Memoria e futuro, una ricomposizione fra le tante possibili

di Bianca Menichelli

Per chi è sempre stato attratto da ciò di cui scrive – fra i tanti nei secoli – Giordano Bruno nel suo «De l’infinito universo e mondi» (1584) il film «Cloud Atlas» di Lana e Andy Wachowski e Tom Tynkwer è l’equivalente di una torta casalinga, senza farcitura, oggetto capace di re-suscitare sogni e utopie nascosti nelle pieghe dei nostri desideri teneramente infantili. E infatti il film inizia con il racconto del vecchio nonno. Continua snodando attraverso tre/quattro secoli 6 storie che si intersecano solo negli interpreti dei vari personaggi (monotona ripetitività della specie homo sapiens?) fino ad intrecciare e definire una Storia archetipa.

All’interno della durata del film, circa tre ore, si snoda un fiume di rimandi storici, letterari, filosofici, politici, sociali, civili, artistici, musicali che mettono lo spettatore in stato di allerta continua.

In quanto ai rimandi cinematografici, qualche citazione illustre («Blade Runner», lo splendido «Inception», «Amistad»), meno illustre («Mad Max»), qualche auto-citazione («Matrix»), con una curiosa incursione nelle scenografie cyberpunk di «Immortal ad vitam» (2004) un film del fantastico fumettista Enki Bilal, visto per caso qualche giorno fa su un canale Rai-dt. Per i viaggi nel tempo con demiurgo incorporato, anche un rimando alla serie televisiva di culto, targata Bbc, «Doctor Who».

La narrazione, all’inizio meccanica a causa dell’introduzione delle varie epoche, diventa via via più fluida e gli ingranaggi della/e storia/e si incastrano perfettamente fino alla conclusione prevedibile, con happy end di provata marca a stelle e strisce, ma solarmente catartica. Il nonno ha fatto la sua parte.

Sono due le considerazioni che il film trasmette con precisione e caparbietà: la verità è sempre rivoluzionaria e senza memoria non c’è (non ci può essere) futuro.

Il mezzo è il messaggio, come ci ha insegnato Marshall McLuhan. Questo è uno di quei casi…

Il film si intitola «Cloud Atlas» e non dirò a cosa si riferisce, sarà una sorpresa quasi commovente.

Qualcuno, o più di qualcuno, spaccerà questo film come di genere, ma anche la cosiddetta fantascienza è etichettata in tal modo. E a noi non cale! D’altra parte il titano Atlante non era condannato a tenere il mondo sulle spalle?

E’ d’obbligo qualche parola sull’autore del libro dal quale è tratto il film.

David Mitchell è uno scrittore inglese, classe 1969; al suo attivo ha pochi libri, l’ho conosciuto tramite il suo «In casa di dio» (2007, Frassinelli) che è tutto fuorché fs, a meno che non si consideri tale il percorso di crescita di un tredicenne negli anni Ottanta in una sperduta cittadina inglese al tempo di Margareth Thatcher (adesso che ci penso sì, i nostri tredici anni ci sono sembrati fantascienza: alzi la mano chi non è d’accordo).

E’ un libro che vale la pena conoscere per la fluidità del racconto, l’affresco sociale e il grado di maturità stilistica.

Leggerò presto «L’Atlante delle nuvole», sperando che sia altra cosa dal film. Sono però convinta che David Mitchell, che è stato consulente sul set, non avrà permesso radicali contaminazioni fra un medium e l’altro. Anche lui deve conoscere il buon, vecchio Marshall.

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