre?

di Marco Cinque
Il leader dell’American Indian Movement è in carcere da 38 anni, condannato ingiustamente per la morte di due agenti Fbi (*)

«L’unico indiano buono è l’indiano morto» recitava il vecchio adagio razzista degli wasichu (i visipallidi invasori) ma il più grande genocidio della storia umana è stato declassato, dai vari governi succedutisi negli Stati uniti a un banale, impunibile e impunito «Destino Manifesto». I massacri, le deportazioni, le sterilizzazioni di massa, le leggi razziali, la reclusione in ghetti chiamati riserve e le assimilazioni forzate spariscono nei negazionismi degli sceriffi planetari, per lasciar posto a festeggiamenti celebrati in pompa magna, rilanciati nel 1992 in occasione del cinquecentenario della cosiddetta scoperta dell’America, denominati Columbus day , che continuano a offendere le popolazioni aborigene e a mistificare la verità storica.
Leonard Peltier è oggi il simbolo della resistenza di quei popoli aborigeni repressi e tartassati da ormai più di 500 anni. Amerindiano di ascendenza Ojibwa Lakota, Peltier è stato tra i primi fondatori dell’Aim (American Indian Movement) movimento nato per sostenere e difendere le popolazioni native del Nordamerica. Oggi, quasi settantenne, Leonard sta scontando una condanna a 2 ergastoli ed è in carcere da 38 anni.
La sua vicenda risale al 1973, cioè quando oltre 300 nativi iniziarono una protesta contro gli abusi e gli spossessamenti dei territori Lakota, soprattutto dopo la scoperta di enormi giacimenti di uranio nell’area di Sheep Mountain. Venne perciò chiesto aiuto a Peltier e agli attivisti dell’Aim per impedire queste violazioni. Due anni dopo, nel giugno 1975, durante un festa religiosa nella riserva dei Lakota Oglala, a Pine Ridge, alcune auto dell’Fbi prive di targa circondarono la zona e iniziarono una sparatoria contro la gente inerme. I Lakota risposero al fuoco e alla fine sul terreno rimasero tre corpi: due agenti Fbi, Ronald A. Williams e Jack R. Coler e un indiano, Joe Stuntz. Naturalmente per il nativo ucciso non venne aperta alcuna inchiesta, mentre per i due agenti furono indagate tre persone, fra cui Leonard Peltier. Nonostante un accurato rapporto balistico della stessa Fbi rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati dall’arma del leader dell’Aim, il destino dell’imputato Lakota era già irrimediabilmente segnato, poiché il processo si svolse a Fargo, città storicamente nota per essere anti-indiana e molti testimoni furono pesantemente minacciati dall’Fbi, per non parlare delle versioni contrastanti degli agenti accusatori. Il dibattimento fu una farsa presieduta da un giudice razzista e una giuria composta esclusivamente da gente bianca, che non esitò a condannare Peltier al carcere a vita.
Da allora la causa di Leonard è stata sostenuta e divulgata in ogni parte del mondo (spesso sulle pagine de «il manifesto») da normali cittadini, associazioni e personalità quali il Dalai Lama, Desmond Tutu o artisti come Robbie Robertson, Bruce Springsteen, Little Stevens, Pete Seeger e tanti altri. La sua vicenda è stata narrata anche nel film documentario del 1998 «Incident a Oglala» per la regia di Michael Apted. Ma la campagna in suo sostegno ancora continua, sia negli Stati uniti che in Europa: lo scorso 6 febbraio, a Barcellona, è infatti iniziato un presidio permanente davanti al consolato degli Usa, mentre in altri Paesi europei è stata promossa una nuova raccolta di firme, con un appello al presidente degli Stati Uniti. Già negli anni ’90 Clinton aveva deciso di firmare per la liberazione di Peltier ma le proteste dell’Fbi lo hanno fermato. Chiediamo ora ad Obama di fare ciò che Clinton non ha avuto la forza di fare.
https://secure.avaaz.org/en/petition/Freedom_for_Leonard_Peltier_Grant_Clemency_Now/
In carcere Leonard è diventato un bravo pittore autodidatta, cercando di fare qualcos’altro che non fissare le quattro pareti che ne imprigionano il corpo. I volti del suo popolo, gli animali sacri e la riscoperta delle sue radici ancestrali gli danno una fede e una forza interiore che gli permettono di resistere, di aprire varchi di colori attraverso il muro, di guardare oltre il loculo di cemento in cui è costretto ad abitare. In una sua poesia, intitolata «Peccato aborigeno», Leonard denunciava la repressione fisica e anche culturale perpetrata contro la sua gente: «siete colpevoli solo di essere voi stessi / di essere indiani / di essere umani / è la vostra colpa a rendervi sacri».

Stralci della lettera scritta da Leonard Peltier il 6 febbraio 2014, nel 38esimo anniversario del suo arresto.
«Molti giorni sono andati e venuti e sembra che io ripeta sempre le stesse cose, ma dovete capire che per 38 anni ogni giorno per me è stato uguale all’altro: ancora, ancora e di nuovo e per molta gente indigena la lotta contro questo mondo di tecnologia e corporazioni è andata avanti, sempre identica.
[…] Nelle terre indiane e in tutto il mondo ci sono uomini che lottano giornalmente per la libertà. L’America ha più gente in prigione di tutto il resto del mondo messo insieme. Il sistema giudiziario americano è diventato un’industria, non un mezzo per cercare la giustizia. Queste cose non cambieranno se noi gente comune non ci uniremo contro questi malvagi attacchi al nostro diritto di ricercare la felicità e di vivere in un mondo che non sia retto da una morale basata sull’ottenimento della ricchezza.
[…] Molte persone, nel corso delle loro vite, nella ricerca della spiritualità possono raggiungere una fede, o per meglio dire la consapevolezza di essere chiamati a realizzare qualcosa. Se per qualche ragione non avete mai provato questo sentimento, anche senza lo stimolo della ricerca spirituale ma usando il mero buon senso, guardatevi intorno e osservate gli scenari che vi si presentano – l’impoverimento del mondo naturale, la perdita di acqua potabile, di aria pulita, di cibo sano – e troverete ragioni valide per proteggere queste cose e prevenire l’ulteriore distruzione della natura e della nostra terra.
[…] Siamo stati creati e siamo nati in un circolo vitale e naturale, dove tutto dipende dal resto e tutti dipendiamo gli uni dagli altri. Dobbiamo unirci per riparare questo circolo vitale all’interno delle famiglie e delle comunità.
E se le parole di un uomo di 69 anni rinchiuso in prigione possono arrivare a essere lette su queste pagine, so che voi potete fare ancora meglio. Possa il Grande Spirito benedirvi e darvi forza per condividere fatiche e gioie, conoscenza e perseveranza e per ritrovare le cose che noi, cittadini della terra, abbiamo perduto: la forza per proteggere ciò che rimane e la lungimiranza per prevenire altre perdite future.
Spero sinceramente di potere essere con voi il prossimo anno e di poter stare bene tutti assieme. Per il momento, abbracciatevi l’un l’altra per me.
Il vostro fratello, sempre e in tutti i modi.
Nello Spirito di Cavallo Pazzo
Leonard Peltier
(*) Questo articolo di Marco Cinque è stato pubblicato su «il manifesto» del 26 marzo con il titolo «Prigioniero politico». In un box si ricordavano alcuni altri prigionieri politici: da Mumia Abu Jamal ai «cinque» (cioè i prigionieri cubani detenuti da 15 anni dopo una condanna farsa) al sergente Bradley Manning (che rivelò a Wikileaks molte scomode verità di guerra) ad altri meno noti come Russell «Maroon» Shoats, Marilyn Buck, Debbie Sims Africa e i MOVE9, Albert Woodfox, Bill Dunne, Byron Shane Chubbuk, Jaan Laaman, David Gilbert, Jalil Muntaqim, Hanif Shabazz Bell, Sundiata Acoli, Bashir Hameed, Rafael Cancel Miranda e tante/i altre/i. (db)

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